- De rerum natura -
 
TESTO COMPLETO
Lucrezio


De rerum natura

LIBRO I

Genitrice degli Eneadi, piacere degli uomini e degli dèi,
Venere datrice di vita, che sotto i corsi celesti degli astri
dovunque avvivi della tua presenza il mare percorso dalle navi,
le terre fertili di messi, poiché grazie a te ogni specie di viventi
è concepita e, sorta, vede la luce del sole -
te, o dea, te fuggono i venti, te le nuvole del cielo,
e il tuo arrivare; a te soavi fiori sotto i piedi fa spuntare
l'artefice terra, a te sorridono le distese del mare
e placato splende di un diffuso lume il cielo.
Ché appena è dischiuso l'aspetto primaverile del giorno
e, disserrato, si ravviva il soffio del fecondo zefiro,
prima gli aerei uccelli te, o dea, e il tuo giungere annunziano,
colpiti nei cuori dalla tua potenza.
Poi fiere e animali domestici bàlzano per i pascoli in rigoglio
e attraversano a nuoto i rapidi fiumi; così preso dal fascino
ognuno ti segue ardentemente dove intendi condurlo.
Infine, per i mari e i monti e i fiumi rapinosi
e le frondose dimore degli uccelli e le pianure verdeggianti,
a tutti infondendo nei petti carezzevole amore,
fai sì che ardentemente propaghino le generazioni secondo le stirpi -
poiché tu sola governi la natura
e senza di te niente sorge alle celesti plaghe della luce,
niente si fa gioioso, niente amabile,
te desidero compagna nello scrivere i versi
ch'io tento di comporre sulla natura
per il nostro Memmiade, che tu, o dea, in ogni tempo
volesti eccellesse ornato di ogni dote.
Tanto più dunque, o dea, da' ai miei detti fascino eterno.
Fa' sì che frattanto i fieri travagli della guerra,
per i mari e le terre tutte placati, restino quieti.
Tu sola infatti puoi con tranquilla pace giovare
ai mortali, poiché sui fieri travagli della guerra ha dominio
Marte possente in armi, che spesso sul tuo grembo
s'abbandona vinto da eterna ferita d'amore;
e così, levando lo sguardo, col ben tornito collo arrovesciato,
pasce d'amore gli avidi occhi anelando a te, o dea,
e, mentre sta supino, il suo respiro pende dalle tue labbra.
Quando egli sta adagiato sul tuo corpo santo, tu, o dea,
avvolgendolo dall'alto, effondi dalla bocca soavi parole:
chiedi, o gloriosa, pei Romani placida pace.
Ché in tempi avversi per la patria non possiamo noi compiere
quest'opera con animo sereno, né l'illustre progenie di Memmio
può in tali frangenti mancare alla comune salvezza.
Infatti è necessario che ogni natura divina goda
di per sé vita immortale con somma pace,
remota dalle nostre cose e immensamente distaccata.
Ché immune da ogni dolore, immune da pericoli,
in sé possente di proprie risorse, per nulla bisognosa di noi,
né dalle benemerenze è avvinta, né è toccata dall'ira.

