Sono una piccola stella, ho molto tempo a mia
disposizione, non lavoro ancora e sono mantenuta dalla mia famiglia.
Sia in classe che a casa mi dicono che devo studiare, costruirmi un
futuro; non fanno che ripetermi che ci sono cose che farò e capirò
solo quando sarò più grande.
Sorridendo dicono che è così che funziona il
mondo.
Se a scuola ricevo un buon voto vengo appagata da
grandi lodi. Genitori e professori mi acclamano. Devo impegnarmi a
fondo, ora non lo vedo ma devono avermi preparato un punto d'arrivo,
un fine, un obiettivo speciale. Nel frattempo più mi applico più
divento brava a ripetere. Faccio miei pensieri di poeti, filosofi,
politici e regnanti; mi scopro eccellente nell'applicare formule di
matematici e fisici, sottile nel riportare analisi di critici
affermati.
Analizzo ma non rielaboro, nessuno mi spinge a
farmi un'opinione. Pare non sia di nessun interesse, si tratta di un
meccanismo collaterale più osteggiato che incoraggiato.
Mi chiamo Martina e il mio lavoro è lo studio, non
posso e non devo parlare mentre gli insegnanti mi erudiscono. Passo
ore ed ore ad ascoltare saggezza del passato tramutata in sapienza e
da sapienza in nozione.
L'ascolto silenzioso è la mia principale
occupazione.
Memorizzo sinteticamente ogni cosa: quelle che non
capisco, quelle che non condivido e quelle su cui non ho opinioni.
Dopo ore ad apprendere devo eseguire i compiti assegnati e studiare
le lezioni. Da ignorante che ero vengo istruita. Ogni alveolo vuoto
del mio cervello viene riempito da api operose con concetti comuni a
tutti: ai miei compagni e ai miei connazionali.
La mia mente viene colmata di opinioni che non ho
bisogno di sottoporre a giudizio.
Ho l'impressione di acquisire molta sapienza. Ho una
sola difficoltà: non mi hanno mai stimolata ad applicare la saggezza
quindi avverto sempre più come inalterabili le nozioni che mi
definiscono. Non riscontro più arricchimento, solo appesantimento.
Nessuno mi chiede mai un parere su ciò che con
dedizione studio. Penso di essere troppo acerba per formulare un mio
punto di vista.
Così chiudo gli occhi e metabolizzo la situazione, mi convinco di essere
superiore a chi sa meno di me. Mi compiaccio con lustro sorriso
della mia superiorità, la scuola mi sta facendo grande. Tra il volgo
cammino a
testa alta e guardo in basso solo con supponenza. Questo mi dà
appagamento, non devo far altro che ripetere per ricevere
ammirazione. E' una piccolo bugia ma non me ne persuado, le splendenti nozioni che lascio scivolare
tra le corde vocali sono una melodia che mi appartiene.
Tutti sono stupiti e contenti quando ripeto ciò
che già conoscono. Poi il malaugurato "fattaccio".
In un attimo di solitudine ecco spuntare una "visione creativa", un'idea che sono certa nessuno
ha
mai avuto, non nei film, non nei libri, da nessuna parte. Sono al
settimo cielo, la voglio realizzare; gioia e tripudio, ho creato
qualcosa che prima non esisteva, devo parlarne con qualcuno. Ci
provo ma non è facile aprirmi, non ho parametri di giudizio o di
estensione di un'idea. Nessuno me li ha dati.
Mi rivolgo ai miei genitori, mi fido di loro, non mi
aspetto l'imponderabile; dopo poche parole i due si scambiano uno
triste sguardo
d'intesa, prendono a fissarmi con occhi spenti, con una disillusione
mai vista prima. Penso sia colpa mia e sfodero tutto il mio
entusiasmo ma loro, inaspettatamente, si adirano, mi dicono che
l'hanno già pensata questa cosa, che non ha un futuro, che li deludo, che dovrei concentrarmi sugli studi che a caro prezzo mi hanno
pagato.
Lo ripetono di continuo che non me lo vogliono far
pesare.
