- Lucrezio: la vita dell'uomo primitivo -
 
 Scritto da: VeNoM00
ARTICOLO IMMAGINE


De rerum natura, libro V (vv. 925-965)

Et genus humanum multo fuit illud in arvis
durius, ut decuit, tellus quod dura creasset,
et maioribus et solidis magis ossibus intus
fundatum, validis aptum per viscera nervis,
nec facile ex aestu nec frigore quod caperetur
nec novitate cibi nec labi corporis ulla.
multaque per caelum solis volventia lustra
volgivago vitam tractabant more ferarum.
nec robustus erat curvi moderator aratri
quisquam, nec scibat ferro molirier arva
nec nova defodere in terram virgulta neque altis
arboribus veteres decidere falcibus ramos.
quod sol atque imbres dederant, quod terra crearat
sponte sua, satis id placabat pectora donum.
glandiferas inter curabant corpora quercus
plerumque; et quae nunc hiberno tempore cernis
arbita puniceo fieri matura colore,
plurima tum tellus etiam maiora ferebat.
multaque praeterea novitas tum florida mundi
pabula dura tulit, miseris mortalibus ampla.
at sedare sitim fluvii fontesque vocabant,
ut nunc montibus e magnis decursus aquai
claricitat late sitientia saecla ferarum.
denique nota vagis silvestria templa tenebant
nympharum, quibus e scibant umore fluenta
lubrica proluvie larga lavere umida saxa,
umida saxa, super viridi stillantia musco,
et partim plano scatere atque erumpere campo.
necdum res igni scibant tractare neque uti
pellibus et spoliis corpus vestire ferarum,
sed nemora atque cavos montis silvasque colebant
et frutices inter condebant squalida membra
verbera ventorum vitare imbrisque coacti.
nec commune bonum poterant spectare neque ullis
moribus inter se scibant nec legibus uti.
quod cuique obtulerat praedae fortuna, ferebat
sponte sua sibi quisque valere et vivere doctus.
et Venus in silvis iungebat corpora amantum;
conciliabat enim vel mutua quamque cupido
vel violenta viri vis atque inpensa libido
vel pretium, glandes atque arbita vel pira lecta.


Traduzione:
Un genere umano fu quello nei campi molto più duro,
come si addiceva a chi fosse da dura terra creato,
fondato all'interno su ossa più grandi e più solide,
connesso traverso le membra da nervi possenti,
e non cedeva facilmente né a caldi né a geli,
né a cibi inconsueti, né a qualche malanno del corpo.
Per innumeri cicli compiuti nel cielo dal sole,
traevano in perpetuo errare una vita da belve.
Nessuno reggeva con forza il ricurvo aratro,
nessuno col ferro sapeva dissodare le zolle,
piantare nel suolo novelli virgulti, recidere dai grandi
alberi a colpi di falce i rami vetusti.
Ciò che il sole e la pioggia donavano, e la terra creava
come offerta spontanea, bastava a placare quei petti.
Per lo più ristoravano le membra tra le querce
cariche di ghiande; e quei frutti che ancora tu vedi
d'inverno divenire maturi, le purpuree corbezzole,
allora la terra li produceva abbondanti e più grossi.
E molti rozzi alimenti forniva la florida
giovinezza del mondo, che bastavano ai miseri uomini.
A placare la sete chiamavano fiumi e sorgive,
come adesso dalle alte montagne i torrenti richiamano
d'attorno scrosciando famiglie di bestie assetate.
Infine nel loro errare svelavano e tenevano a mente
le silvestri dimore delle Ninfe, da dove sapevano
che a fiotti le acque correvano a dilavare le pietre umide,
le umide pietre stillanti di verde muschio,
e parte a sgorgare ed erompere a fior di pianura.
Non sapevano ancora trattare col fuoco gli oggetti,
servirsi di pelli, vestirsi di spoglie ferine,
ma abitavano i boschi, le selve, gli anfratti montani,
e celavano le ruvide membra in mezzo ai cespugli,
costretti a fuggire i rovesci di vento e di pioggia.
Non potevano ancora mirare al comune vantaggio,
né sapevano uso di leggi o di mutuo costume.
Ognuno la preda che il caso gli offrisse ghermiva
per sé solo, da solo, ammaestrato a durare la vita in pienezza di forze.
E nelle selve Venere congiungeva i corpi degli amanti;
piegava la donna una reciproca brama,
o la brutale violenza dell'uomo e il suo ardore sfrenato,
o un compenso di ghiande, di scelte corbezzole o pere.
(trad. L. Canali)


La fonte principale di questo brano, e in generale della seconda parte del V libro del De Rerum Natura sono gli studi antropologici di Epicuro, da cui nasce anche l'idea di fondo di questo testo: l'uomo primitivo non viveva in nella cosiddetta "età dell'oro", essa non esiste. Infatti Lucrezio qui ci mostra tutti gli aspetti più bassi, crudi e duri con cui l'umanità del tempo era costretta ad avere a che fare. L'idea dell'età dell'oro, a cui il filosofo era molto avverso, aveva avuto diffusione soprattutto nella in Grecia durante il V secolo prima di Cristo, presso la scuola di pensiero detta "illuminismo greco", nei cui testi possiamo spesso trovare descrizioni della vita primitiva fantasiose e marcatamente idilliache. La visione lucreziana tende, al contrario, a sottolineare l'aspetto improvvisato ed estremamente naturale dell'uomo, senza nessun tipo di organizzazione (coltivazione o allevamento) era costretto a nutrirsi di ciò che la terra gli offriva direttamente. E così pure la sessualità viene descritta in maniera spontanea e soprattutto istintiva.
Nel testo traspare poi il vero aspetto filosofico, il messaggio che Lucrezio intendeva trasmettere: l'uomo preistorico di tutte queste cose che la natura gli offriva era sazio e soddisfatto, al contrario della vita piena di eccessi che l'uomo "civilizzato".
 


Catullo da Lesbia
 
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