*

Quanto al resto, presta alla vera dottrina orecchie sgombre
‹ed animo sagace›, scevro d'affanni,
affinché non abbandoni con disprezzo, prima di averli intesi,
i miei doni disposti per te con cura fedele.
Ché mi accingo ad esporti la suprema dottrina
del cielo e degli dèi, e ti rivelerò i primi principi delle cose,
da cui la natura produce tutte le cose, le accresce e alimenta,
e in cui la stessa natura di nuovo risolve le cose dissolte:
questi nell'esporre la dottrina noi siamo soliti chiamare
materia e corpi generatori delle cose,
e li denominiamo semi delle cose, e inoltre li designamo
corpi primi, perché tutto da essi primamente ha esistenza.
La vita umana giaceva sulla terra alla vista di tutti
turpemente schiacciata dall'opprimente religione,
che mostrava il capo dalle regioni celesti,
con orribile faccia incombendo dall'alto sui mortali.
Un uomo greco per la prima volta osò levare contro di lei
gli occhi mortali, e per primo resistere contro di lei.
Né le favole intorno agli dèi, né i fulmini, né il cielo
col minaccioso rimbombo lo trattennero: anzi più gli accesero
il fiero valore dell'animo, sì che volle, per primo,
infrangere gli stretti serrami delle porte della natura.
Così il vivido vigore dell'animo prevalse,
ed egli s'inoltrò lontano, di là dalle fiammeggianti mura del mondo,
e il tutto immenso percorse con la mente e col cuore.
Di là, vittorioso, riporta a noi che cosa possa nascere,
che cosa non possa, infine in qual modo ciascuna cosa
abbia un potere finito e un termine, profondamente confitto.
Quindi la religione è a sua volta sottomessa e calpestata,
mentre noi la vittoria uguaglia al cielo.
Questo, a tale proposito, io temo: che per caso tu creda
d'essere iniziato ai fondamenti d'una dottrina empia e d'entrare
nella via della scelleratezza. Mentre per contro assai spesso proprio
essa, la religione, cagionò azioni scellerate ed empie.
Così in Aulide l'altare della vergine Trivia
col sangue d'Ifianassa turpemente macchiarono
gli eletti condottieri dei Danai, il fiore degli eroi.
Appena la benda avvolta attorno alla bella chioma virginea
le scese lungo le guance in due liste uguali,
appena si accorse che il padre stava mesto innanzi all'altare,
e accanto a lui i sacerdoti celavano il ferro,
e il popolo effondeva lacrime alla sua vista,
muta di terrore, piegate le ginocchia, crollava a terra.
Né alla misera in tale frangente poteva giovare
l'aver dato per prima al re il nome di padre.
Ché sollevata dalle mani dei guerrieri e tremante
fu portata all'altare, non già perché, compiuto il rito solenne,
potesse essere accompagnata al suono dello splendido imeneo,
ma perché pura impuramente, nel tempo stesso delle nozze,
cadesse vittima mesta immolata per mano del padre,
e così fosse data alla flotta partenza felice e fausta.
A tali misfatti poté indurre la religione.--------
Tu stesso, una volta o l'altra, vinto dai detti terrificanti
dei vati, cercherai di staccarti da noi.
Quanti sogni difatti essi possono ora inventarti,
tali da poter sovvertire la condotta della vita
e turbare col timore tutta la tua sorte!
E a ragione. Ché, se gli uomini vedessero che esiste un termine
fisso per le loro pene, in qualche modo potrebbero avere
la forza di opporsi alle paure superstiziose e alle minacce dei vati.
Ora non c'è nessun modo di resistere, nessuna facoltà,
perché si devono temere nella morte pene eterne.
S'ignora infatti quale sia la natura dell'anima,
se sia nata o al contrario s'insinui nei nascenti,
se perisca insieme con noi disgregata dalla morte
o vada a vedere le tenebre di Orco e gli immani abissi,
o per volere divino s'insinui in animali d'altra specie,
come cantò il nostro Ennio, che primo portò giù
dall'ameno Elicona una corona di fronda perenne,
che doveva aver chiara fama tra le genti italiche;
e tuttavia Ennio inoltre espone, dichiarandolo in versi immortali,
che esistono le regioni acherontee,
fin dove non permangono né le anime, né i corpi nostri,
ma certi simulacri mirabilmente pallidi;
di là racconta che sorse innanzi a lui l'immagine di Omero
sempre fiorente e cominciò a versare lacrime amare
e a rivelare con le sue parole la natura.
Perciò, come dobbiamo esattamente renderci conto
delle cose celesti, in qual modo avvengano i moti
del sole e della luna, e per qual forza si svolga ogni cosa
in terra, così e in primo luogo dobbiamo vedere con sagace ragionare
di che sian fatte l'anima e la natura dell'animo,
e quale cosa, venendo incontro a noi mentre siamo svegli
e affetti da malattia oppure sepolti nel sonno, atterrisca
le nostre menti, sì che ci pare di vedere e udire da presso
i morti di cui la terra abbraccia le ossa.
Né alla mia mente sfugge che è difficile illustrare
in versi latini le oscure scoperte dei Greci,
tanto più che di molte cose bisogna trattare con parole nuove,
per la povertà della lingua e la novità degli argomenti;
ma il tuo valore tuttavia e lo sperato piacere
della soave amicizia mi persuadono a sostenere qualsiasi fatica
e m'inducono a vegliare durante le notti serene,
cercando con quali detti e con quale canto alfine
io possa accendere innanzi alla tua mente una chiara luce,
per cui tu riesca a scrutare a fondo le cose occulte.
Questo terrore dell'animo, dunque, e queste tenebre
non li devono dissolvere i raggi del sole, né i lucidi dardi
del giorno, ma l'aspetto e l'intima legge della natura.
Il cui principio prenderà per noi l'avvìo da questo:
che nessuna cosa mai si genera dal nulla per volere divino.
Certo per ciò la paura domina tutti i mortali:
perché vedono prodursi in terra e in cielo molti fenomeni
di cui in nessun modo possono scorgere le cause,
e credono che si producano per volere divino.
Pertanto, quando avremo veduto che nulla si può creare
dal nulla, allora di qui penetreremo più sicuramente
ciò che cerchiamo, e donde si possa creare ogni cosa
e in qual modo tutte le cose avvengano senza interventi di dèi.
Infatti, se dal nulla si producessero, da tutte le cose
potrebbe nascere ogni specie, nulla avrebbe bisogno di seme.
E anzitutto dal mare gli uomini, dalla terra potrebbero sorgere
le squamose specie dei pesci, e gli uccelli erompere dal cielo;
gli armenti e le altre greggi, ogni specie di fiere, partoriti
qua e là senza regola, occuperebbero luoghi coltivati e deserti.
Né sugli alberi comunemente permarrebbero gli stessi frutti,
ma si muterebbero, tutti gli alberi tutto potrebbero produrre.
E in verità, se non esistessero corpi generatori per ciascuna specie,
come potrebbero le cose avere costantemente una madre propria?
Ma ora invece, poiché tutte le cose sono create da semi
determinati, ciascuna nasce ed esce alle plaghe della luce
dal luogo che ha in sé la materia e i corpi primi ad essa propri;
ed è appunto per ciò che non possono da tutte le cose essere generate
tutte le cose, perché ogni cosa determinata ha in sé una facoltà distinta.
Inoltre, per qual motivo in primavera la rosa, d'estate il frumento,
all'invito dell'autunno le viti vediamo in rigoglio,
se non perché, quando determinati semi di cose confluirono
nel tempo loro proprio, allora si schiude ogni cosa creata,
mentre sono in corso stagioni favorevoli e la terra ricca di vita
produce senza pericolo le tenere cose alle plaghe della luce?
Ma, se dal nulla nascessero, improvvisamente sorgerebbero,
con intervallo incerto e in parti dell'anno non proprie a loro,
giacché allora non ci sarebbero primi principi che la stagione
avversa potesse tener lontani dall'aggregazione generatrice.
Né poi per la crescita delle cose ci sarebbe bisogno del tempo
occorrente al confluire dei semi, se potessero crescere dal nulla.
Ché da piccoli infanti diverrebbero sùbito giovani, e gli alberi,
appena spuntati dalla terra, si leverebbero in alto d'improvviso.
Ma è manifesto che nulla di ciò accade, giacché tutte le cose
crescono a poco a poco, com'è naturale per quel che nasce da un seme certo,
e crescendo conservano i caratteri della specie; sì che puoi riconoscere
che ogni cosa ingrandisce e si alimenta di materia propria.
A ciò si aggiunge che senza piogge in determinate stagioni
la terra non può far crescere i frutti giocondi;
e così la natura degli animali, se vien privata di cibo,
non può propagare la specie e conservarsi in vita;
quindi è meglio pensare che molti elementi son comuni a molte
cose, come vediamo che le lettere sono comuni alle parole,
piuttosto che pensare che alcuna cosa possa esistere senza primi principi.
Per di più, perché la natura non poté formare uomini tanto grandi
da poter coi piedi passare a guado il mare
e con le mani divellere grandi monti
e vivendo superare molte generazioni di viventi,
se non perché al nascere delle cose è assegnata una materia
determinata, da cui resta fissato cosa possa sorgere alla vita?
Bisogna dunque riconoscere che nulla può esser prodotto dal nulla,
poiché alle cose è necessario un seme, da cui creata
ciascuna possa protendersi ai leggeri soffi dell'aria.
Infine, poiché vediamo che i luoghi coltivati prevalgono
sugli incolti e rendono alle mani frutti migliori,
è evidente che nella terra ci sono primi principi delle cose
che noi, rivoltando col vomere le glebe feconde
e domando il suolo della terra, stimoliamo alla germinazione.
Se non ci fossero, vedresti ogni cosa senza nostra fatica
spontaneamente diventare molto migliore.
A ciò si aggiunge che la natura dissolve ogni corpo di nuovo
nei suoi elementi e non distrugge le cose fino ad annientarle.
Ché se qualcosa fosse mortale in tutte le parti,
ogni cosa perirebbe d'improvviso rapita ai nostri occhi.
Non ci sarebbe infatti bisogno di alcuna forza capace di produrre
la disgregazione delle sue parti e di scioglierne i legami.
Ma ora, poiché le cose constano tutte di semi eterni,
fintantoché non sia andata contro di loro una forza che le spezzi
con l'urto o penetri addentro per i vuoti e le dissolva,
di nessuna la natura lascia che si veda la fine.
Inoltre, quanto il tempo toglie via per vecchiezza,
se interamente lo annienta consumandone tutta la materia,
donde Venere riconduce alla luce della vita le stirpi animali
specie per specie, o donde, ricondotte, l'artefice terra
le alimenta e accresce, offrendo nutrimenti specie per specie?
Donde riforniscono il mare fonti native e dall'esterno fiumi
provenienti di lontano? Donde l'etere pasce gli astri?
Infatti tutto ciò che ha un corpo mortale dovrebbero
averlo già consumato il tempo infinito e i giorni trascorsi.
Che se per tutta la durata del tempo trascorso esistettero
gli elementi di cui consiste, dopo essersi rinnovato, questo
universo, d'immortale natura sono certo dotati:
non può dunque ogni cosa ridursi al nulla.
Per di più, una stessa forza e causa distruggerebbe comunemente
tutte le cose, se non le tenesse insieme una materia eterna,
meno o più ristretta nelle connessioni delle sue parti.
Un contatto infatti sarebbe certo sufficiente causa di morte,
giacché non ci sarebbero elementi dotati di corpo eterno,
dei quali una forza appropriata dovesse dissolvere l'aggregazione.
Ma ora, poiché connessioni dissimili stringono tra loro
i principi, e la materia è eterna,
le cose conservano incolume il corpo, finché non si presenti
una forza che sia abbastanza gagliarda in proporzione alla tessitura di ciascuna.
Non ritorna dunque al nulla alcuna cosa, ma tutte
per disgregazione ritornano agli elementi della materia.
Infine, scompaiono le piogge, quando il padre etere
le ha precipitate nel grembo della madre terra; ma ne sorgono
splendide messi, e i rami degli alberi rinverdiscono,
gli alberi stessi crescono e si caricano di frutti;
di qui si alimentano poi la nostra specie e quella delle fiere,
di qui gioconde città vediamo fiorire di fanciulli,
e frondose selve d'ogni parte risuonare dei canti di nuovi uccelli;
di qui le greggi s'impinguano e stanche distendono i corpi
sui pascoli rigogliosi, e il candido umore del latte
stilla dalle mammelle turgide; di qui una prole novella
con membra malferme allegramente ruzza tra l'erba
tenera, di latte puro inebriata la mente giovinetta.
Non perisce dunque del tutto ogni cosa che pare perire,
poiché la natura rinnova una cosa dall'altra e non comporta
che alcuna si generi se non l'aiuta la morte di un'altra.
E ora, poiché ho mostrato che le cose non si possono creare
dal nulla e parimenti che, una volta generate, non possono ridursi
al nulla, affinché tu non cominci per caso a diffidare tuttavia
delle mie parole, perché i primi principi delle cose non possono
essere scorti con gli occhi, ascolta quali altri corpi è necessario
che tu stesso riconosca esistenti nella realtà eppure non visibili.
Anzitutto la forza sfrenata del vento sferza il mare
e travolge grosse navi e disperde le nuvole,
e talvolta, percorrendo con rapinoso turbine i campi,
grandi alberi vi abbatte e sparge, e contro le vette dei monti
si avventa con raffiche che schiantano le selve: tanto infuria
con fremito violento e imperversa con minaccioso rombo il vento.
Esistono dunque, senza dubbio, invisibili corpi di vento,
che spazzano il mare e le terre e alfine le nuvole in cielo
e, con subitaneo turbine avventandosi, le trascinano via;
e scorrono e spargono strage, non altrimenti che quando
la molle natura dell'acqua si rovescia d'improvviso
con corso straripante: per piogge dirotte la ingrossa
un gran defluire d'acque giù dagli alti monti,
che scaglia rottami di piante ed alberi interi;
né solidi ponti possono reggere all'assalto subitaneo
dell'acqua che incalza: tanto il fiume, torbido per grandi
piogge, investe gli argini con forza possente;
con grande fragore li abbatte, e travolge sotto le onde grossi
macigni, rovescia ogni cosa che oppone ostacolo ai suoi flutti.
Così dunque devono infuriare anche i soffi del vento,
che, quando come un fiume possente sono piombati verso
una qualsiasi parte, cacciano le cose innanzi a sé e le abbattono
con assalti frequenti, talvolta con vortice tortuoso le afferrano
e rapinosi con roteante turbine le trasportano.
Perciò, ancora e ancora, esistono invisibili corpi di vento,
giacché nei fatti e nei caratteri si scoprono emuli
dei grandi fiumi, che hanno corpo visibile.
Inoltre noi sentiamo i vari odori delle cose e tuttavia
non li discerniamo mai mentre vengono alle narici,
né scorgiamo le emanazioni di calore, né possiamo cogliere
con gli occhi il freddo, né ci avviene di vedere i suoni;
e tuttavia tutte queste cose è necessario che constino
di natura corporea, perché possono colpire i sensi.
Nessuna cosa infatti può toccare ed essere toccata, se non è un corpo.
Ancora, sospese sul lido contro cui s'infrangono i flutti,
le vesti s'inumidiscono, sciorinate al sole s'asciugano.
Ma non s'è veduto in che modo l'umore dell'acqua sia penetrato,
né in che modo sia poi fuggito per effetto del calore.
L'umore dunque si sparge qua e là in piccole parti,
che gli occhi non possono vedere in alcun modo.
Per di più, nel corso di molti anni solari l'anello,
a forza d'essere portato, si assottiglia dalla parte che tocca il dito;
lo stillicidio, cadendo sulla pietra, la incava; il ferreo vomere
adunco dell'aratro occultamente si logora nei campi;
e le strade lastricate con pietre, le vediamo consunte
dai piedi della folla; e poi, presso le porte, le statue
di bronzo mostrano che le loro mani destre si assottigliano
al tocco di quelli che spesso salutano e passano oltre.
Che queste cose dunque diminuiscano, noi lo vediamo,
perché son consunte. Ma quali particelle si stacchino in ogni
momento, l'invidiosa natura della vista ci precluse di vederlo.
Infine tutto ciò che il tempo e la natura aggiungono alle cose
a poco a poco, facendole crescere proporzionatamente,
nessun acume di occhi, benché si sforzi, può scorgerlo;
né d'altra parte potresti discernere tutto ciò che invecchia
per l'età e la macilenza, né cosa perdano in ciascun momento
gli scogli che sovrastano il mare, corrosi dall'avido sale.
Mediante corpi invisibili, dunque, opera la natura.
Né tuttavia da ogni parte tutte le cose sono compatte,
occupate dalla natura corporea: infatti esiste nelle cose il vuoto.
Sapere questo ti sarà utile in molti casi,
e non lascerà che errando dubiti e faccia sempre ricerche
sull'universo e diffidi delle nostre parole.
Esiste dunque uno spazio che non si può toccare, ciò che è vuoto
e libero. Se non esistesse, in nessun modo potrebbero le cose
muoversi; infatti quella che è la funzione propria del corpo,
opporsi e fare ostacolo, sarebbe presente in ogni momento
in tutte le cose; nulla dunque potrebbe avanzare,
perché nessuna cosa comincerebbe a cedere il posto.
Ora, al contrario, per i mari e le terre e le eccelse plaghe del cielo,
molte cose in molti modi, per vari motivi, vediamo muoversi
innanzi ai nostri occhi, che, se non esistesse il vuoto,
non tanto sarebbero del tutto prive dell'inquieto movimento,
quanto non sarebbero state assolutamente, in alcun modo, generate,
perché la materia da ogni parte compatta sarebbe rimasta quieta.
Inoltre, per quanto solide si reputino le cose, da questo tuttavia
puoi vedere che sono di corpo in cui è frammisto il vuoto.
In rocce e spelonche s'infiltra il liquido umore dell'acqua
e dappertutto vi piangono abbondanti gocce.
In tutto il corpo degli esseri viventi il cibo si propaga.
Crescono gli alberi e a tempo debito producono i frutti,
perché il cibo ogni loro parte pervade, fin dalle profonde
radici diffondendosi per i tronchi e per i rami tutti.
Passano le voci per le pareti e trasvolano il chiuso
delle case, il rigido freddo penetra fin dentro le ossa.
Tutto ciò, non lo vedresti in alcun modo avvenire,
se non ci fossero vuoti per cui i vari corpi potessero passare.
Infine, perché vediamo che alcune cose sopravanzano altre
nel peso, pur non avendo affatto dimensioni maggiori?
Infatti, se in un gomitolo di lana c'è tanta quantità di materia
quanta ce n'è in un uguale pezzo di piombo, è naturale che pesi altrettanto,
perché è proprietà della materia premere ogni cosa verso il basso,
mentre al contrario la natura del vuoto rimane senza peso.
Dunque, ciò che è grande ugualmente e si trova più leggero,
senza dubbio manifesta di contenere una parte maggiore di vuoto;
per contrario, ciò che è più pesante, indica di contenere una parte
maggiore di materia e di aver dentro una molto minore parte di vuoto.
Esiste dunque, senza dubbio, mescolato nelle cose quel che noi
cerchiamo con ragionare sagace, quel che chiamiamo vuoto.
A questo proposito, è necessario che io prevenga, perché non possa
trarti lontano dal vero, ciò che alcuni vanno fantasticando.
Dicono che le acque cedono alla spinta degli esseri squamosi
e aprono liquide vie, perché i pesci lasciano dietro di sé
luoghi dove le onde che cedono possono confluire:
così anche altre cose possono muoversi e mutar luogo
scambievolmente, quantunque il tutto sia pieno.
Ma certo ciò è stato creduto per un ragionamento in tutto falso.
Infatti, dove mai potranno gli esseri squamosi avanzare,
se le acque non hanno lasciato spazio vuoto? E d'altra parte,
dove potranno ritrarsi le onde, quando i pesci non potranno andare avanti?
Dunque, bisogna o negare il movimento a ogni corpo
o dire che alle cose è commisto il vuoto e che da questo
ciascuna cosa prende l'inizio primo del movimento.
Infine, se due corpi larghi e piatti, dopo essersi scontrati
combaciando, con brusco rimbalzo si distaccano, certo è necessario
che l'aria occupi tutto il vuoto che si produce tra i due corpi.
Ma, per quanto essa confluisca tutt'intorno con celeri correnti,
tuttavia non potrà lo spazio esserne riempito tutto in un solo
istante: è necessario infatti che essa occupi il luogo
che via via le sta più vicino, e poi prenda possesso dell'intera
estensione. Che se per caso qualcuno pensa che ciò avvenga
quando i corpi si sono distaccati, per il condensarsi dell'aria,
erra; infatti allora si produce un vuoto che prima
non c'era, e insieme si riempie ciò che prima era vuoto,
né in tal modo può addensarsi l'aria,
e, se pure potesse, non potrebbe, credo, senza il vuoto
contrarsi in sé e raccogliere le sue parti in un punto solo.
Perciò, per quanto tu indugi adducendo molti pretesti,
è necessario tuttavia che ammetta che esiste nelle cose il vuoto.
E io potrei, rammentandoti molti altri argomenti,
riuscire a strappare il tuo assenso ai miei detti.
Ma ad una mente sagace queste piccole orme sono
sufficienti: con esse tu stesso puoi conoscere il resto.
E infatti come i cani spesso col fiuto scoprono il covile
coperto di fronde di una fiera che vaga sui monti,
una volta che si son messi sulle tracce d'una via sicura,
così in tali questioni potrai tu stesso, da solo, passare
da una conoscenza all'altra e addentrarti in tutte
le cieche latebre e trarne fuori il vero.
Ma se sei pigro o ti ritrai un poco dalla cosa,
questo posso senz'altro prometterti, o Memmio:
così larghi sorsi, attinti alle grandi fonti,
la lingua soave verserà dal mio petto colmo,
ch'io temo che la tarda vecchiezza serpeggi
per le membra e sciolga in noi i vincoli della vita,
prima che su una qualsiasi singola cosa tutta la quantità
delle prove ti sia coi versi trasmessa per le orecchie.
Ma ora, perché io riprenda a intessere con le parole il lavoro
intrapreso, tutta la natura dunque, come è per sé stessa,
consiste di due cose: ci sono infatti i corpi e il vuoto,
in cui quelli son posti e attraverso cui si muovono per diverse vie.
Infatti, che il corpo esista, lo indica di per sé il senso
di cui tutti siamo dotati; se non avrà anzitutto valore
la fede in questo, ben fondata, non esisterà, quando tratteremo
di cose occulte, nulla a cui riferendoci possiamo provare qualcosa
col ragionare della mente. E poi, se non esistesse l'estensione
e lo spazio, che chiamiamo vuoto, i corpi non potrebbero esser posti
in alcun luogo, né assolutamente muoversi verso alcun punto,
per diverse vie: ciò che già sopra, poc'anzi, ti abbiamo dimostrato.
Oltre a questi, non c'è cosa che tu possa dire disgiunta
da ogni corpo e separata dal vuoto,
e che risulti costituente quasi una terza natura.
Infatti, qualunque cosa esisterà, dovrà essere qualche cosa per sé stessa.
E se essa sarà tangibile, per quanto in modo leggero ed esiguo,
accrescerà, con un accrescimento grande o anche piccolo,
purché esista, il numero dei corpi e si aggiungerà alla loro somma.
Se invece sarà intangibile, perché da nessuna parte potrà impedire
a una cosa, che cerca di passare per essa, di attraversarla,
evidentemente questo sarà ciò che chiamiamo libero vuoto.
Inoltre, qualunque cosa esisterà per sé stessa, o farà qualcosa
o, agendo altri, dovrà essa stessa subire, oppure sarà tale
che in essa le cose possano esistere e svolgersi.
Ma fare e subire non può alcuna cosa senza corpo, né offrire
luogo può alcuna cosa, tranne lo spazio vuoto e libero.
Dunque, oltre il vuoto e i corpi, non si può lasciare nel novero
delle cose nessuna terza natura esistente per sé stessa,
né tale che cada in alcun tempo sotto i nostri sensi,
né tale che qualcuno possa giungervi col ragionare della mente.
Infatti tutte le cose che hanno un nome, o le troverai proprietà
di queste due cose o vedrai che sono loro accidenti.
Proprietà è ciò che in nessun caso si può disgiungere