Prigioniera dalla delusione piango piccole lacrime,
in silenzio, di notte o quando sono sola. Tutto è così assurdo. Il
tempo passa e loro cercano di farsi perdonare ma insistono
amorevolmente a dirmi che è rischioso, che non ce la farei, che non
c'è speranza. Un pomeriggio li scopro, origliando dalla porta, ad
accordarsi su machiavelliche strategie per fare in modo che io cambi
idea. Li osservo dalla serratura mentre assumono volti verde
preoccupazione. Parlano a bassa voce, è per me una visione surreale.
Ripetono che, per il mio bene, devono guidare la mia vita, che non
devo commettere i loro stessi errori.
Quali errori? Li sorprendo a non fidarsi di me. Io
che non li ho mai traditi.
Progettano, operano per garantire a loro e a me che io non abbia
mai abbastanza libertà da seguire le mie emozioni, commettere
imprudenze. Mentre credo di
essere libera, mentre cerco di esplorare quello che credevo un mio
territorio, mi accorgo di non cavalcare in una prateria ma di essere
seduta in un piccolo ufficio senza finestre.
Affronto il problema.
Affronto i miei educatori, esploro l'ira, la
frustrazione, l'abbattimento. Si scusano, mi parlano del mio bene,
di evenienze funeste, di probabili guai, mi spaventano. Distruggono
tutto ma sanno come consolarmi, sanno come prendermi e mi
propongono un patto, un allettante ricatto.
Lusingata da ciò che mi offrono e abbattuta da
rischi concreti: accetto. A malincuore rinuncio al mio sogno. Voglio
vederli sorridere di nuovo.
Dopo altre situazioni analoghe entro nella loro
mentalità, riconosco la pericolosità delle idee divergenti, capisco che avrei
rischiato troppo e mi decido. Devo riprendere la via tracciata, devo riallinearmi allo schema che i miei educatori hanno stabilito per
me. Chiudo la mia mente, decido di diventare seria, imparo a negare,
ad obbedire senza convinzione, ad apprezzare le comodità della
scontatezza e dell'assenza di cimento.
Imparo a drogarmi di "assenza", annullo il mio
cervello tenendolo infinitamente occupato in faccende varie: tv,
internet, sport, hobby, lavoretti e superstizioni. Non mi devo
lagnare, i miei genitori spendono molti soldi per me, credono in me,
non ho mai fallito e non posso deluderli adesso.
Disillusione
Che valore ha il denaro?
Devo finire gli studi, trovare un buon lavoro comune.
I soldi non devono essere il mio unico pensiero ma devo farne molti,
il più possibile, deve essere il mio obiettivo discreto, il valore
della mia persona sarà segretamente proporzionale al mio conto in
banca.
Cresco e via via escludo tutto ciò che mi induce a
riflettere su me stessa, rifiuto chi ci riesce e lo faccio
rientrare in categorie a me ostili o indifferenti. Non fa più
tanto male sapere che rientro in un preciso disegno, il mio senno
mi viene in aiuto censurando ogni cosa. Per certi versi sto
diventando un po' come i miei genitori ma non so più distinguere se
sia un bene o un male.
Sento che manca qualcosa nella mia esistenza,
qualcosa che mi hanno sottratto. Il punto è che non ricordo più
cosa.
Ora sto qui, aspetto il treno in stazione. Aspetto
che passi un diretto verso un esistere straordinario... Ma non
arriva, è in ritardo, in estremo ritardo. Più il tempo passa uguale
a se stesso e più mi convinco, nel mio intimo, che sono io ad averlo
perso.
Arriva il treno merci, carico di carbone
Sono diventata donna. Vorrei novità nella mia vita,
qualcosa che però non mi forzi a mettermi in gioco, aspetto di
vincere all'ennesima lotteria di Stato, di trovare una persona che
mi valorizzi, che rimanga stupita dalle qualità che non ho più, che
non posseggo ma
che ricordo.
Aspetto un facile gioco che dia senso alle mie
"ali mozzate".
Sono madre da tempo. Ho nuove rughe ogni giorno, un
lavoro che non mi esprime, una vita che non ho scelto... Devo tenere
nascosto il mio dolore, a me e ai miei figli. Ora che i miei
genitori se ne sono andati la mia vita sono loro.
Devo essere forte. Devo convincermi ancora una
volta che è andata bene così. Come potrei... Come potrei guidarli altrimenti?
Scritto da:
aFiGoZ