- Il suicidio nella Grecia antica -
 

Aristotele
 
Il suicidio nella Grecia antica

Gli antichi filosofi greci giudicavano negativamente il suicida, definito un "disertore della vita". Già Platone condanna fermamente il suicidio, eccezion fatta se compiuto per qualche ragione ineluttabile, ritenendolo un crimine ingiusto e vergognoso. Scriverà infatti:

"Ma chi uccide la cosa che gli è più propria, la cosa che, si dice comunemente, gli è più cara? Che cosa dovrà patire? E intendo chi se stesso uccide, sottraendosi con violenza al destino che gli è assegnato; chi compie tale delitto, senza che la Città lo abbia condannato a morire, senz'esser costretto da qualche caso inevitabile e angoscioso; senz'esser stato colpito da qualche ignominia che non ha rimedio e tale che renda impossibile la vita; chi per inerzia e viltà e debolezza impone a se stesso ingiusta sentenza. Certo Iddio conosce la procedura per la purificazione e per la sepoltura di costui. A questo proposito, gli interpreti e le leggi, a ciò relative, saranno interrogate a cura dei parenti più vicini che dovranno comportarsi secondo le date istruzioni. In quanto alla sepoltura di chi si è in tal modo distrutto, sarà, intanto, isolata e non ci sarà nessuna altra tomba vicina; in secondo luogo (...), in quei posti che non sono lavorati; senza nome e senza pompa si dovrà seppellir lo sciagurato, senza lapidi e senza iscrizioni che ne distinguano la fossa" [1].

Della stessa opinione è il suo discepolo Aristotele, che esprime il proprio giudizio in merito nel terzo libro dell'Etica Nicomachea. In esso il filosofo definisce la volontarietà e l'involontarietà dell'azione: involontario è ciò che si compie per ignoranza o costrizione; ma non è da queste ultime che deriva il male, bensì dalla conoscenza di un fine buono e la volontà propria di non perseguirlo (come invece il virtuoso dovrebbe disporsi a fare). Dunque il suicida, colui che decide volontariamente di togliersi la vita, è considerato vile, in quanto arrecante danno alla società, fuggitivo nei confronti dei travagli della vita e, soprattutto, consapevole di ciò: "Invece il morire per fuggire la povertà o la passione amorosa o qualcosa di doloroso non è di un uomo coraggioso, ma piuttosto di un vile: è infatti debolezza lo sfuggire ai travagli e chi s'uccide agisce non per affrontare una prova decorosa, bensì per fuggire un male" [2]. Tale concezione verrà tuttavia modificata in seguito all'affermarsi delle tre scuole di filosofia ellenica, in particolare dello stoicismo.

 

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