e separare senza un distacco distruttore: tale è la pesantezza
per i sassi, il calore per il fuoco, la liquidità per l'acqua,
la tangibilità per tutti i corpi, l'intangibilità per il vuoto.
Al contrario, servitù, povertà e ricchezza,
libertà, guerra, concordia, e tutte le altre cose di cui
l'arrivo e la partenza lasciano incolume la natura della cosa,
siamo soliti chiamarle, come è naturale, accidenti.
Anche il tempo non esiste per sé, ma dalle cose stesse
deriva il senso di ciò che si è svolto nel tempo,
poi di ciò che è presente, infine di ciò che segue più tardi.
E bisogna riconoscere che nessuno avverte il tempo per sé,
separato dal movimento e dalla placida quiete delle cose.
Ancora, quando dicono che "il ratto della Tindaride" e il "soggiogamento
delle genti troiane in guerra" esistono, bisogna badare
che per avventura non ci costringano a riconoscere che queste cose
esistano per sé, poiché quelle generazioni di uomini, di cui queste
furono accidenti, le tolse via, irrevocabile, l'età già passata.
Giacché qualunque cosa si sarà compiuta, potrà essere detta
accidente, in un caso, in un altro delle regioni stesse.
Infine, se non fosse esistita la materia delle cose,
né il luogo e lo spazio in cui tutte le cose si svolgono,
giammai il fuoco dell'amore, suscitato dalla bellezza della Tindaride,
divampando profondo nel frigio petto di Alessandro,
avrebbe acceso le famose battaglie della crudele guerra,
né di nascosto ai Troiani il ligneo cavallo avrebbe
incendiato Pergamo col notturno parto dei Greci;
sì che tu puoi ben vedere che gli avvenimenti, tutti, senza
eccezione, non sussistono per sé, né esistono così come i corpi,
né si può dire che siano allo stesso modo in cui sussiste il vuoto;
ma piuttosto son tali che giustamente puoi chiamarli accidenti
dei corpi e del luogo in cui tutte le cose si svolgono.
I corpi poi sono in parte i primi principi delle cose,
in parte le cose costituite dall'aggregazione dei primi principi.
Ma quelli che effettivamente sono primi principi delle cose, nessuna
forza può estinguerli; infatti per la solidità del corpo son essi
che vincono alla fine. Sebbene sembri difficile credere
che tra le cose se ne possa trovare qualcuna di corpo solido.
Passa infatti il fulmine del cielo attraverso i muri delle case,
come il grido e le voci; nel fuoco il ferro diventa incandescente,
e le pietre si spaccano a un calore che fiero ferva;
come la rigidità dell'oro cede alla vampa e si scioglie,
così il ghiaccio del bronzo, vinto dalla fiamma, si fonde;
attraversano l'argento il calore e il freddo penetrante,
poiché l'uno e l'altro comunemente sentiamo tenendo in mano, come s'usa,
le coppe, quando dall'alto vi è stata versata l'acqua che le irrora.
A tal segno sembra che nelle cose non ci sia nulla di solido.
Ma poiché, tuttavia, la verità e la natura delle cose lo impongono,
presta attenzione, finché dimostriamo, in pochi versi,
che esistono cose costituite di corpo solido ed eterno,
che noi mostriamo essere i semi delle cose e i primi principi
da cui fu creato tutto l'universo quale ora è costituito.
Anzitutto, poiché abbiamo scoperto che sussiste
una duplice natura, di gran lunga dissimile, di due cose,
la materia e lo spazio, nel quale tutte le cose si svolgono,
è necessario che ognuna delle due esista per sé e scevra di mescolanza.
Difatti, dovunque si stende libero lo spazio, che chiamiamo
vuoto, lì non v'è corpo; d'altra parte, dovunque sta un corpo,
li non v'è assolutamente uno spazio sgombro, vuoto.
Sono dunque solidi e senza vuoto i corpi primi.
Inoltre, poiché nelle cose generate c'è il vuoto,
è necessario che tutt'intorno stia materia solida;
né si può con giusto ragionare provare che alcuna cosa
nel proprio corpo celi vuoto e l'abbia nel proprio interno,
se non ammetti che ciò che lo racchiude è solido.
D'altra parte, nient'altro può essere che aggregato di materia,
qualcosa che sia capace di racchiudere il vuoto delle cose.
La materia dunque, che consta di corpo solido,
può essere eterna, mentre tutto il resto si dissolve.
E poi, se non esistesse nulla che fosse sgombro e vuoto,
il tutto sarebbe solido; per contrario, se non esistessero
determinati corpi per empire tutti i luoghi che occupano,
tutto quanto esiste sarebbe spazio sgombro, vuoto.
Alternamente, dunque, senza dubbio il corpo è intramezzato
dal vuoto, poiché il tutto non è totalmente pieno, né, d'altronde,
è totalmente vuoto. Esistono dunque corpi determinati,
tali da potere intramezzare col pieno lo spazio vuoto.
Questi né possono dissolversi percossi da colpi
dall'esterno, né inoltre, penetrati a fondo, disgregarsi,
né possono in altro modo attaccati vacillare;
ciò che già sopra, poc'anzi, ti abbiamo dimostrato.
È infatti evidente che senza vuoto nessuna cosa può essere
schiacciata, né infranta, né scissa in due parti con un taglio;
né può ricevere in sé acqua e neppure il freddo che pervade,
né il fuoco penetrante, che sono i fattori d'ogni distruzione.
E quanto più ogni cosa in sé racchiude vuoto,
tanto più da queste cose a fondo attaccata vacilla.
Dunque, se i corpi primi sono solidi e senza vuoto,
così come ho dimostrato, è necessario che siano eterni.
Inoltre, se la materia non fosse stata eterna, prima d'ora
tutte le cose sarebbero tornate interamente al nulla,
e dal nulla sarebbero rinate tutte quelle cose che noi vediamo.
Ma poiché sopra ho dimostrato che nulla si può creare dal nulla
e ciò che fu generato non può essere ridotto al nulla,
di corpo immortale devono essere i primi principi,
in cui tutte le cose possano risolversi nel momento supremo,
sì che la materia sia bastante a ristorare la perdita delle cose.
Sono dunque di solida semplicità i primi principi,
né in altro modo possono essersi conservati attraverso le età
e ristorare le perdite delle cose, da tempo ormai infinito.
Ancora, se la natura non avesse fissato alcun limite
allo spezzarsi delle cose, ormai i corpi della materia,
spezzati dalle età passate, sarebbero ridotti a tal punto
che da essi nulla potrebbe, entro un tempo determinato,
esser concepito e raggiungere il sommo limite della vita.
Infatti vediamo che qualunque cosa può più in fretta dissolversi
che di nuovo rifarsi: pertanto ciò che la lunga durata
dei giorni, l'infinita durata di tutto il tempo già trascorso,
avrebbe fino ad ora spezzato, sconvolgendolo e dissolvendolo,
non potrebbe mai essere rinnovato nel tempo che resta.
Ma ora, senza dubbio, all'azione dello spezzare è fissato
un limite determinato, immutabile, poiché vediamo che ogni cosa
si rifà e, insieme, per le cose, secondo le specie, sono fissati
tempi limitati in cui possano attingere il fiore dell'età.
A ciò si aggiunge che, sebbene i primi corpi della materia
siano solidissimi, tuttavia tutte le cose molli che si producono,
l'aria l'acqua la terra i vapori, si può spiegare in che modo
si producano e per qual forza tutte si svolgano,
una volta che nelle cose è commisto il vuoto.
Ma per contro, se supponiamo molli i primi principi delle cose,
non si potrà spiegare donde possano crearsi le dure
rocce e il ferro, giacché radicalmente tutta la natura
sarà priva d'un principio che ne costituisca il fondamento.
Esistono dunque corpi possenti di solida semplicità,
ed è per il più compatto aggregarsi di essi che tutte le cose
possono farsi più salde e dimostrare valide forze.
Inoltre, se nessun limite è assegnato allo spezzarsi
dei corpi, tuttavia è necessario che dall'eternità sopravanzino
ancora, per ciascuna specie di cose, corpi che finora
non siano stati assaliti da alcun pericolo.
Ma, giacché sono dotati di natura fragile, con ciò non s'accorda
che abbiano potuto continuare a sussistere in eterno,
travagliati da innumerevoli colpi nel corso di tutte le età.
Infine, poiché per le cose è secondo le specie fissato
un termine di crescita e di conservazione della vita,
e giacché risulta sancito da leggi di natura che cosa possa
ognuna e che cosa non possa, né alcunché si muta,
anzi tutto rimane così costante che i variopinti uccelli,
di generazione in generazione, tutti mostrano
presenti nel corpo i colori propri di ciascuna specie,
evidentemente devono anche avere un corpo di materia
immutabile. Infatti, se i primi principi potessero
in qualche modo esser vinti e mutarsi,
in tal caso sarebbe incerto anche che cosa possa nascere,
che cosa non possa, infine in qual modo ciascuna cosa
abbia un potere finito e un termine, profondamente confitto;
né tante volte potrebbero le generazioni secondo ciascuna specie
riprodurre natura, costumi, modo di vivere e movimenti dei genitori.
E ancora: poiché c'è una punta estrema, in ogni caso,
di quel corpo che i nostri sensi non possono più
discernere, essa evidentemente è senza parti
e consta di natura minima, né esistette mai
per sé separata, né tale potrà essere in futuro,
poiché di un'altra cosa essa stessa è parte e prima e una;
poi altre ed altre parti simili, susseguendo in ordine,
in schiera compatta, completano la natura del corpo primo,
e, poiché non possono esistere per sé, è necessario
che aderiscano là donde non possono in alcun modo esser strappate via.
Sono dunque di solida semplicità i primi principi,
essi che compatti di parti minime hanno stretta coesione,
non aggregati per il concorso di quelle,
ma piuttosto possenti di eterna semplicità.
Da essi la natura, riservando i semi alle cose, non concede
che alcunché sia strappato via o venga ancora detratto.
D'altronde, se non ci sarà un minimo, tutti i corpi
più piccoli consteranno di parti infinite,
giacché in tal caso la metà di una metà avrà sempre
una propria metà, né alcuna cosa porrà un termine.
E allora, che differenza ci sarà tra la somma delle cose e la cosa più piccola?
Non sarà possibile alcun divario: infatti, per quanto
l'universo in tutto il suo insieme sia infinito, tuttavia
le cose più piccole consteranno egualmente di parti infinite.
Ma, poiché la verità protesta contro ciò e non ammette
che l'animo possa credervi, è necessario che tu, vinto, riconosca
che esistono quelle cose che non sono più costituite di parti
e constano di natura minima. E poiché esse esistono, è necessario
che tu riconosca che esistono anche quegli elementi, solidi ed eterni.
Infine, se la natura creatrice fosse solita costringere
tutte le cose a risolversi nelle parti minime,
nulla più essa sarebbe in grado di ricomporre con queste,
perché le cose che sono prive di parti non possono avere
le qualità che deve avere la materia generatrice,
le varie connessioni, i pesi, gli urti,
gl'incontri, i movimenti, per cui tutte le cose si svolgono.
Perciò coloro i quali pensarono che materia delle cose fosse
il fuoco e che di solo fuoco fosse costituito l'universo,
appare evidente che molto si allontanarono dalla verità.
Loro duce, entra primo in battaglia Eraclito,
illustre per l'oscura lingua più tra i fatui
che tra i seri Greci ricercatori del vero.
Gli sciocchi infatti più ammirano e amano tutte
quelle cose che scorgono nascoste sotto parole stravolte,
e tengono per vero ciò che può titillare gradevolmente
le orecchie ed è colorato di una piacevole sonorità.
Come potrebbero infatti le cose essere tanto varie, io domando,
se si suppone che siano nate dal solo e puro fuoco?
Nulla, in verità, gioverebbe che il caldo fuoco si condensasse
o si rarefacesse, se le parti del fuoco avessero
la medesima natura che ha anche il fuoco intero.
Più violento sarebbe difatti l'ardore per la concentrazione delle parti,
e, d'altro canto, più languido per la loro disgiunzione e dispersione
Che con tali cause possa avvenire più di questo,
non ti è dato credere; tanto meno, poi, tanta varietà di cose
può provenire da fuochi densi e radi. E aggiungi questo:
soltanto se ammettono che alle cose è misto il vuoto,
i fuochi potranno condensarsi o rarefarsi.
Ma, poiché vedono molte cose opporsi a loro
e rifuggono dall'ammettere nelle cose il vuoto puro,
mentre temono la via ardua, smarriscono la via giusta;
né d'altronde vedono che, tolto dalle cose il vuoto,
tutto si condensa e di tutto si fa un corpo solo,
tale che da sé non può emettere nulla istantaneamente,
nel modo in cui il fuoco avvampante getta luce e calore,
sì che vedi che non consta di parti compatte.
Ma, se per caso credono che in altro modo possano
i fuochi nell'addensamento estinguersi e mutar sostanza,
è evidente che, se non si asterranno dal far ciò in nessuna parte,
tutto l'ardore naturalmente cadrà appieno nel nulla,
‹e› dal nulla saranno prodotte tutte le creature.
Infatti ogni volta che una cosa si muta ed esce dai propri
termini, sùbito questo è la morte di ciò che era prima.
Quindi è necessario che alle creature qualcosa sopravanzi incolume,
perché tutte le cose non ti si riducano appieno al nulla,
e dal nulla rinasca e prenda vigore l'insieme delle cose.
Ora, dunque, poiché ci sono certi corpi ben determinati,
che conservano una natura sempre uguale,
e per il cui distaccarsi o accostarsi e mutare di ordine
mutano natura le cose e si trasformano i corpi,
si vede che questi corpi primi non sono di fuoco.
Non farebbe infatti differenza che alcuni si disgiungessero
e partissero, e altri si aggiungessero, e alcuni mutassero ordine,
se tuttavia tutti quanti conservassero natura di fiamma:
infatti, qualunque cosa creassero, sarebbe in ogni modo fuoco.
Ma, a quel ch'io penso, la cosa sta così: esistono certi corpi,
di cui gl'incontri, i movimenti, l'ordine, la disposizione, le forme
producono i fuochi, e col mutare ordine mutano natura,
né sono simili al fuoco, né ad alcun'altra cosa
che possa emettere corpi ai sensi
e con l'accostarsi colpire il nostro tatto.
Dire, poi, che fuoco sono tutte le cose e che nel novero
delle cose non esiste nulla che sia reale tranne il fuoco,
come fa questo medesimo Eraclito, pare essere mero delirio.
Infatti contro i sensi, partendo dai sensi, egli stesso combatte,
e infirma quelli da cui dipendono tutte le opinioni,
da cui egli stesso apprese questo che chiama fuoco.
Crede infatti che i sensi conoscano realmente il fuoco,
ma non tutte le altre cose, che per nulla son meno chiare.
E questo a me sembra falsità e delirio.
A che ci riferiremo infatti? Che mai può essere per noi
più sicuro degli stessi sensi per discernere il vero e il falso?
E d'altronde, perché uno eliminerebbe tutte le altre cose
e vorrebbe lasciare la sola natura del fuoco, piuttosto che negare
l'esistenza del fuoco e lasciare tuttavia sussistere un'altra natura?
Uguale demenza sembra, infatti, dire e l'una e l'altra cosa.
Perciò coloro i quali pensarono che materia delle cose fosse
il fuoco e che di fuoco potesse essere costituito l'universo,
e coloro che posero l'aria quale principio generatore
delle cose, o quanti pensarono che l'acqua di per sé sola
formasse le cose, o che la terra creasse tutto
e si trasformasse in ogni natura di cose,
sembrano essersi sperduti molto lontano dal vero.
Aggiungi anche coloro che duplicano i primi principi
delle cose, unendo l'aria al fuoco e la terra all'acqua,
e coloro che credono che da quattro cose possa crescer tutto,
dal fuoco, dalla terra e dall'aria e dall'acqua.
Fra questi primeggia Empedocle di Agrigento,
che entro le sue rive triangolari produsse l'isola
intorno a cui fluttuando negli ampi anfratti il mare
Ionio spruzza dalle onde glauche le salse spume,
e per angusto stretto acque impetuose dividono
con le onde le rive della terra Eolia dal suo territorio.
Qui è la devastatrice Cariddi e qui i boati dell'Etna
minacciano di raccogliere di nuovo le ire delle fiamme,
sì che ancora la sua violenza vomiti fuochi prorompenti
dalle fauci e al cielo lanci di nuovo folgori di fiamma.
E se questa regione appare in molti modi grande, meravigliosa
alle genti umane, e si dice che sia degna di essere veduta,
opima di cose buone, munita di molta forza di uomini,
pure sembra che in sé non abbia avuto nulla di più glorioso
che quest'uomo, nulla di più santo e mirabile e caro.
E invero i canti del suo petto divino
svelano a gran voce ed espongono gloriose scoperte,
sì che a stento sembra nato da stirpe umana.
Egli, tuttavia, e quelli che abbiamo menzionati sopra,
notevolmente inferiori sotto molti aspetti e molto minori,
benché scoprissero molte cose bene e in maniera divina,
e quasi dai penetrali del cuore dessero responsi
più santamente e con molto maggiore certezza
che la Pizia, che parla dal tripode e dal lauro di Febo,
tuttavia nei primi principi delle cose rovinarono,
e gravemente ivi caddero, grandi in grande caduta;
prima perché, tolto dalle cose il vuoto, asseriscono
il movimento, e lasciano cose morbide e porose,
l'aria l'acqua il fuoco la terra gli animali le messi,
e tuttavia non mescolano nel loro corpo il vuoto;
poi perché credono che non ci sia alcun termine
alla divisione dei corpi, né esista arresto al loro spezzarsi,
né resti assolutamente alcun minimo nelle cose;
mentre vediamo che di ciascuna cosa esiste quel vertice estremo
che si vede essere il minimo rispetto ai nostri sensi,
sì che puoi inferirne che il punto estremo esistente nei corpi
che non sei in grado di scorgere è in essi la minima parte.
E a ciò s'aggiunge ancora questo: poiché suppongono
come primi principi cose molli, che noi vediamo soggette
alla nascita e dotate di corpo mortale, l'universo
dovrebbe in tal caso ritornare interamente al nulla,
e dal nulla rinascere e prender vigore l'insieme delle cose;
ma tu già saprai quanto e questo e quello siano lontani dal vero.
Poi, quelle cose sono in molti modi nemiche ed hanno l'una
per l'altra effetto di veleno: perciò o accozzatesi periranno
o fuggiranno qua e là, così come, per addensamento di tempesta,
vediamo fuggire qua e là fulmini e piogge e venti.
Infine, se da quattro cose tutto si crea
e in esse cose tutto di nuovo si dissolve,
come possono queste esser chiamate primi principi piuttosto
che, al contrario e inversamente, le cose principi di queste?
Alternamente infatti si generano e cambiano colore
e l'intera loro natura reciprocamente, da sempre.
Ma se per caso credi che il corpo del fuoco e quello della terra
e i soffi dell'aria e il rorido umore si congiungano
così che nell'unione per nulla muti la loro natura,
da essi non ti si potrà formare nessun essere,
né animato, né con corpo inanimato, come un albero.
Difatti nella congiunzione del vario coacervo ciascuna cosa
mostrerà la natura propria, e si vedrà l'aria mista insieme
con la terra, e il fuoco permanere insieme con l'acqua.
Ma nella generazione delle cose bisogna che i primi principi
apportino una natura occulta e invisibile,
perché non spicchi qualcosa che contrasti, e precluda
a quanto vien creato la possibilità di un'esistenza propria.
Anzi, risalgono sino al cielo e ai suoi fuochi,
e suppongono che prima il fuoco si trasformi nei soffi dell'aria,
di qui si generi la pioggia, e dalla pioggia si crei la terra,
e dalla terra tutto ritorni indietro,
prima l'acqua, poi l'aria, quindi il calore,
e che queste cose non cessino di mutarsi tra loro,
di passare dal cielo alla terra, dalla terra agli astri del cielo.
Cosa che i primi principi non devono fare in alcun modo.
È necessario, infatti, che qualcosa sopravanzi immutabile,
perché tutte le cose non si riducano appieno al nulla.
Infatti ogni volta che una cosa si muta ed esce dai propri
termini, sùbito questo è la morte di ciò che era prima.
Perciò, poiché le cose che abbiamo dette poc'anzi
subiscono mutamento, è necessario che esse constino
di altre che non possano assolutamente cambiarsi,
se non vuoi che tutte le cose si riducano appieno al nulla.
Perché non supponi piuttosto certi corpi dotati
di tale natura che, se per caso hanno creato il fuoco,
possano anche, tolti pochi di essi ed aggiunti pochi altri,
mutati ordine e moto, produrre i soffi dell'aria,
e che così tutte le cose si mutino le une nelle altre?
"Ma fatti manifesti", dici, "mostrano apertamente che tutte
le cose nei soffi dell'aria crescono e s'alimentano dalla terra;
e se la stagione non prodiga in tempo propizio le piogge,
sì che gli alberi vacillino per lo sciogliersi dei nembi,
e il sole per parte sua non li ristora e dispensa il calore,
non possono crescere messi, alberi, esseri viventi".
Naturalmente! E, se cibi secchi e teneri liquidi
non ci sostenessero, senz'altro, deperito il corpo,
anche tutta la vita da tutti i nervi e le ossa si scioglierebbe.
Infatti senza dubbio noi siamo sostentati e alimentati da cose
determinate, come da cose determinate altri esseri e altri ancora.
Certo perché molti principi primi, comuni a molte cose
in molti modi, nelle cose son misti,
per questo cose diverse si alimentano di cose diverse.
E spesso importa molto con quali altri i medesimi primi
principi, e in quale disposizione, siano collegati,
e quali movimenti a vicenda imprimano e ricevano;
giacché gli stessi costituiscono il cielo, il mare, le terre, i fiumi,
il sole, gli stessi le messi, gli alberi, gli esseri viventi,
ma si muovono commisti ad altri e in altro modo.
Anzi qua e là nei nostri stessi versi tu vedi
molte lettere comuni a molte parole,
mentre tuttavia devi ammettere che versi e parole distano
tra loro, e per significato e per modulazione di suono.
Tanto è il potere delle lettere, solo che se ne muti l'ordine.
Ma i primi principi delle cose sono in grado di apportare
più mezzi, perché se ne possano creare tutte le varie cose.
Ora scrutiamo anche l'omeomeria di Anassagora,
come i Greci la chiamano, mentre a noi la povertà del patrio
linguaggio non concede di denominarla nella nostra lingua;
ma tuttavia la cosa stessa è facile esporla con parole.
Anzitutto - ciò che egli denomina omeomeria delle cose -
evidentemente crede che le ossa siano formate di ossa
piccolissime e minute, e di piccolissime e minute
carni la carne, e che il sangue si crei da molte
gocce di sangue che si uniscano tra loro,
e che l'oro possa esser costituito di briciole d'oro,
e che la terra si componga per aggregarsi di particelle di terra,
di particelle di fuoco sia fatto il fuoco, d'acqua l'acqua;
e in simile maniera immagina e crede tutte le altre cose.
Né tuttavia in alcuna parte egli concede che nelle cose ci sia
il vuoto, né che esista un limite alla divisione dei corpi.
Perciò in entrambe le dottrine mi sembra che egli erri
allo stesso modo di coloro di cui parlammo sopra.
Aggiungi che troppo deboli s'immagina i primi principi;
se effettivamente sono primi principi, quelli che son dotati
di natura simile a quella che è propria delle cose stesse, e ugualmente
soffrono fatica e morte, e nulla ne arresta il disfacimento.
Quale di essi infatti sotto una pressione violenta resisterà
tanto da sfuggire alla distruzione, tra i denti stessi della morte?
Il fuoco o l'acqua o l'aria? Quale di questi? Il sangue o le ossa?
Nessuno, a parer mio; quando in egual modo ogni cosa, senza eccezione,
sarà mortale, tanto quanto i corpi che manifestamente vediamo
scomparire, vinti da qualche forza, sotto i nostri occhi.
Ma che le cose non possano ricadere nel nulla, né, poi,
crescere dal nulla, chiamo a testimoniarlo le cose già provate.
Inoltre, poiché il cibo accresce il corpo e lo alimenta,
se ne può concludere che in noi le vene e il sangue e le ossa

*

o, se diranno che tutti i cibi sono di sostanza mista
ed hanno in sé piccoli corpi di nervi
e ossa e generalmente vene e parti di sangue,
ne conseguirà che ogni cibo, sia secco sia liquido,
si debba credere costituito esso stesso di cose d'altra natura,
di ossa e di nervi e di siero e di sangue commisti.
Inoltre, se tutti i corpi che crescon dalla terra son contenuti
nelle particelle di terra, la terra deve essere composta
delle cose d'altra natura che sorgono su dalla terra.
Trasporta lo stesso ragionamento a un altro oggetto: potrai usare
le stesse parole. Se nel legno stan nascosti fiamma e fumo e cenere,
è necessario che il legno consti di cose d'altra natura.
Inoltre, tutti quei corpi che la terra alimenta, accresce

*

delle cose d'altra natura che sorgono su dal legno.
Resta qui una tenue scappatoia: è quella di cui s'avvale
Anassagora, supponendo che in tutte le cose
si celino commiste tutte le cose, ma appaia
solo quella di cui nel miscuglio esistano più particelle,
e siano più in evidenza e collocate in prima linea.
Ma questo si discosta molto dalla verità.
Giacché in tal caso anche le messi dovrebbero spesso, quando
son frantumate dalla minacciosa forza della pietra, emettere traccia
di sangue o qualcuna di quelle cose che si alimentano nel nostro corpo;
quando le stritoliamo con pietra su pietra, il sangue dovrebbe versarsi.
Similmente dovrebbero anche spesso le erbe e le acque
stillare gocce dolci e di sapore simile a quello
che ha il grasso latte delle pecore lanute;
e certo dovremmo anche, sminuzzate le zolle di terra,
vedere spesso varie specie di erbe e messi e fronde
disseminate tra la terra nascondersi in particelle minute;
infine, nella legna spezzata si dovrebbero vedere
cenere e fumo e minuti fuochi nascosti.
Ma, poiché fatti manifesti mostrano che nessuna
di tali cose accade, è chiaro che nelle cose non sono in quel modo
mischiate le cose, ma semi comuni a molte cose
devono celarsi nelle cose, commisti in molti modi.
"Ma spesso", tu dici, "sui grandi monti avviene
che le vicine cime degli alti alberi si sfreghino le une
contro le altre, quando a far ciò le costringono gli austri possenti,
finché rifulgono d'uno sbocciato fiore di fiamma".
Certo; eppure nel legno non si annida il fuoco,
ma ci sono molti semi di calore, che, confluiti
per lo strofinìo, producono incendi nelle selve.
Che se la fiamma si nascondesse nelle selve già formata,
non potrebbero per alcun tratto di tempo restar celati i fuochi,
divorerebbero dappertutto le selve, brucerebbero gli alberi.
E dunque non vedi ora che, come dicemmo poc'anzi,
spesso importa moltissimo con quali altri i medesimi
primi principi, e in quale disposizione, siano collegati,
e quali movimenti a vicenda imprimano e ricevano,
e che i medesimi, di poco mutati tra loro, producono
i fuochi e il legno? Appunto come anche le parole stesse
constano di lettere di poco mutate tra loro,
mentre con distinti vocaboli significhiamo ligneo e igneo.
E infine, se tutto quanto discerni nelle cose visibili
credi che non possa avvenire senza che tu supponga
dotati di natura consimile i corpi primi della materia,
con questo criterio i primi principi ti vanno in rovina:
avverrà che sghignazzino, scossi da tremulo riso,
e di lacrime salse inumidiscano i volti e le guance.
E ora, suvvia, apprendi ciò che resta e ascolta più chiaro canto.
Né sfugge al mio pensiero quanto queste cose siano oscure;
ma una grande speranza di gloria ha trafitto il mio cuore
con tirso penetrante e insieme mi ha infuso nel petto un dolce
amore delle Muse, dal quale ora incitato con mente vivida
percorro remote regioni delle Pieridi, ove nessuno prima
impresse orma. Godo ad appressarmi alle fonti intatte
e bere, e godo a cogliere nuovi fiori
e comporre per il mio capo una corona gloriosa,
di cui prima a nessuno le Muse abbiano velato le tempie;
anzitutto perché grandi cose io insegno, e cerco
di sciogliere l'animo dagli stretti nodi della superstizione;
poi perché su oscura materia compongo versi tanto luminosi,
tutto cospargendo col fascino delle Muse.
Infatti anche questo appare non privo di ragione;
ma, come i medici, quando cercano di dare ai fanciulli
il ripugnante assenzio, prima gli orli, tutt'attorno al bicchiere,
cospargono col dolce e biondo liquore del miele,
perché nell'imprevidenza della loro età i fanciulli siano ingannati,
non oltre le labbra, e intanto bevano interamente l'amara
bevanda dell'assenzio e dall'inganno non ricevano danno,
ma al contrario in tal modo risanati riacquistino vigore;
così io ora, poiché questa dottrina per lo più pare
troppo ostica a coloro che non l'hanno coltivata,
e il volgo rifugge lontano da essa, ho voluto esporti
la nostra dottrina col canto delle Pieridi che suona soave,
e quasi cospargerla col dolce miele delle Muse,
per provare se per caso potessi in tal modo tenere
avvinto il tuo animo ai miei versi, finché penetri tutta
la natura, in quale forma sia disposta e ornata.
Ma, poiché ho insegnato che gli atomi sono solidissimi
e in perpetuo volteggiano, invitti attraverso ogni tempo,
ora investighiamo se la loro somma abbia o non abbia
alcun limite; e parimenti, il vuoto di cui abbiamo scoperto
l'esistenza, o luogo o spazio, in cui tutte le cose si svolgono,
scrutiamo se sia tutto assolutamente finito
oppure si apra immenso e smisuratamente profondo.
Tutto quanto esiste, dunque, non è limitato in alcuna
direzione; altrimenti dovrebbe avere un'estremità.
È evidente, d'altra parte, che niente può avere un'estremità,
se al di là non esiste qualche cosa che lo delimiti, sì che appaia
un punto oltre il quale questa natura di senso non possa più seguirlo.
Ora, poiché dobbiamo ammettere che niente c'è al di fuori del tutto,
questo non ha un'estremità: manca, dunque, di confine e di misura.
Né importa in quali sue regioni tu ti fermi;
perché sempre, qualsiasi luogo uno abbia occupato,
per ogni verso lascia altrettanto infinito il tutto.
E inoltre, supponiamo ora che tutto lo spazio esistente
sia limitato e che qualcuno corra avanti, all'estrema
riva, spingendosi fino all'ultimo punto, e scagli un dardo volante:
preferisci tu pensare che esso, lanciato con valide forze,
vada ove è stato vibrato e voli lontano,
o credi che qualcosa possa arrestarlo e ad esso opporsi?
O l'una o l'altra ipotesi occorre infatti che tu ammetta e scelga.
Ma sia l'una che l'altra ti preclude ogni via di scampo
e ti obbliga a riconoscere che il tutto si estende senza confine.
Infatti, sia che esista qualcosa che l'arresti e gl'impedisca
di giungere ove è stato vibrato e di conficcarsi nel segno,
sia che più oltre esso voli, il punto donde è partito non è il confine estremo.
In tal modo ti incalzerò e, dovunque porrai l'estrema
riva, chiederò: "che sarà poi del dardo?".
Avverrà che in nessun luogo si potrà fissare il confine,
e la possibilità della fuga sempre allontanerà la scappatoia.
Inoltre, se tutto lo spazio dell'intero universo
fosse chiuso da ogni parte e stesse entro certi confini,
se fosse limitato, già la massa della materia per il peso
dei suoi corpi solidi sarebbe confluita da ogni parte nel fondo,
né alcuna cosa potrebbe svolgersi sotto la volta del cielo;
e assolutamente non ci sarebbe cielo, né luce di sole,
ché in tal caso tutta la materia giacerebbe accumulata,
già da tempo infinito depositandosi.
Ma ora, certamente, nessuna requie è data ai corpi
dei primi principi, perché non c'è un ultimo fondo,
ove possano quasi confluire e porre le loro sedi.
Sempre in continuo moto si svolgono tutte le cose,
per ogni dove, e anche dal basso vengono forniti
i corpi della materia che muovono dall'infinito.
Infine, palesemente appare agli occhi che una cosa delimita
un'altra cosa: l'aria fa da confine ai colli, e i monti all'aria;
il mare confina con la terra e, a loro volta, tutte le terre col mare;
ma il tutto, invero, non c'è nulla che lo delimiti dall'esterno.
La natura dello spazio , dunque, e la distesa dell'abisso è tale
che i fulgidi fulmini non potrebbero percorrerla nella loro corsa,
volando per un tratto ininterrotto di tempo, né procedendo
potrebbero affatto ottenere che resti meno cammino da fare:
a tal segno s'apre dovunque alle cose un'immensa estensione,
senza confini da ogni punto verso qualunque parte.
Che poi tutto l'insieme delle cose possa porsi da sé stesso
un limite, lo vieta la natura; la quale costringe la materia
a essere limitata dal vuoto, e quanto è vuoto a essere limitato
dalla materia, sì che con la loro alternanza rende infinito
il tutto, o altrimenti l'uno o l'altro dei due, se non lo delimita
l'altro, con la semplice sua natura si stende tuttavia illimitato.

*

né il mare, né la terra, né la volta luminosa del cielo,
né la stirpe mortale, né i santi corpi degli dèi
potrebbero sussistere per l'esiguo tratto di un'ora:
dispersa fuori dalla sua compagine la massa della materia
vagherebbe dissolta per il vuoto immenso,
o piuttosto non si sarebbe mai aggregata per formare
alcuna cosa, perché, sparpagliata, non avrebbe potuto adunarsi.
Ché certo non secondo un deliberato proposito i primi principi
delle cose si collocarono ciascuno al suo posto con mente sagace,
né in verità pattuirono quali moti dovesse produrre ciascuno;
ma, poiché molti di essi, in molti modi trasmigrando per il tutto,
da tempo infinito sono stimolati e travagliati dagli urti,
sperimentando ogni genere di movimenti e aggregazioni
pervengono finalmente a tali disposizioni,
quali son quelle per cui s'è formato e sussiste il nostro universo,
e, per molti lunghi anni conservatosi,
una volta che si combinò in movimenti concordanti,
fa che i fiumi con le onde abbondanti delle loro correnti
alimentino l'avido mare e, riscaldata dalle vampe del sole, la terra
rinnovi i parti e, sorte dal suo grembo, fioriscano le generazioni
degli animali e vivano i fuochi che scivolano nell'etere.
Ciò che in nessun modo farebbero, se dall'infinito
non potesse affluire in abbondanza la materia
con cui sogliono riparare a tempo tutte le perdite.
Infatti, come, privati del cibo, gli esseri viventi
si sfanno perdendo i corpi, così tutte le cose devono
dissolversi appena ha cessato di rifornirle la materia,
deviata per qualche cagione dal giusto cammino.
E gli urti dall'esterno, provenienti da ogni parte, non hanno il potere
di conservare tutto l'insieme di qualunque mondo si sia aggregato.
Possono bensì battere spesso e trattenere una parte,
fin quando ne vengano altri e l'insieme si possa completare;
tuttavia talora sono costretti a rimbalzare e ad accordare
frattanto ai principi delle cose spazio e tempo di fuga,
sì che possano volar via, liberi dall'aggregazione.
Perciò, ancora e ancora, è necessario che molti atomi affluiscano;
e d'altronde, perché possano essere sufficienti gli stessi urti,
da ogni parte abbisogna infinita quantità di materia.
A tale proposito, tieniti lontano dal credere, o Memmio,
a quello che dicono: che tutte le cose convergono verso il centro
dell'universo, e che la natura del mondo resta salda senza sostegno
di colpi dall'esterno, e l'alto e il basso non possono dissolversi
da nessuna parte, per questo: perché tutte le cose premono verso il centro
(se a te pare possibile che qualcosa poggi su sé stessa);
e che i corpi pesanti che sono sotto la terra, convergono tutti
verso l'alto e riposano poggiati all'inverso sulla terra,
come le immagini che adesso noi vediamo nell'acqua.
E similmente sostengono che animali camminano supini
e tuttavia non possono cader via dalla terra
nelle regioni inferiori del cielo, più di quanto i corpi nostri
possano di per sé stessi volare verso le plaghe del cielo;
e che, quando quelli vedono il sole, noi scorgiamo gli astri
della notte, e alternamente dividono con noi le stagioni
del cielo e trascorrono notti corrispondenti ai nostri giorni.
Ma un vano ‹errore ha fatto approvare› ad uomini sciocchi tali ‹assurdità›
perché hanno abbracciato ‹una teoria con falso ragionare›.
Infatti non può esserci un centro, ‹perché l'universo è›
infinito. Né assolutamente, se pure ‹ci fosse un centro›,
alcuna cosa potrebbe ivi star fissa ‹per questo,›
anziché ‹essere›, in qualsiasi altro modo, ‹respinta› lontano.
Infatti tutta l'estensione e lo spazio, che ‹chiamiamo vuoto›,
per il centro come fuori dal centro, ‹deve› ugualmente lasciare
il passo ai corpi pesanti, dovunque tendano i loro movimenti.
Non c'è alcun luogo, ove i corpi, quando siano giunti, possano,
perduta la forza del peso, restar fermi nel vuoto;
né, d'altra parte, ciò che è vuoto deve sussistere quale base sotto
alcuna cosa senza continuare a cedere, come esige la sua natura.
Dunque non possono le cose in tal modo esser tenute
insieme in un'aggregazione, vinte dalla brama del centro.
Inoltre, poiché s'immaginano che al centro tendano,
non già tutti i corpi, ma solo quelli della terra e dell'acqua,
i flutti del mare e le grandi onde che scendono giù dai monti,
e quelle cose che sono contenute, per così dire, nel corpo
terrestre, ma al contrario dicono che i tenui soffi dell'aria
e i caldi fuochi insieme si irradiino dal centro,
e che tutto l'etere all'intorno tremoli di stelle
e la fiamma del sole pascoli attraverso i ceruli spazi del cielo
perché, fuggendo dal centro, il calore si raccoglie tutto là,
e che agli alberi le cime dei rami non potrebbero affatto
frondeggiare, se dalla terra a poco a poco cibo a ciascuno

che le mura del mondo, al modo delle fiamme volanti,
fuggano via improvvisamente dissolte nel vuoto immenso,
e tutte le altre cose tengano loro dietro in modo consimile,
e crollino in alto le volte tonanti del cielo,
e la terra si sottragga rapidamente ai nostri piedi, e tutta,
fra le frammiste rovine delle cose terrene e del cielo
dissolventi i corpi, si inabissi attraverso il vuoto profondo,
sì che in un istante nessun avanzo resti,
tranne lo spazio deserto e i primi principi invisibili.
Infatti, da qualunque parte supporrai che prima vengano a mancare
i corpi, questa parte sarà per le cose la porta della morte,
per questa si riverserà fuori tutta la folla della materia.
Queste cose così conoscerai, condottovi con poca fatica;
e infatti da una cosa un'altra cosa si chiarirà, né la cieca notte
ti toglierà il cammino, sì che tu non giunga a vedere gli ultimi confini
della natura: così le cose accenderanno la luce su altre cose.


LIBRO II

È dolce, mentre nel grande mare i venti sconvolgono le acque,
guardare dalla terra la grande fatica di un altro;
non perché il tormento di qualcuno sia un giocondo piacere,
ma perché è dolce vedere da quali mali tu stesso sia immune.
Dolce è anche contemplare grandi contese di guerra
apprestate nei campi senza che tu partecipi al pericolo.
Ma nulla è più piacevole che star saldo sulle serene regioni
elevate, ben fortificate dalla dottrina dei sapienti,
donde tu possa volgere lo sguardo laggiù, verso gli altri,
e vederli errare qua e là e cercare, andando alla ventura,
la via della vita, gareggiare d'ingegno, rivaleggiare di nobiltà,
adoprarsi notte e giorno con soverchiante fatica
per assurgere a somma ricchezza e impadronirsi del potere.
O misere menti degli uomini, o petti ciechi!
In che tenebre di vita e tra quanto grandi pericoli
si consuma questa esistenza, quale che sia! E come non vedere
che nient'altro la natura latrando reclama, se non che il dolore
sia rimosso e sia assente dal corpo, e nella mente essa goda
di un senso giocondo, libera da affanno e timore?
E dunque vediamo che alla natura del corpo sono necessarie
assolutamente poche cose, quelle che tolgono il dolore,
e sono tali che possono anche procurare molte delizie;
né la natura stessa talvolta richiede cosa più gradita -
se in casa non ci sono auree statue di giovani
che tengano nelle mani destre torce fiammeggianti,
sì che sia data luce ai notturni banchetti,
né il palazzo rifulge d'argento e brilla d'oro,
né alla cetra fanno eco i soffitti a riquadri e dorati -
quando tuttavia, familiarmente distesi sull'erba morbida,
presso un ruscello, sotto i rami di un albero alto,
con tenui mezzi ristorano giocondamente i corpi;
soprattutto quando il tempo arride e la stagione
cosparge di fiori le erbe verdeggianti.
Né le ardenti febbri, se ti dibatti tra drappi ricamati
e porpora rosseggiante, lasciano il corpo più presto
che se devi giacere su un tappeto plebeo.
Perciò, poiché nulla al nostro corpo giovano i tesori,
né la nobiltà, né la gloria del regno, per il resto
si deve pensare che anche all'animo nulla giovino;
salvo che, per avventura, quando vedi le tue legioni
ardentemente agitarsi per il campo suscitando simulacri di guerra,
appoggiate da potenti riserve e da forze di cavalleria,
e le schieri fornite di armi e parimenti animose,
‹quando vedi la flotta ardentemente agitarsi e vagare per largo spazio,›
allora, intimorite da queste cose, le superstizioni
ti fuggano via dall'animo trepidanti, e i timori della morte
lascino allora sgombro il petto e sciolto dall'affanno.
Ma, se vediamo che questi pensieri son ridicoli e meritano scherno,
e in realtà i timori degli uomini e gli affanni incalzanti
non temono i fragori delle armi, né i crudeli dardi,
e audacemente si aggirano tra i re e i potenti del mondo,
né riveriscono il fulgore che si irraggia dall'oro,
né il luminoso splendore di un vestito di porpora,
come puoi dubitare che questo potere sia tutto della ragione?
Specie se pensi che tutta nelle tenebre la vita si travaglia.
Difatti, come i fanciulli trepidano e tutto temono
nelle cieche tenebre, così noi nella luce talora abbiamo paura
di cose che per nulla son da temere più di quelle che i fanciulli
nelle tenebre paventano e immaginano prossime ad avvenire.
Questo terrore dell'animo, dunque, e queste tenebre
non li devono dissolvere i raggi del sole, né i lucidi dardi
del giorno, ma l'aspetto e l'intima legge della natura.
Ora, bada, spiegherò con quale movimento i corpi generatori
della materia generino le varie cose e dissolvano le cose generate,
e da quale forza siano costretti a far questo, e quale velocità
sia ad essi data per percorrere il vuoto immenso:
tu ricorda di por mente alle mie parole.
Ché certamente la materia non ha compattezza e coesione,
giacché vediamo che ogni corpo diminuisce, e discerniamo
che tutte le cose quasi fluiscono nel lungo corso del tempo
e la vecchiezza le sottrae ai nostri occhi;
mentre l'insieme si vede permanere intatto,
perché i corpi che si distaccano da ogni cosa, diminuiscono
ciò da cui si allontanano, dove giunsero danno accrescimento,
quelle cose fanno invecchiare, queste al contrario fiorire,
né si arrestano là. Così l'insieme delle cose si rinnova
sempre, e i mortali vivono di vicendevoli scambi.
Si accrescono alcune specie, altre diminuiscono,
e in breve tratto si mutano le generazioni degli esseri viventi
e, simili a corridori, si trasmettono la fiaccola della vita.
Se pensi che i primi principi delle cose possano star fermi
e, stando fermi, generare nuovi moti delle cose,
forviato vai errando lontano dalla verità.
Infatti, poiché vagano per il vuoto, è necessario
che i primi principi delle cose si muovano tutti, o per il loro peso
o talora per l'urto di altro corpo. Infatti, quando nell'incalzante
movimento spesso si sono incontrati e han cozzato, avviene che in opposte
direzioni d'un tratto rimbalzino; né, certo, ciò è strano, giacché sono
durissimi nei loro solidi pesanti corpi, e nulla fa ad essi ostacolo da tergo.
E, perché meglio tu discerna l'agitarsi di tutti i corpi
della materia, ricòrdati che in tutto l'universo
non c'è un fondo, né i corpi primi hanno un luogo
ove possano posare, poiché lo spazio è senza fine e misura,
e che immenso esso s'apra da ogni punto verso qualunque parte,
con parecchie parole ho mostrato e con sicuro ragionare è stato provato.
Poiché questo è certo, certamente nessuna requie è data
ai corpi primi attraverso il vuoto profondo,
ma piuttosto, travagliati da un movimento continuo e vario,
parte, dopo essersi scontrati, rimbalzano per lunghi intervalli,
parte anche per brevi tratti son travagliati dal colpo.
E quanti, aggregati con maggiore compattezza,
dopo essersi urtati rimbalzano entro intervalli esigui,
impacciati come sono dalle loro stesse figure intrecciate,
questi costituiscono le dure radici della pietra e le indomite
masse del ferro e le altre cose dello stesso genere.
Degli altri, che anche vagano attraverso il vuoto immenso,
pochi bàlzano lontano, e lontano retrocedono
a grandi intervalli: questi l'aria sottile
ci forniscono e la splendida luce del sole;
ma per il vuoto immenso vagano molti altri,
che furono esclusi dalle aggregazioni, né in alcun'altra sede
poterono essere accolti e collegare i movimenti.
Di questo fatto, come lo descrivo, un simulacro e un'immagine
innanzi ai nostri occhi sempre si aggira e incalza.
Osserva infatti, ogni volta che raggi penetrati
infondono la luce del sole nell'ombra delle case:
molti minuti corpi in molti modi, attraverso il vuoto
vedrai mescolarsi nella luce stessa dei raggi,
e come in eterna contesa attaccar battaglie e zuffe,
a torme contendendo, e non far sosta,
da aggregazioni e disgregazioni frequenti travagliati;
sì che da ciò puoi figurarti quale sia l'eterno agitarsi
dei primi principi delle cose nel vuoto immenso;
almeno per quanto una piccola cosa può dare un modello
di cose grandi e vestigi di loro conoscenza.
E per questa ragione più conviene che tu ponga mente
a questi corpi che vediamo agitarsi nei raggi del sole:
perché tali agitazioni rivelano che ci sono movimenti
di materia anche al di sotto, segreti ed invisibili.
Molte particelle infatti ivi vedrai stimolate da urti ciechi
cambiar cammino e indietro respinte ritornare,
or qui or lì, da ogni punto verso qualunque parte.
Certo questo errante movimento ha per tutti origine dagli atomi.
Primi infatti si muovono da sé i primi principi delle cose;
quindi quei corpi che constano d'una piccola aggregazione
e son quasi prossimi alle forze dei primi principi,
spinti dai ciechi colpi di quelli, si mettono in movimento,
ed essi stessi a loro volta stimolano i corpi un poco più grandi.
Così dai primi principi ascende il movimento e a poco a poco
emerge ai nostri sensi, sì che si muovono anche quelle cose
che possiamo discernere alla luce del sole;
e tuttavia, per quali urti lo facciano, non appare apertamente.
Ora, quale velocità sia data ai corpi della materia,
di qui si può in breve conoscere, o Memmio.
Anzitutto, quando l'aurora cosparge le terre di nuova luce,
e i vari uccelli, volando attraverso i boschi inaccessi,
per l'aria tenera empiono i luoghi di limpide voci -
come subitamente soglia il sole, sorto in quel momento,
inondare e vestire della sua luce tutte le cose,
vediamo che a tutti è prontamente percepibile e manifesto.
Eppure quel calore che il sole emette e la luce serena
non per lo spazio vuoto si diffondono; sì che son costretti
ad andare più lenti, mentre fendono, per così dire, le onde dell'aria.
Né separatamente si diffondono i singoli corpuscoli
di calore, ma intrecciati tra loro e conglobati;
perciò ad un tempo si trattengono tra loro e sono ostacolati
dall'esterno, sì che son costretti ad andare più lentamente.
Ma i primi principi, che sono di solida semplicità -
quando traversano lo spazio vuoto, e nessuna cosa li rallenta
dal di fuori, ed essi stessi, costituendo ciascuno, con le sue parti, un tutto unico,
nell'unico verso in cui cominciarono ad andare, procedono con lo stesso slancio -
devono evidentemente primeggiare per velocità,
e muoversi molto più rapidamente che la luce del sole,
e correre per una distesa di spazio molto più grande, nello stesso
tempo in cui le folgoranti luci del sole si diffondono per il cielo.

*

né tener dietro ad ogni singolo primo principio,
per vedere in che modo si svolga ogni cosa.
Ma contro queste cose alcuni, ignari della materia,
credono che la natura non possa senza l'intervento degli dèi,
tanto armoniosamente accordandosi ai bisogni degli uomini,
mutare le stagioni e produrre le messi e inoltre tutte
le altre cose cui la guida della vita, il divino piacere,
induce i mortali a volgersi, ed esso stesso li conduce
e con gli atti di Venere li alletta a propagare le stirpi,
perché il genere umano non perisca. Ma, quando immaginano
che gli dèi abbiano disposto tutte le cose per causa degli uomini,
sotto ogni aspetto si vede che molto s'allontanano dalla verità.
E infatti quand'anche ignorassi quali siano i primi elementi delle cose,
questo tuttavia oserei affermare in base agli stessi fenomeni
del cielo e comprovare in forza di molte altre cose:
che la natura del mondo non è stata per nulla creata
dal volere divino per noi: di così grande difetto essa è dotata.
Ma queste cose di poi, o Memmio, ti faremo manifeste.
Ora esporremo quanto resta da dire sui movimenti.
Ora è il luogo, credo, di dimostrarti in tale riguardo
anche ciò: che nessuna cosa corporea può di sua propria forza
muoversi verso l'alto e procedere verso l'alto;
in questo non ti traggano in inganno i corpi delle fiamme.
Sì, verso l'alto sono prodotti e prendono sviluppo
e verso l'alto crescono le splendide messi e gli alberi,
mentre i corpi pesanti, per quanto è in loro, tutti si muovono verso il basso.
Né, quando i fuochi bàlzano su fino ai tetti delle case
e con celere fiamma van lambendo assi e travi, bisogna credere
che lo facciano spontaneamente, senza una forza che spinga dal basso.
Come quando il sangue emesso dal nostro corpo
spiccia in alto d'un tratto e spande il suo getto.
E non vedi anche con quanta violenza il liquido dell'acqua
risputi fuori assi e travi? E infatti, quanto più a fondo le abbiamo spinte
in senso perpendicolare e con gran forza in molti le abbiamo premute a fatica,
con tanto maggiore impulso le rivomita in su e le rigetta,
sì che emergono e bàlzano fuori più che per metà.
E tuttavia non dubitiamo, mi pare, che queste cose, per quanto è in loro,
cadano tutte attraverso lo spazio vuoto verso il basso.
Così, dunque, anche le fiamme devono potere, una volta che per pressione
siano sprizzate attraverso i soffi dell'aria, montare verso l'alto,
benché il peso, per quanto è in esso, lotti per trarle verso il basso.
E le notturne fiaccole del cielo che volano nell'alto,
non vedi come traggono lunghe scie di fiamme
in qualunque parte la natura diede loro un passaggio?
Non vedi cader sulla terra stelle e costellazioni?
Anche il sole dal culmine del cielo diffonde il suo calore
in tutte le direzioni e dissemina la sua luce per i campi:
dunque anche verso le terre si volge il calore del sole.
E attraverso le piogge vedi volare i fulmini;
or di qui or di lì erompendo dalle nubi i fuochi corrono;
comunemente la forza della fiamma cade sulla terra.
A tale proposito desideriamo che tu conosca anche questo:
che i corpi primi, quando in linea retta per il vuoto son tratti
in basso dal proprio peso, in un momento affatto indeterminato
e in un luogo indeterminato, deviano un po' dal loro cammino:
giusto quel tanto che puoi chiamare modifica del movimento.
Ma, se non solessero declinare, tutti cadrebbero verso il basso,
come gocce di pioggia, per il vuoto profondo,
né sarebbe nata collisione, né urto si sarebbe prodotto
tra i primi principi: così la natura non avrebbe creato mai nulla.
Ma, se per caso qualcuno crede che i corpi più pesanti,
più celermente movendosi in linea retta per il vuoto,
cadano dall'alto sui più leggeri e così producano urti
capaci di provocare movimenti generatori,
forviato si discosta lontano dalla verità.
Difatti tutte le cose che cadono per le acque e l'aria sottile,
esse, sì, bisogna che accelerino le cadute in proporzione dei pesi,
perché il corpo dell'acqua e la tenue natura dell'aria
non possono egualmente ritardare ogni cosa,
ma più celermente cedono se son vinti da cose più pesanti.
Per contrario, da nessuna parte e in nessun tempo
lo spazio vuoto può sussistere quale base sotto alcuna cosa,
senza continuare a cedere, come esige la sua natura:
perciò attraverso l'inerte vuoto tutte le cose devono muoversi
con eguale velocità, quantunque siano di pesi non eguali.
Giammai, dunque, le più pesanti potranno cadere dall'alto
sulle più leggere, né potranno per sé stesse generare urti
che mutino i movimenti con cui la natura compie le sue operazioni.
Perciò, ancora e ancora, occorre che i corpi primi declinino
un poco; ma non più del minimo possibile, perché non sembri
che immaginiamo movimenti obliqui: cosa che la realtà confuterebbe.
Infatti ciò vediamo che è alla portata di tutti e manifesto:
che i corpi pesanti, per quanto è in loro, non possono muoversi obliquamente,
quando precipitano dall'alto, almeno fin dove è dato scorgere.
Ma, che essi non declinino assolutamente dalla linea retta
nella loro caduta, chi c'è che possa scorgerlo?
Infine, se sempre ogni movimento è concatenato
e sempre il nuovo nasce dal precedente con ordine certo,
né i primi principi deviando producono qualche inizio
di movimento che rompa i decreti del fato,
sì che causa non segua causa da tempo infinito,
donde proviene ai viventi sulla terra questa libera volontà,
donde deriva, dico, questa volontà strappata ai fati,
per cui procediamo dove il piacere guida ognuno di noi
e parimenti deviamo i nostri movimenti, non in un tempo determinato,
né in un determinato punto dello spazio, ma quando la mente di per sé ci ha spinti?
Difatti senza dubbio in ognuno dà principio a tali azioni la sua propria
volontà, e di qui i movimenti si diramano per le membra.
Non vedi anche come, nell'attimo in cui i cancelli del circo
sono aperti, non possa tuttavia la bramosa forza dei cavalli
prorompere così di colpo come la mente stessa desidera?
Tutta infatti, per l'intero corpo, la massa della materia
deve animarsi, sì che, una volta animata, per tutte le membra
segua con unanime sforzo il desiderio della mente.
Quindi puoi vedere che l'inizio del movimento si crea dal cuore,
e dalla volontà dell'animo esso procede primamente,
e di là si propaga poi per tutto il corpo e gli arti.
Né ciò è simile a quel che accade quando procediamo spinti da un urto,
per la forza possente e la possente costrizione di un altro.
Infatti allora è evidente che tutta la materia dell'intero corpo
si muove ed è trascinata contro il nostro volere,
finché non l'abbia raffrenata per le membra la volontà.
Non vedi dunque ora che, sebbene spesso una forza esterna
molti spinga e costringa a procedere senza che lo vogliano,
e a lasciarsi trascinare a precipizio, tuttavia c'è nel nostro petto
qualcosa che può lottar contro ed opporsi?
È pure a suo arbitrio che la massa della materia
è costretta talora a piegarsi per le membra, per gli arti,
e nel suo slancio è raffrenata, e torna indietro a star ferma.
Perciò anche negli atomi occorre che tu ammetta la stessa cosa,
cioè che, oltre agli urti e ai pesi, c'è un'altra causa
dei movimenti, donde proviene a noi questo innato potere,
giacché vediamo che nulla può nascere dal nulla.
Il peso infatti impedisce che tutte le cose avvengano per gli urti,
quasi per una forza esterna. Ma, che la mente stessa
non abbia una necessità interiore nel fare ogni cosa,
né, come debellata, sia costretta a sopportare e a patire,
ciò lo consegue un'esigua declinazione dei primi principi,
in un punto non determinato dello spazio e in un tempo non determinato.
Né la massa della materia fu mai più compatta,
né, d'altra parte, ebbe mai intervalli maggiori;
giacché nulla s'aggiunge ad accrescerla, niente se ne perde.
Perciò il movimento che agita ora i corpi dei primi principi,
è il medesimo da cui essi furono agitati in passato,
e d'ora in poi sempre si moveranno ugualmente;
e quelle cose che di solito sono nate, nasceranno allo stesso
modo ed esisteranno e cresceranno e varranno per vigore,
quanto a ciascuna fu accordato dalle leggi di natura.
Né alcuna forza può mutare la somma delle cose;
e infatti non c'è ‹di fuori› alcunché, in cui alcun genere
di materia possa fuggir via dal tutto, o da cui
una nuova forza possa sorgere e irrompere nel tutto
e mutare tutta la natura e sovvertirne i movimenti.
Di questo non c'è, a tale proposito, da stupire: che, mentre
tutti i primi principi delle cose sono in movimento,
la loro somma tuttavia sembra starsene in somma quiete,
salvoché qualcosa si muova col proprio corpo.
Infatti la natura dei corpi primi sta tutta molto lontano
dai nostri sensi, al di sotto della loro portata: perciò poiché essi
non si posson discernere, anche i loro movimenti devon sottrarci;
tanto più che le cose che possiamo discernere, tuttavia spesso,
separate da noi per distanza di luoghi, celano i loro movimenti.
E certo spesso su un colle, brucando i pascoli in rigoglio,
lente si muovono le lanute pecore, ognuna dove la chiama
l'invito delle erbe ingemmate di fresca rugiada,
e sazi gli agnelli giocano e gaiamente cozzano;
ma tutto ciò a noi di lontano appare confuso
e come un biancore poggiato sul verde colle.
Inoltre, quando possenti legioni in corsa riempiono
le distese dei campi suscitando simulacri di guerra,
quando un fulgore s'innalza al cielo, e tutta, dintorno,
risplende di bronzo la terra, e di sotto solleva col calpestìo
un rimbombo la forza degli uomini, e i monti percossi
dal clamore rimandano le voci agli astri del cielo,
e dintorno volteggiano i cavalieri e d'improvviso attraversano
il centro dei campi scotendoli con impeto poderoso -
pure c'è un luogo sugli alti monti ‹di dove› sembrano
star fermi e sui campi star poggiati come un fulgore.
E ora, continuando, apprendi quali siano i principi
di tutte le cose, e quanto siano differenti nelle forme,
quanto siano variati per figure di molti generi;
non perché pochi siano dotati di forma simile,
ma perché non sono tutti generalmente uguali a tutti.
Né c'è da meravigliarsene; e infatti, essendo la loro massa
tanto grande che, come ho mostrato, non ha fine, né totale,
senza dubbio non devono avere assolutamente tutti dei tratti uguali
a quelli di tutti gli altri, né essere improntati della stessa figura.
Inoltre, il genere umano e i muti, nuotanti branchi
dei pesci squamosi e gli opimi armenti e le fiere
e i vari uccelli, che popolano le amene dimore
delle acque intorno a spiagge e fonti e laghi,
e che percorrono i boschi inaccessi volandovi attraverso -
prendine uno qualunque in rapporto agli altri della stessa specie:
troverai tuttavia che differiscono tra loro nelle figure.
Né altrimenti la prole potrebbe conoscere la madre,
né la madre la prole; mentre vediamo che lo possono,
e che non meno degli uomini si conoscono tra loro.
Così, spesso davanti agli splendidi templi degli dèi un vitello
cade immolato presso gli altari su cui brucia l'incenso,
esalando dal petto un caldo fiume di sangue.
E la madre orbata, vagando per verdi pascoli,
cerca sul terreno le orme impresse dai piedi bisulchi,
fruga con gli occhi ogni luogo, per vedere se possa
in qualche parte scorgere la creatura che ha perduta; e riempie
di lamenti il bosco frondoso, sostando; e sovente ritorna
alla stalla, trafitta dal rimpianto del giovenco;
e i teneri salici e le erbe rinverdite dalla rugiada
e quelle sue acque, scorrenti a fior delle rive, non possono
dar diletto al suo animo e sviare l'affanno che l'ha presa,
né la vista di altri vitelli per i pascoli in rigoglio
può distrarre il suo animo e alleviarne l'affanno:
tanto essa ricerca qualcosa che è sua propria e che le è nota.
Inoltre, i teneri capretti che han tremule voci riconoscono
le madri dalle fronti cornute, e i cozzanti agnelli
le pecore che belano: così, come esige la natura,
ciascuno generalmente accorre alle mammelle del suo latte.
Infine, in qualunque specie di frumento vedrai che i grani,
ciascuno nel suo genere, non sono tuttavia tutti simili fra loro,
sì che non corra una certa differenza tra le forme.
E con simile differenza vediamo la specie delle conchiglie
dipingere il grembo della terra, là dove con molli onde
l'acqua del mare batte la sabbia assetata del lido incurvato.
Pertanto, ancora e ancora: poiché i primi principi delle cose
esistono per natura, e non sono foggiati da una mano
secondo la forma determinata di uno solo, similmente occorre
che certe loro specie volteggino con figure tra loro dissimili.
È molto facile per noi spiegare col ragionamento
perché il fuoco del fulmine abbia un flusso molto
più penetrante di questo nostro, sorto da fiaccole terrestri.
Puoi dire infatti che il celeste fuoco del fulmine è più sottile
per la piccolezza dei suoi elementi, e perciò passa
attraverso forami per cui non può passare questo
nostro fuoco sorto dalle legna e prodotto dalla fiaccola.
Inoltre la luce passa attraverso il corno, ma la pioggia
è respinta. Per quale causa, se non perché quei corpi di luce sono
più piccoli di quelli di cui consta il liquido dell'acqua che dà vita?
E vediamo che il vino fluisce attraverso il colatoio con tutta
l'istantaneità che vuoi; ma, al contrario, l'olio indugia tardo:
evidentemente perché è composto di elementi più grandi
oppure più uncinati e più intrecciati tra loro, e perciò accade
che i primi principi non possano staccarsi in modo
abbastanza repentino per passare ciascuno isolatamente
dagli altri attraverso i singoli forami di ogni cosa.
A ciò s'aggiunge che i liquidi del miele e del latte
s'assaporano in bocca con piacevole sensazione della lingua;
ma al contrario la ripugnante natura dell'assenzio e la selvaggia
centaurea fanno storcere la bocca col sapore repellente;
sì che puoi facilmente riconoscere che di atomi lisci e rotondi
son fatte quelle cose che possono piacevolmente toccare i sensi,
mentre al contrario tutte quelle che si trovano amare e aspre,
son tenute intrecciate tra loro da atomi più uncinati
e perciò sogliono lacerare le vie dei nostri
sensi ed entrando far violenza al corpo.
Tutte le cose, infine, che per i sensi son buone o cattive a toccarsi,
contrastano tra loro perché son composte di atomi di forme differenti.
Non devi, dunque, credere, per caso, che l'acerbo raccapriccio
prodotto dalla sega stridente consti di atomi tanto lisci
quanto le musicali melodie, cui sulle corde i suonatori
dan forma suscitandole con agili dita;
né devi credere che atomi di forma simile penetrino
nelle nari degli uomini, quando si bruciano deformi cadaveri
e quando la scena è stata di recente aspersa con croco di Cilicia
e un altare dappresso esala profumi d'incenso della Pancaia;
né devi supporre che i buoni colori delle cose, che possono
pascere gli occhi, constino di atomi simili a quelli dei colori
che pungono la pupilla e costringono a lacrimare
o per l'odioso aspetto appaiono funesti e ripugnanti.
Infatti ogni ‹forma› che accarezza i sensi, non è stata
prodotta senza qualche levigatezza di primi principi;
e, al contrario, ogni forma che è molesta ed aspra,
non è stata formata senza qualche ruvidezza di materia.
Ci sono poi altri atomi che non si possono giustamente
credere levigati, né del tutto uncinati con punte ritorte,
ma hanno piuttosto angoletti un po' sporgenti,
‹sì che› possono titillare i sensi piuttosto che offenderli:
di tal genere appunto son gli atomi che fanno la feccia del vino
e il sapore dell'enula. E infine, che caldi fuochi e gelida brina
pungano i sensi del corpo con atomi dentati in modi
differenti, ce lo rivela il contatto dell'uno e dell'altro.
Il tatto infatti, il tatto, per la santa potenza degli dèi,
è il senso del corpo, sia quando una cosa esterna s'insinua,
sia quando una che è nata dentro il corpo ci molesta
oppure ci dà piacere uscendo nei generatori atti di Venere,
o quando per un urto s'agitano nel corpo stesso
gli atomi ‹e› tra loro scontrandosi confondono il senso;
come puoi sperimentare tu stesso se per caso con la mano
ti colpisci una qualunque parte del corpo.
Pertanto i primi principi devono avere forme di gran lunga
differenti, che possano produrre sensazioni diverse.
Infine quelle cose che ci appaiono dure e spesse,
occorre che siano più conteste di atomi uncinati e tenute strette
in profonda compattezza come da particelle ramificate.
In tale genere, stanno anzitutto in prima linea
le pietre di diamante, avvezze a sfidare i colpi,
e le selci possenti e la robustezza del duro ferro
e il bronzo che stride resistendo ai catenacci.
Devono invero esser fatte maggiormente di atomi lisci e rotondi
quelle cose che sono liquide, che constano di un corpo fluido;
e infatti un sorso di semi di papavero s'inghiotte facilmente al pari
d'un sorso d'acqua; ché le singole particelle rotonde non si trattengono
a vicenda, e un colpo le fa sùbito scorrere verso il basso come l'acqua.
Tutte le cose infine che vedi dileguarsi in un attimo,
come il fumo le nuvole e le fiamme, è necessario che, se pure
non sono tutte fatte di atomi lisci e rotondi,
tuttavia non siano impedite da elementi intrecciati,
sì che possano pungere il corpo e penetrare i sassi,
senza tuttavia aderire tra loro: puoi quindi facilmente conoscere
che qualunque cosa vediamo lenita dai sensi,
non è fatta di elementi intrecciati, bensì di acuti.
Ma, quando vedi che alcune cose amare sono anche fluide,
com'è l'acqua del mare, non devi in alcun modo stupirti.

*

Infatti, poiché è fluida, è fatta di atomi lisci e rotondi,
e ‹a quelli sono› misti corpi ‹scabri› che causano dolore;
né tuttavia occorre che questi siano uncinati e si tengano insieme;
non c'è dubbio che sono tuttavia sferici, pur essendo scabri,
sì che possono insieme e rotolare e ledere i sensi.
E, perché meglio ti persuada che agli atomi lisci sono misti
atomi aspri, per cui è amaro il corpo di Nettuno, c'è modo
di dividere gli uni dagli altri e vederli separatamente:
l'acqua, quando filtra spesso attraverso la terra,
fluisce dolce in una buca e si mitiga:
lascia infatti di sopra i principi della ripugnante salsedine,
perché, aspri come sono, meglio possono aderire alla terra.
E, poiché ho insegnato ciò, proseguirò connettendo una cosa
che da ciò dipende e deriva evidenza: i primi principi delle cose
variano per un limitato numero di forme.
Che se così non fosse, allora di nuovo alcuni atomi
dovrebbero avere corpo di grandezza infinita.
Infatti, entro la stessa piccolezza di un qualsiasi corpo,
non possono le forme variar molto fra loro:
supponi, in effetti, che i corpi primi siano costituiti
di tre parti minime, o aumentane di poche altre il numero;
certo - quando avrai sperimentato in ogni modo tutte
quelle parti di un unico corpo, collocandole in alto e in basso,
trasmutandole da destra a sinistra, per vedere quale forma
di figura dia a tutto quel corpo ciascun ordinamento -
se, procedendo oltre, vorrai per caso produrre figure diverse,
bisognerà aggiungere altre parti; poi seguirà
che in simile modo l'ordinamento richieda altre parti,
se tu per caso vorrai variare ancora le figure:
dunque, alla novità delle forme sussegue l'aumento del corpo.
Perciò non puoi in alcun modo credere
che gli atomi differiscano per infinite forme,
tranne che tu non costringa alcuni di essi a essere di immane
grandezza: cosa che di sopra ho già mostrata inammissibile.
Allora vedresti le barbariche vesti e la fulgente porpora
di Melibea, tinta col colore delle conchiglie tessaliche,
e le auree generazioni dei pavoni, cosparse di grazia ridente,
giacere vinte da nuovi colori; e disprezzati
sarebbero l'odore della mirra e il sapore del miele;
e le melodie dei cigni e i canti di Febo, con arte modulati
sulle corde, similmente soverchiati tacerebbero;
ché sempre sorgerebbe qualcosa superiore ad ogni altra.
Parimenti, tutte le cose potrebbero all'inverso passare a condizioni
peggiori, come, lo abbiamo detto, a migliori potrebbero sorgere;
infatti, anche procedendo all'inverso, ci sarebbe sempre qualcosa
più delle altre ripugnante a nari, orecchie e occhi e gusto.
Poiché ciò non accade, ‹ma› un limite certo assegnato alle cose
ne racchiude la somma dall'una parte e dall'altra, devi ammettere
che anche la materia varia per numero limitato di forme.
Infine, dal fuoco alle gelide brine invernali c'è un tratto
limitato, e ugualmente si misura la distanza in senso inverso.
Infatti tutti i gradi di calore e di freddo e di temperati tepori
sono nel mezzo di questi estremi, compiendo la somma nell'ordine dovuto.
Dunque sono stati creati diversi in una gradazione limitata,
poiché con duplice punta son segnati all'uno e all'altro estremo,
infestati di qui dalle fiamme, di lì dalle rigide brine.
E, poiché ho insegnato ciò, proseguirò connettendo
una cosa che da ciò dipende e deriva evidenza: i primi principi
delle cose che hanno figure simili tra loro, sono infiniti.
Infatti, essendo finita la differenza delle forme,
è necessario che quelle che sono simili
siano infinite oppure che la somma della materia
sia finita, cosa che ho dimostrato non essere,
mostrando nei miei versi che i corpuscoli della materia
provenienti dall'infinito mantengono sempre la somma delle cose,
da ogni parte susseguendosi gli urti in successione continua.
In effetti, se vedi che sono più rari alcuni animali,
e meno feconda osservi in essi la natura,
tuttavia in regione e luogo diversi e in terre remote può darsi
ne esistano molti altri di quella specie e il numero si compia;
così, tra i quadrupedi in primo luogo vediamo gli elefanti
dalla proboscide serpentina: da molte migliaia di loro
è formato il vallo d'avorio di cui l'India è cinta,
sì che non si può penetrare dentro: così grande è il numero
di queste fiere, di cui noi vediamo pochissimi esemplari.
Ma tuttavia, per concederti anche questo: ci sia pure qualche cosa,
quanto si voglia unica, sola col corpo con cui è nata,
che ‹non› abbia un'altra che le somigli ‹su› tutta la terra;
se tuttavia non ci sarà un'infinita quantità di materia
da cui possa essere concepita e generata, essa non potrà
essere creata, né, di poi, crescere e nutrirsi.
E infatti - quand'anche io supponga questo, che in numero finito
siano sbattuti qua e là per il tutto gli atomi generatori di un'unica cosa -
donde, dove, per che forza e in che modo s'incontreranno e s'uniranno
in sì vasto mare di materia e confusione d'atomi estranei?
Non hanno, io penso, modo di aggregarsi;
ma - come, quando sono avvenuti molti e grandi naufragi,
il vasto mare suole gettare qua e là banchi, costole di nave,
antenne, prore, alberi e remi galleggianti,
sì che lungo tutte le spiagge si vedono fluttuare
aplustri e dare ai mortali ammonimento
a volere evitare le insidie del mare infido
e le violenze e il suo inganno, e a non credergli mai,
quando l'allettamento della bonaccia subdolo ride -
così, bada, una volta che t'immaginerai in numero finito
i primi principi d'una certa specie, sparsi per il tempo infinito,
essi dovranno essere gettati qua e là dai flutti della materia
che vanno in sensi opposti, sì che non potranno mai essere sospinti insieme
e unirsi in aggregazione, né restare aggregati, né, aumentati, svilupparsi;
ma fatti manifesti mostrano che palesemente accadono e l'una e l'altra cosa:
e che le cose nascono, e che, nate, possono crescere.
È dunque palese che esistono per qualunque specie infiniti
primi principi, da cui tutte le cose vengono rifornite.
Pertanto non possono i movimenti distruttori vincere
in perpetuo e seppellire in eterno la vita;
né, d'altronde, i movimenti che generano e accrescono le cose
possono in perpetuo conservare quanto è stato creato.
Così con uguale esito prosegue la guerra
dei primi principi, che arde da tempo infinito.
Ora qui, ora lì, vincono le forze vitali
e parimenti son vinte. Al pianto funebre si mescola il vagito
che levano i bimbi venendo a vedere le rive della luce;
né mai notte è seguìta a giorno, né aurora a notte,
senza che abbia udito misti a lamentosi vagiti
i pianti compagni della morte e del nero funerale.
Questo, a tale proposito, conviene aver suggellato
e tenere ben fermo nella memore mente: che tra le cose
la cui natura è immediatamente visibile non c'è nulla
che consista di un unico genere di primi principi,
non c'è cosa che non consti di mescolanza di semi diversi;
e più una cosa qualsiasi possiede in sé varie forze
e proprietà, più essa mostra con ciò di avere in sé
parecchi generi e varie forme di primi principi.
Anzitutto la terra ha in sé i corpi primi dai quali le fonti,
che diffondono frescura, rinnovano assiduamente
il mare immenso; ha quelli dai quali nascono i fuochi.
Infatti in molti luoghi, acceso sotto i nostri piedi, arde il suolo
della terra, mentre di fuochi profondi infuria l'impeto dell'Etna.
E poi essa ha quegli altri corpi da cui splendide messi
ed alberi rigogliosi può fare sorgere per le genti umane;
ha quelli da cui anche fiumi, fronde e pascoli rigogliosi
può offrire alla stirpe delle fiere che vaga sui monti.
Perciò Gran Madre degli dèi e madre delle fiere
e genitrice del nostro corpo fu detta essa sola.
Di lei cantarono gli antichi dotti poeti di Grecia
che assisa in trono su un carro guidava due leoni aggiogati,
insegnando così che la vasta terra è sospesa nello spazio
aereo, né può sulla terra stare poggiata la terra.
Aggiogarono al carro le fiere, perché la prole, quantunque
selvaggia, deve ammansirsi, vinta dalle cure dei genitori.
E le cinsero la sommità del capo d'una corona murale,
perché munita di alture sostiene città;
di tale diadema adorna, ora destando sacro orrore incede
attraverso le vaste terre l'immagine della madre divina.
Lei varie genti, secondo l'antico rito,
chiamano Madre Idea, e le danno corteggio di turbe di Frigi,
perché primamente da quella regione dicono che le messi
abbiano cominciato a propagarsi per tutta la terra.
Le assegnano i Galli, perché vogliono significare che coloro
che hanno offeso il nume della Madre e si son mostrati
ingrati verso i genitori, devono essere giudicati indegni
di generare viva progenie alle rive della luce.
Timpani tesi tuonano sotto le palme e concavi cembali
tutt'intorno, e col rauco canto i corni minacciano,
e col frigio ritmo il cavo flauto esalta le menti;
ed essi protendono armi, segni del violento furore,
per potere atterrire gli animi ingrati e gli empi petti
del volgo col timore della maestà della dea.
E così, appena, entrata e tratta attraverso le grandi città,
muta fa dono ai mortali di una tacita salute,
di bronzo e argento ne cospargono il percorso su ogni strada,
arricchendola di larghe offerte, e fanno nevicare fiori di rosa,
ombreggiando la Madre e le turbe che le fan corteggio.
Qui un manipolo di armati, che i Greci chiamano Cureti,
se tra le turbe frigie danza e in ritmo tripudia,
lieto alla vista del sangue, col movimento delle teste
scotendo i terribili pennacchi, rappresenta
i Cureti del Ditte, dei quali si racconta che in Creta
un giorno occultarono quel favoloso vagito di Giove;
quando, bambini intorno a un bambino, con rapida danza,
armati percotevano in ritmo bronzo con bronzo,
perché Saturno non lo scoprisse e maciullasse tra le mascelle,
producendo un'eterna ferita nel petto della Madre.
È per questo che armati accompagnano la Grande Madre,
o perché significano che la dea comanda che con le armi
e il valore siano risoluti a difendere la terra dei padri
e siano pronti a essere presidio e vanto dei loro genitori.
Ma queste cose, pur bene ed egregiamente disposte
e tramandate, tuttavia si discostano molto dalla verità.
Infatti è necessario che ogni natura divina goda
di per sé vita immortale con somma pace,
remota dalle nostre cose e immensamente distaccata.
Ché immune da ogni dolore, immune da pericoli,
in sé possente di proprie risorse, per nulla bisognosa di noi,
né dalle benemerenze è avvinta, né è toccata dall'ira.
E la terra stessa, in verità, è in ogni tempo priva di senso;
e, poiché di molte cose possiede in sé i primi principi,
molti prodotti in molti modi fa sorgere alla luce del sole.
Ora, se qualcuno deciderà di chiamare Nettuno il mare
e Cerere le messi, e preferisce impiegare abusivamente il nome
di Bacco, anziché pronunziare il nome che è proprio del vino,
concediamogli pure di andar dicendo che la terra
è la madre degli dèi, purché in effetti egli tuttavia si astenga
dal contaminare l'animo suo con turpe superstizione.
E così le lanute pecore e la guerriera prole dei cavalli
e le cornute mandrie dei buoi, pur sovente brucando l'erba
da un unico prato, sotto la stessa volta del cielo,
e da un unico corso d'acqua placando la sete, tuttavia
con dissimile aspetto vivono, e conservano la natura
dei genitori e ne ripetono le abitudini, ciascuno secondo la specie.
Tanto è grande la diversità della materia in qualunque
genere d'erba, tanto essa è grande in ogni corso d'acqua.
E poi, qualsiasi essere vivente, nel complesso delle sue parti,
è composto di ossa, sangue, vene, calore, umore, visceri, nervi;
che sono anch'essi di gran lunga differenti,
costituiti di primi principi di forma dissimile.
E ancora, tutte le cose che infiammate dal fuoco bruciano,
se nient'altro, nascondono almeno nel proprio corpo
gli elementi da cui possano far sorgere il fuoco ed emettere
la luce e sprizzare scintille e lontano disperdere la cenere.
Con ragionare consimile passando in rassegna
tutte le altre cose, troverai allora che nascondono nel corpo
semi di molte cose e racchiudono varie figure.
Infine, vedi molte cose a cui e il colore e il sapore son dati
insieme all'odore; in primo luogo la maggior parte dei frutti.
Questi devono dunque constare di atomi di varie forme:
l'odore, infatti, penetra per dove il colore non entra nelle membra,
il colore ha del pari una propria via, ‹una propria via› ha il sapore
per insinuarsi nei sensi; sì che puoi conoscere che differiscono nelle figure
dei primi principi. Dissimili forme, dunque, concorrono a comporre un unico
agglomeramento, e le cose constano di mescolanza di semi diversi.
Anzi, qua e là nei nostri stessi versi tu vedi
molte lettere comuni a molte parole,
mentre tuttavia devi ammettere che versi e parole differiscono
tra loro, che ognuno consta di lettere diverse;
non perché soltanto poche lettere comuni vi ricorrano
o perché mai due parole siano composte di lettere tutte uguali
tra loro, ma perché non son tutte generalmente uguali a tutte.
Così nelle altre cose parimenti, benché molti siano
i primi principi comuni a molte cose, tuttavia esse possono
sussistere costituite da complessi diversi tra loro;
sì che giustamente si dice che di atomi differenti
son composti il genere umano e le messi e gli alberi rigogliosi.
Né tuttavia si deve credere che possano in ogni modo
aggregarsi tutti gli atomi. Altrimenti vedresti dovunque
prodursi portenti, sorgere semiferine forme d'uomini,
e talora alti rami spuntare da un corpo vivente,
e molte membra di animali terrestri connettersi a parti
di animali marini, e per le terre, che ogni cosa generano,
la natura pascere Chimere spiranti fiamma dall'orrida bocca.
Ma è manifesto che nulla di ciò accade, giacché vediamo
che tutte le cose, da semi determinati, da determinata genitrice
procreate, possono conservare crescendo la loro specie.
Certo ciò deve prodursi secondo una legge determinata.
Infatti da tutti i cibi si diffondono, dentro, nelle parti
del corpo, gli atomi propri a ognuna, e connessi producono
movimenti concordanti. Ma al contrario vediamo
che la natura rigetta alla terra gli elementi estranei; e molti
con invisibili corpi fuggono dal corpo spinti dagli urti,
perché non hanno potuto connettersi in alcuna parte,
né, dentro, accordarsi coi movimenti vitali e imitarli.
Ma, perché tu non creda per caso che solo gli esseri viventi
siano astretti da queste leggi, la stessa regola delimita tutte le cose.
Infatti, come tutte le cose generate sono dissimili tra loro
nel complesso della loro natura, così è necessario
che ciascuna consti di primi principi di figura dissimile;
non perché pochi siano dotati di forma simile,
ma perché non sono tutti generalmente uguali a tutti.
E poiché sono differenti i semi, è necessario differiscano
gl'intervalli, le vie, le connessioni, i pesi, gli urti,
gl'incontri, i movimenti, che non solo distinguono i corpi
degli esseri viventi, ma dividono la terra e l'intero mare
e tengono separato dalla terra tutto il cielo.
Ora ascolta le parole che io con dolce fatica ho cercate,
affinché tu per caso non creda composte di primi principi
bianchi queste bianche cose che ai tuoi occhi mostrano
il loro candore, o nate da nero seme le cose che sono nere;
o quelle cose che sono imbevute di un altro qualsiasi colore,
per ciò tu creda che lo portino, perché i corpi della materia
siano tinti di un colore consimile a quello.
Infatti i corpi della materia non hanno assolutamente colore,
né uguale a quello delle cose, né, d'altronde, diverso.
E se per caso ti pare che non c'è slancio dell'animo che possa
giungere a concepire questi corpi, forviato tu erri lontano.
Difatti, se è vero che i ciechi nati, che non hanno mai scorto
la luce del sole, tuttavia conoscono al tatto corpi
che dal principio della vita sono stati per essi privi di colore,
si può concludere che anche la nostra mente può pervenire
alla conoscenza di corpi non ricoperti di alcuna tinta.
Infine, noi stessi, tutte le cose che tocchiamo
nelle cieche tenebre, non le sentiamo tinte di alcun colore.
E poiché ho provato che questo avviene, ora mostrerò
che ‹i primi principi› sono ‹privi di qualsiasi colore›.
Infatti ogni colore, assolutamente, si muta e ogni
‹cosa che cambia colore, cambia sé stessa›;
ciò che i primi principi non devono fare in alcun modo.
È necessario, in effetti, che qualcosa sopravanzi immutabile,
perché tutte le cose non si riducano appieno al nulla.
Infatti ogni volta che una cosa si muta ed esce dai propri
termini, sùbito questo è la morte di ciò che era prima.
Perciò guàrdati dal cospargere di colore i semi delle cose,
perché tutte le cose non ti si riducano appieno al nulla.
Inoltre, se nessuna natura di colore è stata assegnata
ai primi principi, ed essi sono dotati di varie forme,
con le quali generano e variano ogni genere di colori,
in quanto che importa molto con quali altri i primi principi
di ciascuna specie, e in quale disposizione, siano collegati,
e quali movimenti a vicenda imprimano e ricevano,
tu puoi sùbito spiegare molto facilmente
perché quelle cose che poco prima erano di color nero,
possano diventare d'un tratto di un candore marmoreo:
così il mare, quando forti venti ne hanno sconvolto la superficie,
si muta in flutti che biancheggiano come un candido marmo.
Puoi, infatti, dire che ciò che di solito noi vediamo nero,
quando la sua materia è stata rimescolata e l'ordine dei primi
principi è stato mutato e certe cose sono state aggiunte e certe tolte,
sùbito avviene che appaia di una luminosa bianchezza.
Che se le acque del mare fossero composte di semi cerulei,
non potrebbero in alcun modo biancheggiare.
Infatti, in qualunque modo tu sconvolga semi che siano
cerulei, giammai possono passare al colore del marmo.
Se poi sono tinti parte di un colore e parte di un altro
i semi che fanno l'unico e puro colore del mare,
come spesso da diverse forme e da varie figure
è prodotta qualche cosa quadrata e di un'unica figura,
in tal caso, come nel quadrato scorgiamo che ci sono forme
dissimili, così si dovrebbero scorgere nelle acque del mare
o in qualsiasi altro colore unico e puro
colori vari e di gran lunga dissimili tra loro.
Inoltre, le figure dissimili non si oppongono per nulla
e non precludono che il tutto sia quadrato nel contorno esterno;
mentre i diversi colori nelle cose impediscono e proibiscono
che l'intera cosa possa essere di un unico colore.
E poi, la ragione, che talvolta ci induce e alletta
ad attribuire colori ai primi principi delle cose, cade,
se le cose bianche non si creano da primi principi bianchi,
né quelle che appaiono nere, da neri, ma di colori diversi.
E in effetti cose candide nasceranno e sorgeranno
molto più agevolmente da nessun colore, che dal nero
o da qualsiasi altro che contrasti e si opponga.
Inoltre, poiché senza luce non possono esserci colori,
né i primi principi delle cose emergono alla luce,
si può conoscere come questi non siano rivestiti di colore.
E infatti, quale colore potrà esserci nelle cieche tenebre?
Che anzi nella luce stessa il colore si muta, secondo
che rifulge percosso da raggi di luce diretti o obliqui;
come si vedono nel sole le piume delle colombe,
che si trovano intorno alla nuca e incoronano il collo;
e infatti talora accade che abbiano il rosso del lucido piropo;
altre volte, per un certo modo di percepire, accade
che sembrino mescolare tra il ceruleo verdi smeraldi.
E la coda del pavone, quando è riempita di copiosa luce,
similmente muta, secondo che si è voltata, i colori;
e, poiché questi son prodotti da un certo colpire della luce,
chiaramente si deve credere che non possono nascere senza quella.
E, poiché la pupilla riceve in sé un certo genere d'impressione
quando si dice che percepisce il colore bianco,
e un altro genere, d'altronde, quando percepisce il nero
e i restanti colori, né importa di quale colore siano per caso
dotate le cose che tocchi, ma piuttosto di che figura sian fornite,
ne risulta che i primi principi non hanno bisogno di colori,
ma secondo le varie forme suscitano diverse sensazioni di tatto.
Inoltre, poiché a determinate forme di atomi non appartiene
una determinata natura di colore, e tutte le conformazioni
dei primi principi possono esistere in qualsiasi colore,
perché mai le cose che ne risultano non sono ugualmente
cosparse d'ogni genere di colori in ogni loro genere?
Dovrebbero infatti anche i corvi spesso, volando,
da bianche penne spandere bianco colore,
e neri prodursi da nero seme i cigni,
o da qualsiasi altro colore, unico o vario.
Che anzi, quanto più ogni cosa viene sminuzzolata
in parti minute, tanto più puoi vedere il colore
svanire a poco a poco ed estinguersi;
come avviene quando in piccole parti si lacera la porpora:
il colore purpureo e lo scarlatto, di gran lunga il più lucente,
quando è stato sminuzzolato a filo a filo, tutto si distrugge;
sì che di qui puoi conoscere che le particelle perdono
tutto il colore prima di ridursi allo stato di atomi.
Infine, poiché ammetti che non tutti i corpi
emettono un suono o un odore, ne deriva la conseguenza
che non a tutti attribuisci suoni e odori.
Parimenti, poiché non tutte le cose possiamo discernere
con gli occhi, è chiaro che esistono alcune cose prive di colore,
come ne esistono alcune senza odore e scevre di suono,
e tuttavia la mente sagace può conoscerle, non meno di quanto
può distinguere quelle cose che sono prive di altre qualità.
Ma, perché tu non creda per caso che del solo colore
siano spogli i corpi primi, essi sono anche del tutto mancanti
di tepore e di freddo e di fervido calore,
e si aggirano sterili di suono e digiuni di sapore,
né spandono dal corpo alcun proprio odore.
Come - quando prepari il soave liquido della maggiorana
o della mirra o l'essenza del nardo, che alle narici esala
profumo di nettare, bisogna in primo luogo cercare,
per quanto è possibile e ti riesca di trovarne, una specie
di olio inodoro, che non mandi alle narici alcuna esalazione,
sì che il meno possibile rovini, col contatto del suo acre effluvio,
gli odori mescolati e assimilati al suo corpo dalla cottura -
per la stessa ‹ragione› occorre che i primi principi delle cose
non apportino nella generazione delle cose un loro odore,
né un suono, poiché nulla possono da sé emettere,
né, similmente, alcuna specie di sapore,
né freddo, né, del pari, calore o tepore, né altra delle cose simili;
le quali - poiché sono in ogni caso tali da risultare mortali,
di corpo molle le flessibili, di friabile le fragili, di rado le porose -
tutte è necessario che siano disgiunte dai primi principi,
se vogliamo porre sotto le cose fondamenti immortali,
su cui poggi la salvezza del tutto.
Altrimenti tutte le cose ti si ridurranno appieno al nulla.
Ora, le cose, quali che siano, che vediamo dotate di senso,
è necessario tu ammetta che tuttavia sono tutte composte
di primi principi insensibili. Né ciò confutano, né oppugnano
fatti manifesti, che son noti come evidenti; ma piuttosto
essi stessi ci conducono per mano e ci costringono a credere
che da cose insensibili, come dico, sono generati gli esseri animati.
In effetti è possibile vedere che vivi vermi spuntano fuori
dallo sterco nauseabondo, quando si è putrefatta
per effetto di piogge eccessive l'umida terra;
peraltro, che tutte le cose si mutano ugualmente:
i fiumi, le fronde e i pascoli rigogliosi si mutano
in greggi, le greggi mutano la propria natura nei corpi nostri,
e del nostro corpo spesso si accrescono le forze
delle fiere e i corpi degli uccelli dalle penne possenti.
Dunque la natura muta in corpi vivi tutti i cibi
e da questi produce tutti i sensi degli esseri animati,
in modo non molto diverso da come sprigiona le fiamme
dalle aride legna e trasmuta tutte le cose ‹in› fuoco.
E dunque non vedi ora che molto importa in quale ordine
tutti i primi principi siano collocati e con quali altri
siano commisti quando imprimono e ricevono movimenti?
E poi, che cosa è che percuote la mente stessa,
che la muove e costringe a esprimere diversi pensieri,
impedendoti di credere che il sensibile si generi dall'insensibile?
Certo è questo: che le pietre e le legna e la terra, insieme
mescolate, non possono tuttavia produrre il senso vitale.
Questo, a tale proposito, converrà dunque ricordare:
ch'io non dico che, quali che siano le cose che creano
le cose sensibili, da tutte in ogni caso nascono senz'altro i sensi,
ma che molto importa, in primo luogo, quanto piccoli siano
gli elementi che producono il sensibile, e di che forma sian dotati,
infine quali siano quanto a movimenti, ordini, disposizioni.
Ma niente di ciò vediamo nelle legna e nelle zolle;
e tuttavia queste, quando sono come putrefatte per le piogge,
generano vermiciattoli, perché i corpi di materia,
spostati dagli ordini antichi per il nuovo stato di cose,
si aggregano nel modo per cui devono nascere esseri animati.
Quelli poi che suppongono che il sensibile possa crearsi
da elementi sensibili, soliti a sentire a loro volta grazie ad altri
‹elementi sensibili, fanno mortali i primi principi,›
poiché li fanno molli. Infatti ogni sensazione è legata
alle viscere, ai nervi, alle vene: cose che generalmente
vediamo esser molli e dotate di corpo mortale.
Ma tuttavia sia ora ammesso che tali elementi possano durare
eterni: certo devono tuttavia o avere la sensibilità d'una parte
o essere stimati simili a interi esseri animati.
Ma necessariamente è impossibile che le parti di per sé abbiano senso;
giacché ogni sensazione delle membra è in rapporto con qualche
altra cosa, né può una mano staccata da noi, né generalmente
alcuna parte del corpo da sola conservare la sensibilità.
Resta che essi siano assomigliati a interi esseri animati.
Così è necessario che sentano ugualmente ciò che noi sentiamo,
sì che possano da ogni parte consentire col senso vitale.
Come potranno, dunque, esser detti primi principi delle cose
ed evitare le vie della morte, quando sono esseri animati,
ed esseri animati e mortali non ‹sono› che un'unica e identica cosa?
E, ammesso pure che possano, con l'incontro e l'unione
non faranno altro che una folla e una turba di esseri animati,
come, evidentemente, uomini, armenti e fiere
non potrebbero, congregandosi tra loro, generare alcunché.
Che se per caso nel corpo perdono la sensibilità
e ne assumono un'altra, che bisogno c'era che fosse loro attribuito
ciò che vien tolto? E poi, c'è ancora l'argomento a cui siamo ricorsi
prima: poiché vediamo che le uova degli uccelli si mutano
in viventi pulcini, e vermi brulicano quando per piogge
eccessive putredine ha invaso la terra, è dato concludere
che la sensibilità può nascere dai non sensibili.
Che se per caso qualcuno dirà che, ad ogni modo,
il senso può sorgere dal non-senso per mutamento
o quasi per una specie di parto, per cui vien prodotto
e tratto fuori, basterà spiegare a costui e provare questo:
che non avviene parto se non si è prima compiuta un'unione,
e che niente si muta, se non dopo essersi aggregato.
Anzitutto, nessun corpo può aver sensi
prima che sia nata la stessa natura dell'essere animato,
certo perché la sua materia si trova sparpagliata
nell'aria, nei fiumi, nella terra e nei prodotti della terra,
né ancora si è raccolta, né ha combinato tra loro
i moti vitali, concordanti, per i quali i sensi onniveggenti
sono accesi e proteggono ogni essere vivente.
Inoltre, un colpo abbatte d'un tratto qualunque vivente
quando è più violento di quel che sopporta la sua natura,
e procede a scompigliare tutti i sensi del corpo e dell'animo.
Sono dissolte infatti le disposizioni dei primi principi
e nel profondo i moti vitali sono intralciati,
finché la materia, scossa per tutte le membra,
scioglie dal corpo i nodi vitali dell'anima
e la caccia fuori dispersa per tutte le aperture.
E in effetti, che altro dobbiamo credere che possa fare
un colpo inferto, se non rompere e dissolvere ogni cosa?
Avviene pure che, dopo un colpo inferto meno duramente,
i rimanenti moti vitali sogliano spesso vincere,
vincere, e sedare gli ingenti tumulti del colpo,
e richiamare ciascuna parte di nuovo nei suoi meati,
e spezzare il moto della morte, che già quasi domina
nel corpo, e riaccendere i sensi quasi perduti.
E in effetti, con che altro mezzo potrebbero, pur giunti ormai
al limitare della morte, raccogliere gli spiriti e tornare alla vita,
piuttosto che andare là dove si è già quasi giunti, e svanire?
Inoltre, poiché c'è dolore quando i corpi della materia,
scossi da qualche forza per le viscere vive, per le membra,
si agitano disordinatamente nel profondo delle proprie sedi,
e, quando tornano a posto, nasce un carezzevole piacere,
è evidente che i primi principi non possono essere travagliati
da alcun dolore, né sentire in sé stessi alcun piacere;
giacché non sono composti di corpi di primi principi
dalla novità del cui moto possano essere travagliati
o prendere qualche frutto di dolcezza vivificatrice.
Devono dunque essere privi di qualsiasi senso.
E se, perché possano tutti gli esseri viventi sentire, bisogna
in fin dei conti che il senso sia attribuito ai loro primi principi,
come saranno quelli di cui il genere umano è specificamente formato?
Senza dubbio essi sghignazzano, scossi da tremulo riso,
e di stillanti lagrime spargono i volti e le guance,
e sanno dire molte cose intorno alla mescolanza dei corpi
e, per di più, ricercano quali siano i loro primi principi;
giacché, simili a interi uomini mortali,
devono anch'essi constare di altri elementi,
e poi questi di altri, sì che mai tu osi fermarti:
infatti ti incalzerò, sì che, a qualunque cosa assegnerai il parlare e il ridere
e il ragionare, essa dovrà essere costituita di elementi che compiono
questi stessi atti. Ma se scorgiamo che ciò è delirio e follia,
e ridere può uno che non sia costituito di atomi ridenti,
e ragionare e con dotti detti spiegare le cose può uno
che non sia costituito di atomi sapienti ed eloquenti,
perché mai quegli esseri che vediamo dotati di senso non potrebbero
esser costituiti di mescolanze di atomi del tutto privi di senso?
Infine noi siamo tutti nati da seme celeste; a tutti è padre
quello stesso, da cui la terra, la madre che ci alimenta,
quando ha ricevuto le limpide gocce di pioggia,
concepisce e genera le splendide messi e gli alberi rigogliosi
e il genere umano, genera tutte le stirpi delle fiere,
offrendo i cibi con cui tutti nutrono i corpi
e conducono una piacevole vita e propagano la progenie;
perciò a ragione essa ha ricevuto il nome di madre.
Del pari ritorna alla terra ciò che un tempo uscì dalla terra,
e quel che fu mandato giù dalle plaghe dell'etere,
ritorna alle volte del cielo che nuovamente lo accolgono.
Né la morte distrugge le cose sì da annientare i corpi
della materia, ma di questi dissolve l'aggregazione;
poi congiunge altri atomi con altri e fa che tutte le cose
così modifichino le loro forme e mutino i loro colori
e acquistino i sensi e in un attimo li perdano, sì che puoi
conoscere come importi con quali altri i medesimi
primi principi, e in quale disposizione, siano collegati,
e quali movimenti a vicenda imprimano e ricevano,
e non devi credere che negli eterni corpi primi possa
aver sede ciò che vediamo fluire alla superficie
delle cose e talora nascere e sùbito perire.
Anzi, nei nostri stessi versi è importante
con quali altre e in quale ordine ogni lettera sia collocata;
giacché le stesse lettere significano il cielo, il mare, le terre,
i fiumi, il sole, le stesse le messi, gli alberi, gli esseri viventi;
se non tutte, almeno per la parte di gran lunga maggiore sono
consimili; ma è per la posizione che differiscono i significati.
Così nelle cose stesse parimenti, quando nella materia
mutano gl'incontri, i movimenti, l'ordine,
la disposizione, le figure, anche le cose devono mutare.
Ora applica la mente alla mia vera dottrina.
Una cosa fortemente nuova sta per giungerti alle orecchie,
un nuovo aspetto della realtà sta per manifestarsi.
Ma non c'è cosa tanto facile che a prima giunta
non sia più difficile a credersi, e parimenti
nulla è tanto grande, nulla tanto mirabile
che a poco a poco lo stupirsene non diminuisca in tutti.
In primo luogo il luminoso e puro colore del cielo
e quanto esso contiene in sé, gli astri vaganti in ogni parte,
e la luna e il sole con lo splendore della luce chiarissima -
se tutte queste cose ora per la prima volta fossero vedute
dai mortali, se d'improvviso si presentassero loro, d'un tratto,
che mai si potrebbe dire meraviglia più grande di esse
o che prima le genti meno osassero credere possibile?
Nulla, io penso: tanto questa vista sarebbe parsa mirabile.
E ora osserva: per la stanchezza di vederlo a sazietà, nessuno
ormai si degna di levare lo sguardo alle volte lucenti del cielo.
Cessa, dunque, di rigettare dall'animo questa dottrina,
spaurito dalla novità per sé stessa, ma piuttosto
pondera tutto con acuto giudizio; e, se ti sembra vera,
arrenditi; se è falsa, accingiti a contrastarla.
E in verità, dato che l'intero spazio è infinito fuori dalle mura
di questo mondo, l'animo cerca di comprendere cosa ci sia
più oltre, fin dove la mente voglia protendere il suo sguardo,
fin dove il libero slancio dell'animo da sé si avanzi a volo.
In primo luogo, per noi da ogni punto verso qualunque
parte, da entrambi i lati, ‹sopra› e sotto, per il tutto
non c'è confine: come ho mostrato, e la cosa stessa di per sé
a gran voce lo proclama, e la natura dello spazio senza fondo riluce.
In nessun modo quindi si deve credere verosimile
che, mentre per ogni verso si schiude vuoto lo spazio infinito
e gli atomi volteggiano in numero innumerevole e in somma
sterminata, in molti modi, stimolati da moto eterno,
soltanto questa terra e questo cielo siano stati creati,
e niente facciano là fuori quei tanti corpi di materia;
tanto più che questo mondo è stato fatto dalla natura, e, da sé
spontaneamente a caso urtandosi tra loro i semi della materia,
dopo essersi accozzati in molti modi alla cieca, a vuoto, invano,
alfine si unirono quelli che, combinati insieme d'un tratto,
dovevano essere per sempre gli inizi di grandi cose,
della terra, del mare e del cielo e delle specie viventi.
Perciò, ancora e ancora, è necessario che tu ammetta
che esistono in altri luoghi altri aggregati di materia,
quale è questo che l'etere cinge di un avido abbraccio.
Inoltre, quando molta materia è pronta,
quando è disponibile lo spazio, né cosa, né causa si oppone,
senza dubbio le cose devono svolgersi e prodursi.
Ora, se c'è una quantità di atomi tanto grande, quanta
l'intera vita degli esseri viventi non basterebbe a contare,
‹e› se permane la stessa forza ‹e› natura per combinare
i semi delle cose nei vari luoghi in modo somigliante a quello
in cui furono combinati qui, è necessario che tu ammetta
che in altre parti dello spazio esistono altre terre
e diverse razze di uomini e specie di fiere.
A ciò si aggiunge che nella somma delle cose non ce n'è alcuna
che sia isolata, che sia generata unica e cresca unica e sola,
senza far parte di qualche stirpe che includa molte altre cose
dello stesso genere. Anzitutto poni mente agli esseri animati:
così vedrai generata la stirpe delle fiere che vagano sui monti,
così la progenie degli uomini, così infine i muti branchi
dei pesci squamosi e tutti i corpi dei volatili.
Allo stesso modo bisogna quindi ammettere che il cielo
e la terra e il sole, la luna, il mare e tutte le altre cose esistenti,
non sono unici, ma piuttosto in numero innumerabile;
poiché un termine di vita profondamente fissato
li attende, ed essi constano di un corpo che è nato, tanto quanto
ogni sorta di cose che qui abbonda di individui della stessa specie.
Se bene apprendi e tieni in mente questo, sùbito appare
che la natura, libera, affrancata da padroni superbi,
di per sé stessa spontaneamente compie tutto senza gli dèi.
E in verità, per i santi petti degli dèi che in tranquilla pace
trascorrono placido tempo e vita serena,
chi potrebbe reggere la somma dell'immensità, chi tenere
nella mano e padroneggiare le forti redini dell'infinito,
chi insieme volgere intorno tutti i cieli, e coi fuochi
dell'etere riscaldare tutte le terre feraci,
e in tutti i luoghi e in ogni momento esser pronto
ad addensare con le nuvole le tenebre e a scuotere col tuono
i sereni spazi del cielo, poi scagliare i fulmini e spesso
demolire i propri templi e, ritirandosi ‹nei› deserti,
imperversare, agitando l'arma, che spesso risparmia
i colpevoli e agli innocenti ingiustamente infligge morte?
E dopo il tempo della nascita del mondo, e il giorno
primigenio del mare e della terra, e il sorgere del sole,
molti corpi si aggiunsero dall'esterno, d'ogni intorno
s'aggiunsero atomi, che il gran tutto scagliando conglomerò:
per essi il mare e le terre poterono crescere, per essi
l'edifizio del cielo poté acquistare nuovo spazio e adergere
gli alti suoi tetti, lontano dalle terre, e l'aria sollevarsi.
Infatti, da qualunque luogo vengano, tutti i corpi son distribuiti
dagli urti ciascuno al gruppo cui appartiene, e si ritraggono
nelle proprie specie: l'acqua va all'acqua; la terra si accresce
di materia terrena; e i fuochi foggiano il fuoco; ‹l'etere›, l'etere;
finché la natura, che genera le cose e le porta a compimento,
non abbia condotto tutto all'estremo confine del crescere;
come avviene quando ciò che si introduce nelle vene vitali
non supera per niente ciò che ne fluisce via e se ne stacca.
Qui per tutte le cose lo sviluppo vitale deve fermarsi,
qui la natura con le sue forze raffrena la crescita.
Infatti tutte le cose che vedi ingrandirsi con crescita gioconda
e a poco a poco ascendere su per i gradini dell'età adulta,
assorbono in sé più elementi di quanti ne mandino fuori,
finché il cibo facilmente penetra in tutte le vene e finché i loro
tessuti non si sono dilatati e rilassati tanto da lasciare uscire
molte sostanze e perdere più di quanto all'età loro dà alimento.
Ché certo bisogna arrendersi al fatto che molti corpi fluiscono
e si staccano dalle cose; ma più se ne devono aggiungere
finché non sia toccato il più alto culmine dell'accrescimento.
Quindi, un poco per volta, l'età spezza le forze
e il vigore adulto, e scivola verso il decadimento.
E in effetti, quanto più grande, quanto più larga è una cosa,
una volta che la sua crescita si sia arrestata, tanti più corpi
ora essa sparge qua e là ed emette da sé, da ogni punto
verso qualunque parte, né il cibo si distribuisce facilmente
in tutte le sue vene, né basta perché possa sorgerne ed esserne fornito
ciò che valga a compensare le larghe emanazioni che essa promana.
È naturale, dunque, che le cose periscano, quando si sono
rarefatte per l'efflusso, e tutte soccombono agli urti esterni,
perché alla tarda età il cibo alfine vien meno,
e i corpi, picchiando dall'esterno, non cessano di sfinire
alcuna cosa e di abbatterla ostili con gli urti.
Così dunque anche le mura del vasto mondo, dintorno,
espugnate crolleranno frantumandosi in putride macerie.
Il cibo infatti tutte le cose deve integrare e rinnovare,
il cibo deve sostenerle, ‹il cibo› tutte le cose deve sostentare;
ma è inutile, dal momento che le vene non tollerano quanto
è sufficiente, né la natura fornisce quanto è necessario.
E ormai appunto la nostra età è spossata, e la terra, sfinita
dal partorire, a stento genera piccoli animali, essa che tutte
le stirpi generò, e dette alla luce immani corpi di fiere.
Infatti, a quel che penso, non già una fune d'oro
calò le stirpi mortali dalle altezze del cielo nei campi,
né le procrearono il mare, né i flutti che battono gli scogli,
ma le generò la stessa terra che ora le alimenta di sé.
Inoltre, le splendide messi e i floridi vigneti
spontaneamente dapprima ai mortali essa produsse,
essa donò i dolci frutti e i pascoli floridi;
che ora a stento crescono alimentati dalla nostra fatica,
e struggiamo i buoi e le forze dei contadini, logoriamo
il ferro, a stento provveduti del necessario dai campi:
a tal punto sono avari di frutti e richiedono più aspra fatica.
E ormai, scotendo il capo, più sovente il vecchio aratore
sospira che le proprie grandi fatiche sono riuscite vane,
e, quando i tempi presenti confronta coi tempi passati,
spesso esalta la buona sorte del padre.
Triste anche il coltivatore della vigna vecchia e ‹avvizzita›
accusa il corso del tempo e maledice la propria epoca,
e brontola che gli uomini d'una volta, pieni di pietà,
molto facilmente durarono in vita entro angusti confini,
benché per ciascuno allora la parte di terra fosse molto minore.
E non afferra che tutte le cose a poco a poco si consumano
e, fiaccate dal lungo corso dell'età, vanno alla tomba.


LIBRO III

O tu, che in mezzo a così grandi tenebre primo potesti
levare una luce tanto chiara, illuminando le gioie della vita,
io seguo te, o onore della gente greca, e nelle orme
da te impresse pongo ora ferme le piante dei miei piedi,
non tanto perché io voglia gareggiare con te, quanto perché anelo
a imitarti per amore. Come potrebbe infatti contendere la rondine
coi cigni? O come potrebbero mai i capretti dalle tremule
membra emulare nella corsa l'impeto di un forte cavallo?
Tu padre sei, scopritore del vero; tu paterni precetti
ci prodighi, e, come le api nei pascoli fioriti
suggono per ogni dove, così noi nei tuoi scritti,
o glorioso, ci pasciamo di tutti gli aurei detti,
aurei, sempre degnissimi di vita perpetua.
Infatti, appena la tua dottrina comincia a svelare a gran voce
la natura quale è sorta dalla tua mente divina,
fuggon via i terrori dell'animo, le mura del mondo
si disserrano, vedo le cose svolgersi attraverso tutto il vuoto.
Appaiono la potenza degli dèi e le sedi quiete,
che né venti scuotono, né nuvole cospargono
di piogge, né neve vìola, condensata da gelo acuto,
candida cadendo; ‹ma› un etere sempre senza nubi
le ricopre, e ride di luce largamente diffusa.
E tutto fornisce la natura, né alcuna
cosa in alcun tempo intacca la pace dell'animo.
Ma per contro in nessun luogo appaiono le regioni acherontee,
né la terra impedisce che si discerna tutto quanto
si svolge sotto i miei piedi, laggiù, attraverso il vuoto.
Per queste cose mi prende allora un certo divino piacere
e un brivido, perché così per la potenza della tua mente la natura,
tanto manifestamente dischiudendosi, in ogni parte è stata rivelata.
E poiché ho insegnato quali siano i principi
di tutte le cose e quanto differenti per varietà di forme
spontaneamente volteggino, stimolati da moto eterno,
e in che modo da questi si possa produrre ogni cosa,
dopo ciò mi sembra che nei miei versi debba essere ormai
illustrata la natura dell'animo e dell'anima,
e che si debba scacciar via a precipizio quel timore dell'Acheronte,
che dal profondo sconvolge appieno la vita umana,
tutto inondando del nero della morte,
né lascia esistere alcun piacere limpido e puro.
Sì, spesso gli uomini dichiarano che malattie e vita infame
sono più temibili che il Tartaro, dimora della morte;
dicono di sapere che la natura dell'animo è fatta di sangue,
o anche di vento, se a ciò per caso li spinge il capriccio,
e di non avere affatto bisogno della nostra dottrina;
ma di qui puoi intendere che tutto è ostentato per vanagloria
piuttosto che espresso per convinzione della cosa stessa.
Questi medesimi, cacciati dalla patria ed esiliati lontano
dal cospetto degli uomini, disonorati da un'accusa
vergognosa, afflitti da tutte le pene, in fin dei conti vivono,
e, dovunque sono giunti nella loro miseria, offrono tuttavia
sacrifici ai loro morti, e immolano nere vittime, e agli dèi Mani
consacrano funebri onori, e negli acerbi frangenti con ansia
molto più acuta rivolgono gli animi alla religione.
Più conviene, quindi, provare l'uomo nei dubbiosi
cimenti, e nelle avversità conoscere quale sia;
giacché allora alfine parole veraci gli si cavano dal profondo
del petto ‹e› vien strappata la maschera, rimane la realtà.
Infine l'avidità e la cieca brama di onori,
che forzano i miseri uomini a oltrepassare i confini
del giusto, e talora, come compagni e ministri di delitti,
adoprarsi notte e giorno con soverchiante fatica
per assorgere a somma potenza - queste piaghe della vita,
in gran parte è il timore della morte che le nutre.
Infatti comunemente il vergognoso disprezzo e l'amara
povertà paiono remoti da una vita dolce e stabile,
e quasi già sostare davanti alle porte della morte;
e gli uomini, mentre costretti da fallace terrore vorrebbero
essere già fuggiti lontano da essi e lontano averli scacciati,
col sangue dei concittadini ingrossano le proprie sostanze
e avidi raddoppiano le ricchezze, accumulando strage su strage;
crudeli si rallegrano del triste funerale di un fratello
e per le mense dei consanguinei provano odio e terrore.
In simile maniera, nascendo dallo stesso timore, spesso
li macera l'invidia che alla vista di tutti colui sia potente,
attragga gli sguardi colui che incede con splendido onore,
mentre essi si lamentano di voltolarsi nelle tenebre e nel fango.
Alcuni periscono per brama di statue e di rinomanza;
e spesso a tal segno per paura della morte prende
gli uomini odio della vita e della vista della luce,
che si danno con petto angosciato la morte,
dimenticando che la fonte degli affanni è questo timore,
questo fa strazio del senso d'onore, questo rompe i vincoli
dell'amicizia - e insomma induce a sovvertire la pietà.
Già spesso infatti gli uomini tradirono la patria
e i cari genitori, cercando di evitare le regioni acherontee.
Difatti, come i fanciulli trepidano e tutto temono
nelle cieche tenebre, così noi nella luce talora abbiamo paura
di cose che per nulla son da temere più di quelle che i fanciulli
nelle tenebre paventano e immaginano prossime ad avvenire.
Questo terrore dell'animo, dunque, e queste tenebre
non li devono dissolvere i raggi del sole, né i lucidi dardi
del giorno, ma l'aspetto e l'intima legge della natura.
Anzitutto dico che l'animo, che spesso chiamiamo mente,
in cui han sede il senno e il governo della vita,
è una parte dell'uomo, non meno che una mano e un piede
e gli occhi sono parti dell'intero essere animato.
‹Tuttavia taluni hanno asserito›
che la sensibilità dell'animo non ha sede in una parte
determinata, ma è una certa disposizione vitale del corpo,
che i Greci chiamano armonia, perché per essa noi vivremmo
dotati di sensibilità, sebbene in nessuna parte esista la mente;
come spesso si dice che il corpo gode di buona salute,
e tuttavia questa non è alcuna parte di colui che sta bene.
Così la sensibilità dell'animo non la pongono in una parte determinata;
e in ciò mi sembra che errino molto lontano dalla giusta via.
Spesso, infatti, il corpo in una parte palese è malato,
mentre tuttavia gioiamo in un'altra parte che è occulta;
e all'inverso accade spesso che s'avveri il contrario, a sua volta,
quando chi soffre nell'animo gioisce in tutto il corpo;
non altrimenti che se, mentre a un malato duole un piede,
nessun dolore intanto abbia, per avventura, la testa.
Inoltre, quando le membra sono in preda a molle sonno
e abbandonato giace senza senso il corpo appesantito,
tuttavia c'è in noi qualche altra cosa che in quel mentre
si agita in molti modi e tutti in sé riceve
i moti della letizia e le vane inquietudini del cuore.
Ora, perché tu possa conoscere che anche l'anima
è nelle membra e che non per un'armonia suole il corpo sentire,
anzitutto accade spesso che, pur detratta gran parte
del corpo, tuttavia ci rimanga nelle membra la vita;
e d'altra parte, quando poche particelle di calore
son fuggite via e aria è stata esalata fuori attraverso la bocca,
la stessa vita sùbito abbandona le vene e lascia le ossa;
sì che da ciò puoi conoscere che non tutti i corpi primi
hanno funzioni uguali, né in ugual modo sostengono la salvezza,
ma più questi, che sono i semi del vento e dell'ardente calore,
fanno sì che rimanga nelle membra la vita.
V'è dunque nello stesso corpo un calore e un vento vitale,
che abbandona le nostre membra al momento della morte.
Pertanto, poiché la natura dell'animo e dell'anima è stata
svelata come una parte dell'uomo, lascia il nome di armonia,
che per i musicisti fu portato giù dall'alto Elicona;
o forse questi stessi, a loro volta, lo trassero d'altrove
e lo trasportarono a quella cosa che allora non aveva un proprio nome.
Comunque ‹ciò› sia, se lo tengano: tu ascolta i restanti miei detti.
Ora io dico che l'animo e l'anima si tengono congiunti
tra loro e costituiscono di sé una sola natura;
ma ciò che è il capo, per così dire, e domina in tutto il corpo,
è il senno, che noi chiamiamo animo e mente.
Ed esso è posto e fissato nella regione centrale del petto.
Qui infatti si agitano l'ansia e la paura, intorno a queste parti
le gioie ci accarezzano; qui dunque è la mente e l'animo.
Tutto il resto dell'anima, disseminato per tutto il corpo,
obbedisce e si muove al cenno e al movimento della mente.
Questa ragiona da sé per sé sola, ‹questa› da sé gode,
quando nessuna cosa commuove l'anima, né il corpo.
E come, quando la testa o un occhio è leso in noi
dall'assalto del dolore, non siamo afflitti nello stesso tempo
in tutto il corpo, così l'animo talora di per sé stesso è leso
o di gioia esulta, mentre tutto il resto dell'anima
per le membra e le articolazioni da nessuna novità viene eccitato.
Ma, quando la mente è commossa da timore più veemente,
tutta l'anima vediamo consentire attraverso le membra,
e quindi sudori e pallore effondersi per tutto il corpo
e balbettare la lingua e spegnersi la voce, annebbiarsi
gli occhi, fischiar le orecchie, venir meno le articolazioni;
alfine per il terrore dell'animo vediamo spesso gli uomini
crollare; sì che facilmente ognuno può da questo conoscere
che l'anima è congiunta con l'animo e, quando ‹dalla potenza›
dell'animo è stata percossa, sùbito urta e sospinge il corpo.
Questo stesso ragionamento prova che la natura dell'animo e dell'anima
è corporea. Quando infatti si vede che sospinge le membra,
strappa dal sonno il corpo e cangia il volto,
e tutto l'uomo regge e volge di qua e di là -
e di queste cose vediamo che nessuna può prodursi senza contatto,
né il contatto, a sua volta, senza corpo - non si deve forse
ammettere che l'animo e l'anima sono di natura corporea?
Inoltre tu vedi che col corpo patisce parimenti
l'animo e insieme partecipa del sentire nel nostro corpo.
Se non offende la vita la violenza orrida di un dardo
penetrata addentro squarciando ossa e nervi,
nondimeno ne segue un languore e un dolce cadere per terra,
e in terra una confusione che nasce nella mente,
e talora come un'incerta volontà di rialzarsi.
Dunque, non può essere che corporea la natura dell'animo,
poiché dall'urto di dardi corporei è travagliata.
Ora, di quale specie di materia sia quest'animo e come
sia costituito, proseguendo ti spiegherò con le mie parole.
In primo luogo dico che è molto sottile e risulta costituito
di corpuscoli estremamente minuti. Che sia così,
puoi intendere, se presti attenzione, da questo.
Nessuna cosa si vede avvenire con la celerità con la quale
la mente si raffigura che avvenga e le dà inizio essa stessa.
L'animo, dunque, si muove più velocemente di tutte le cose
la cui natura appare manifesta innanzi ai nostri occhi.
Ma ciò che è tanto mobile, deve constare di semi
estremamente rotondi ed estremamente minuti,
sicché possano muoversi spinti da un piccolo impulso.
Infatti si muove l'acqua e per un minimo impulso fluttua,
perché è composta di atomi girevoli e piccoli.
Al contrario, la natura del miele è più consistente,
e più pigro il suo liquore, e più indugiante il suo movimento;
infatti tutta la massa della sua materia ha maggiore coesione,
evidentemente perché non consta di corpi tanto lisci,
né tanto sottili e rotondi. Giacché un soffio sospeso
e leggero può costringere un alto mucchio di semi
di papavero a sparpagliarsi innanzi a te giù dalla cima:
al contrario, su un mucchio di pietre o di spighe
non può nulla. Dunque, quanto più i corpi sono piccoli
e lisci, tanto più sono dotati di mobilità.
Al contrario, tutti quelli che si trovano di peso maggiore
ed aspri, tanto più sono stabili.
Ora, dunque, poiché ‹si è› trovato che la natura dell'animo
è particolarmente mobile, essa deve constare di corpi
estremamente piccoli e lisci e rotondi.
E questa verità, da te conosciuta, in molte cose, o caro,
si dimostrerà utile e sarà riconosciuta opportuna.
Anche questo fatto indica del pari la natura dell'animo,
di quanto tenue tessitura esso sia costituito, e in quanto
piccolo luogo sarebbe contenuto, se potesse conglomerarsi:
appena l'imperturbata quiete della morte si è impadronita
dell'uomo, e la natura dell'animo e dell'anima se n'è staccata,
nulla potresti ivi discernere detratto da tutto il corpo,
né alla vista, né al peso: la morte lascia ogni cosa
al suo posto, tranne il senso vitale e il fervido calore.
Dunque tutta l'anima dev'essere composta di semi
piccolissimi, intrecciata per vene, viscere, nervi;
dato che, quando tutta è ormai andata via dall'intero corpo,
l'esterno contorno delle membra si conserva tuttavia
incolume, né al peso manca nulla.
Simile cosa avviene quando l'aroma di Bacco è svanito
o quando un soave profumo d'unguento s'è disperso per l'aria
o quando da qualche corpo s'è ormai dileguato il sapore;
in nulla tuttavia agli occhi la cosa stessa sembra divenuta
più piccola perciò, né alcunché sembra detratto dal suo peso;
evidentemente perché molti e minuti semi fanno
i sapori e l'odore nell'interno corpo delle cose.
Perciò, ancora e ancora, si può concludere che la natura
della mente e dell'anima è composta di semi estremamente
piccolini, perché fuggendo non porta via alcuna parte del peso.
Tuttavia non dobbiamo supporre semplice questa natura.
I moribondi infatti abbandona un certo soffio tenue,
misto a calore, e il calore trae aria con sé.
Né c'è alcun calore, a cui non sia mista anche aria;
poiché la sua natura è infatti rada, molti
primi principi d'aria devono muoversi entro di esso.
Già triplice, quindi, è apparsa la natura dell'animo;
e tuttavia questi elementi tutti insieme non bastano a creare
il senso, poiché la mente non ammette che alcuno di questi
possa creare i moti sensiferi e i pensieri che la mente rivolge.
È dunque necessario che a questi s'aggiunga
anche una quarta natura. Essa è del tutto priva di nome;
e non esiste alcuna cosa che sia più mobile o più tenue di lei,
né fatta di elementi più piccoli e più lisci;
lei per prima diffonde i movimenti sensiferi per le membra.
È infatti prima ad essere eccitata, composta com'è di piccoli atomi;
poi i movimenti s'estendono al calore e alla cieca forza
del vento, poi all'aria; poi è messa in movimento ogni cosa:
s'agita il sangue, in séguito la sensazione penetra in tutte
le carni, per ultime la ricevono le ossa e le midolla,
si tratti di un piacere o di un ardore contrario.
Né facilmente il dolore può penetrare fin qui, né un acuto
male introdursi, senza che tutto sia perturbato,
a tal segno ‹che› non c'è più luogo per la vita, e le parti
dell'anima fuggono via per tutte le aperture del corpo.
Ma per lo più i movimenti hanno termine quasi alla superficie
del corpo: perciò siamo in grado di trattenere la vita.
Ora, sebbene io desideri spiegare come misti tra loro, e in quali
modi combinati, questi elementi compiano le loro operazioni,
me ne rattiene, mio malgrado, la povertà della patria lingua;
ma tuttavia, come potrò sommariamente occuparmene, toccherò
questo argomento. S'intrecciano infatti tra loro correndo qua e là
i primi principi coi movimenti che sono propri degli atomi,
sì che non si può staccare un solo elemento, né il suo potere
può sussistere diviso dagli altri nello spazio, ma sono come
le molte forze di un unico corpo. Allo stesso modo che qualunque
viscere di essere vivente ha in genere un odore e un certo calore
e un sapore, e tuttavia di tutti questi è composta la complessione
di un unico corpo; così il calore e l'aria e la cieca forza del vento
misti creano un'unica natura, insieme con quella mobile forza,
che da sé distribuisce ad essi l'inizio del movimento,
donde prima sorge attraverso la carne il movimento sensifero.
Giacché affatto nel profondo è nascosta questa natura, e sta
laggiù, né c'è cosa nel nostro corpo più interna di questa,
ed essa è a sua volta l'anima di tutta l'anima.
Allo stesso modo che nelle nostre membra e in tutto il corpo
la forza dell'animo e il potere dell'anima sono misti e nascosti,
perché son composti di corpi piccoli e radi,
così, vedi, questa forza priva di nome, fatta di corpi minuti,
sta nascosta, e di tutta l'anima è essa stessa, a sua volta,
per così dire, l'anima, e domina su tutto il corpo.
In simile maniera è necessario che il vento e l'aria
e il calore compiano le loro operazioni commisti tra loro
per le membra, e uno stia più sotto di altri o sormonti,
perché si veda risultare da tutti un'unica cosa: altrimenti
il calore e il vento separatamente, e separatamente la potenza dell'aria,
distruggerebbero il senso e, divisi, lo dissolverebbero.
L'animo ha anche quel calore da cui è preso
quando ferve d'ira e un ardore sfavilla dagli occhi più vivamente.
C'è anche molta aria fredda, che è compagna della paura
e suscita un brivido nel corpo ed agita le membra.
E c'è anche quello stato d'aria pacata, che si produce
quando il petto è tranquillo e il volto è sereno.
Ma più calore hanno quelli cui i cuori fieri
e l'animo iracondo facilmente ribollono nell'ira.
Di tale genere è in primo luogo la forza violenta dei leoni,
che spesso ruggendo rompono i petti coi fremiti,
né possono contenere nel petto i flutti delle ire.
Ma più vento ha la fredda mente dei cervi
e più presto suscita per le viscere gelidi soffi,
che fanno sì che nelle membra si levi un tremulo moto.
Ma la natura dei buoi vive piuttosto di un'aria placida,
né mai troppo la fumida face dell'ira vi s'insinua e l'accende,
soffondendo l'ombra di una caligine cieca,
né intorpidisce trafitta dai dardi gelidi dello spavento:
tiene il posto di mezzo, tra i cervi e i selvaggi leoni.
Così è del genere umano. Sebbene l'educazione raffini
alcuni e li formi in pari grado, tuttavia essa lascia
in ciascuno le prime vestigia del carattere naturale.
Né si deve credere che i difetti possano essere strappati dalle radici,
sì che costui non trascorra troppo corrivamente a ire violente,
colui non sia un po' più presto assalito da paura, e un terzo
non accetti certe cose più placidamente del giusto.
E in molte altre cose è necessario che differiscano
le varie nature degli uomini e i costumi che ne conseguono;
ma io ora non posso chiarirne le cause oscure,
né trovare nomi per tante figure, quante ne hanno
i primi principi da cui sorge questa varietà delle cose.
Questo, a tale proposito, vedo di potere affermare:
di quelle nature restano tracce che la ragione
non può scacciare da noi talmente esigue
che nulla impedisce di trascorrere una vita degna degli dèi.
Questa natura dell'anima è dunque tenuta insieme da tutto il corpo,
e al corpo è essa stessa custode e causa di conservazione;
giacché mediante comuni radici aderiscono tra loro
e si vede che non possono essere distaccati senza rovina.
Come dai grani d'incenso non è possibile staccare
l'odore senza che se ne distrugga anche la natura,
così non è possibile trarre fuori da tutto il corpo
la natura della mente e dell'anima senza che tutto si dissolva.
Con primi principi così intrecciati tra loro fin dalla prima
origine si sviluppano, dotati di vita con sorte comune,
ed è evidente che le potenze del corpo e dell'animo non possono sentire
separatamente, ciascuna per sé, senza la forza dell'altra,
ma per movimenti comuni tra loro è suscitato,
da entrambe le parti, il senso acceso in noi attraverso la carne.
Inoltre, il corpo da sé né mai si genera,
né cresce, né dopo la morte si vede durare.
Non come l'acqua, infatti, che spesso lascia andar via il calore
che le fu comunicato, né per ciò è sconvolta essa stessa,
ma rimane intatta, non così, dico, le membra abbandonate
possono sopportare la separazione dell'anima,
ma a fondo sconvolte periscono e cadono in putrefazione.
Così fin dall'inizio della vita il corpo e l'anima
nei mutui contatti apprendono i movimenti vitali, quando
sono ancora nascosti nelle membra e nel grembo della madre,
‹sì che› la separazione non può avvenire senza danno e rovina;
puoi quindi vedere che, siccome è congiunta la causa
della conservazione, anche la loro natura risulta congiunta.
Del resto, se qualcuno nega che il corpo senta
e crede che sia l'anima che, commista a tutto il corpo,
concepisca questo moto a cui diamo il nome di senso,
egli combatte contro fatti pur veri e manifesti.
Infatti chi mai chiarirà cosa sia il sentire del corpo,
se non ciò che ci ha manifestato e insegnato la realtà stessa?
"Ma, quando l'anima se n'è staccata, il corpo è del tutto privo
di senso": esso perde, infatti, ciò che non fu suo proprio nella vita,
e molte altre cose perde quando è cacciato fuori della vita.
Dire poi che gli occhi non possono discernere alcuna cosa,
ma che per essi l'animo guarda come per porte aperte,
è difficile, giacché il senso loro guida in parte contraria;
il senso infatti ci tira e spinge ad attribuire la vista alle pupille stesse,
tanto più che spesso non possiamo discernere cose lucenti,
perché la vista è in noi impedita dalla luce.
Il che non accade alle porte; giacché gli usci, per cui noi guardiamo,
non subiscono alcun travaglio per il fatto che sono aperti.
D'altronde, se i nostri occhi sono come porte, allora,
è evidente, l'animo, tolti gli occhi, dovrebbe discernere meglio
le cose, giacché sarebbero stati rimossi gli stipiti stessi.
A questo proposito non potresti in alcun modo accogliere
ciò che afferma l'opinione di Democrito, uomo venerabile,
secondo cui i primi principi del corpo e dell'animo, giustapposti
a uno a uno, si susseguono alternandosi e intrecciano le membra.
Giacché, come gli elementi dell'anima sono molto minori
di quelli dei quali constano il nostro corpo e le viscere,
così anche nel numero cedono, e radi sono disseminati
per le membra, sì che per lo meno puoi garantire questo:
quanto son grandi i minimi corpi che colpendoci
possono suscitare nel corpo i moti sensiferi, tanto
sono grandi gl'intervalli che separano gli atomi dell'anima.
Infatti talora non sentiamo l'aderire della polvere al corpo,
né il posarsi della creta scossa sulle membra,
né sentiamo la nebbia, né i tenui fili del ragno
che ci incontrano, quando, camminando, ne siamo irretiti,
né che sul capo esso ci ha lasciato cadere la sua vizza
spoglia, né le piume degli uccelli o i pappi volanti
che per troppa levità cadono per lo più tardamente,
né sentiamo l'andare di qualsiasi animaletto strisciante,
né una per una le orme delle zampe
che sul nostro corpo posano le zanzare e gli altri insetti.
A tal punto è vero che bisogna in noi stimolare molta materia
prima che gli atomi dell'anima, frammischiati ai nostri corpi
per le membra, comincino a sentire che gli atomi del corpo
sono stati scossi, e prima che, urtandosi in questi intervalli,
essi possano scontrarsi, unirsi e rimbalzare a vicenda.
E l'animo è quello che più tiene stretti i vincoli della vita,
e per la vita vale più che la forza dell'anima.
Giacché senza la mente e l'animo non può restare nelle membra
neppure per esiguo tratto di tempo alcuna parte dell'anima,
ma compagna tien dietro senza ritardo e si dilegua nell'aria
e lascia le gelide membra nel freddo della morte.
Ma rimane in vita colui a cui la mente e l'animo è rimasto.
Sebbene sia un tronco lacero, con le membra tutt'intorno
mutilate, tolta l'anima d'intorno e staccata dal corpo,
egli vive e respira i vitali soffi del cielo.
Privato, se non totalmente, di gran parte dell'anima,
tuttavia indugia nella vita e vi resta attaccato;
come se, lacerato l'occhio d'intorno, la pupilla è rimasta
intatta, permane la vitale facoltà della vista,
purché tu non rovini tutto il globo dell'occhio
e non recida la pupilla d'intorno e la lasci isolata;
giacché anche ciò non potrà avvenire senza rovina d'ambedue.
Ma se quella minuscola parte nel mezzo dell'occhio è lesa,
tramonta sùbito la luce e susseguono le tenebre,
benché sia incolume in tutto il resto lo splendido globo.
Da tale patto anima ed animo sono avvinti per sempre.
E ora, perché tu possa conoscere che negli esseri viventi
gli animi e le anime lievi sono soggetti a nascita e a morte,
proseguirò ad esporre versi cercati a lungo e trovati
con dolce fatica, degni che ad essi si consacri la tua vita.
Tu procura di comprendere entrambi sotto un unico nome
e se, per esempio, io proseguo a parlare dell'anima,
insegnando che è mortale, pensa che parlo anche dell'animo,
giacché sono, insieme, un'unità e in una cosa sola son congiunti.
Anzitutto, poiché ho insegnato che l'anima sottile
consta di corpi minuti ed è fatta di primi principi
molto più piccoli che il liquido umore dell'acqua
o la nebbia o il fumo - infatti li supera di gran lunga
in mobilità e da più tenue causa spinta si muove;
giacché per immagini di fumo e di nebbia si commuove:
come quando, assopiti nel sonno, vediamo gli altari
in alto esalare vapore e diffondere fumo;
infatti senza dubbio questi sono simulacri che giungono a noi -
ora dunque, poiché da vasi fracassati vedi
l'acqua fluir via d'ogni parte e il liquido dileguarsi,
e poiché nebbia e fumo si dileguano nell'aria, devi credere
che anche l'anima si diffonde e molto più velocemente
perisce e più rapidamente si dissolve ‹nei› corpi primi,
una volta che, strappata dalle membra dell'uomo, s'è allontanata.
In effetti, se il corpo, che per essa è come un vaso,
non può contenerla, quando per qualche causa è sconvolto
o è divenuto rado, perché fu tolto sangue alle vene,
come puoi credere che questa possa mai essere contenuta dall'aria,
che, più rada del nostro corpo, è ancor più incapace di contenerla?
Inoltre sentiamo che la mente nasce unitamente
col corpo e insieme cresce e unitamente invecchia.
Infatti, come i bimbi camminano vacillando col corpo malfermo
e tenero, così a questo s'accompagna un debole giudizio della mente.
Poi, quando si sono irrobustite le forze e l'età si è fatta adulta,
maggiore è anche il senno e aumentato il vigore dell'animo.
Più tardi, quando il corpo è stato ormai scosso dalle valide forze
del tempo e con le forze spente sono crollate le membra,
zoppica l'intelligenza, sproposita la lingua, ‹barcolla› la mente,
tutto viene meno e ad un tempo svanisce.
Dunque ne consegue che anche la natura dell'anima si dissolve
tutta, come fumo, per l'aria che spira nell'alto;
giacché vediamo che nascono insieme e insieme crescono
e, ‹come› ho spiegato, fiaccati dal tempo, simultaneamente si sfasciano.
A ciò si aggiunge che, come vediamo che il corpo stesso
subisce orribili malattie e duro dolore,
così vediamo che l'animo soffre affanni acuti e lutto e paura;
perciò è naturale che sia partecipe anche della morte.
Anzi, nelle malattie del corpo l'animo spesso sviato
va errando; sragiona infatti il malato e parla in delirio,
e talvolta per grave letargo cade, con gli occhi e la testa
cascanti, in sopore profondo e senza fine,
da cui non ode le voci, né può riconoscere i volti
di quelli che, cercando di richiamarlo alla vita,
gli stanno attorno e di lacrime bagnano i volti e le guance.
Perciò occorre che tu ammetta che anche l'animo si dissolve,
giacché penetrano in esso contagi di malattia.
Infatti dolore e malattia sono entrambi artefici di morte,
come ci ha già insegnato la fine di molti.
E poi, perché mai, quando la forza sconvolgente del vino
ha penetrato l'uomo e nelle vene s'è sparso e distribuito l'ardore,
segue gravezza di membra, le gambe gli s'inceppano
ed egli vacilla, la lingua è torpida, la mente s'offusca,
gli occhi sono smarriti, clamore singulti oltraggi crescono,
e infine tutte le altre cose della stessa specie che a queste
s'accompagnano - perché ciò avviene, se non perché la veemente
violenza del vino suole perturbare l'anima nel corpo stesso?
Ma, qualunque cosa può essere perturbata e inceppata,
mostra che, se una forza un po' più dura vi s'insinua,
perirà, privata di vita ulteriore.
Anzi, spesso qualcuno, subitamente astretto dalla violenza
della malattia, innanzi ai nostri occhi, come colpito
da un fulmine, stramazza e sbava, geme e trema nelle membra,
farnetica, tende fortemente i muscoli, si contorce, anela
irregolarmente e dibattendosi affatica le membra.
Certamente perché, dilaniata dalla violenza della malattia
per le membra, l'anima è in tumulto e sbava, ‹come› nel salso
mare le onde ribollono per la veemente violenza dei venti.
E gli si strappano gemiti, perché le membra dal dolore
sono afflitte e in generale perché i semi della voce
vengono cacciati all'esterno ed escon fuori della bocca agglomerati,
per dove, per così dire, sogliono, e trovano fatta la strada.
Il delirio si produce, perché la forza dell'animo e dell'anima
si conturba e, come ho mostrato, divisa in parti separate
è sbattuta qua e là, dilaniata da quello stesso veleno.
Poi, quando ormai la causa della malattia ha regredito
e l'acre umore del corpo corrotto è ritornato nelle sue latebre,
allora il malato, quasi vacillando, comincia a levarsi e ritorna,
a poco a poco, alla pienezza dei sensi e riprende animo.
Se la mente e l'anima, dunque, da malattie sì gravi sono agitate
nel corpo stesso, e dilaniate soffrono in miseri modi,
come puoi credere che senza corpo, all'aria aperta, tra i venti
violenti le medesime possano proseguire la loro vita?
E poiché vediamo che la mente vien guarita,
come il corpo infermo, e può essere mutata dalla medicina,
anche questo preannunzia che la mente ha vita mortale.
Infatti è necessario che aggiunga parti o ne muti l'ordine
o detragga dall'insieme qualcosa, sia pure in misura affatto minima,
chiunque tenta e comincia a mutare lo stato dell'animo
o cerca di modificare qualunque altra natura.
Ma ciò che è immortale non consente che parti gli siano trasposte,
o qualcosa sia aggiunta o staccata, benché minima.
Infatti ogni volta che una cosa si muta ed esce dai propri
termini, sùbito questo è la morte di ciò che era prima.
L'animo, dunque, sia che s'ammali, sia che venga mutato
da medicina, manifesta, come ho insegnato, la sua mortalità.
A tal punto è evidente che la realtà s'oppone
alla falsa dottrina e le preclude ogni via di scampo
e con duplice confutazione ne dimostra la falsità.
Ancora, spesso vediamo che un uomo se ne va a poco a poco,
e a membro a membro perde il senso vitale;
prima nei piedi illividiscono le dita e le unghie,
poi muoiono i piedi e le gambe, in séguito di lì per le altre
membra procedono via via le orme della gelida morte.
Poiché, dunque, si scinde la natura ‹dell'anima› e non viene
fuori intera in un solo istante, dev'esser creduta mortale.
E se per caso supponi che da sé stessa essa possa ritrarsi,
attraverso le membra, nell' interno, e adunare le sue parti
in un sol punto e in tal modo togliere la sensibilità da tutte
le membra, tuttavia quel luogo, ove tanta abbondanza d'anima
si raccoglie, dovrebbe mostrarsi dotato di sensibilità maggiore;
ma poiché tale luogo non esiste, certo, come abbiamo detto ‹prima›,
l'anima dilaniata si sparge fuori, qua e là: dunque muore.
Anzi, quand'anche piaccia concedere il falso
e ammettere che l'anima possa agglomerarsi nel corpo
di quelli che moribondi lasciano la luce a parte a parte,
è tuttavia necessario che tu riconosca che l'anima è mortale,
né importa se perisca dispersa per l'aria
o se, contrattasi ritraendosi dalle sue varie parti, istupidisca,
giacché a tutto l'uomo, più e più, da ogni parte il senso
manca, e in ogni parte resta meno e meno di vita.
E poiché la mente è una delle parti dell'uomo, che resta
fissa in un luogo determinato, come sono orecchie e occhi
e tutti gli altri sensi che governano la vita:
se una mano e un occhio o il naso, una volta staccati
da noi e separati, non possono sentire, né esistere,
ma per contro in breve tempo si dissolvono in putrefazione,
parimenti l'animo non può esistere di per sé, senza il corpo
e l'uomo stesso, che appare essere come un vaso dell'animo
o qualsiasi altra cosa tu preferisca immaginare più congiunta
con esso, giacché ad esso con stretto legame il corpo aderisce.
Ancora, le facoltà vitali del corpo e dell'anima
per vicendevole connessione hanno vigore e godono della vita;
né senza il corpo, infatti, da sola la natura dell'animo
può di per sé produrre i moti della vita, né dal canto suo
il corpo privo d'anima può durare e servirsi dei sensi.
È evidente: come, avulso dalle radici, non può l'occhio
scorgere alcuna cosa da solo, staccato da tutto il resto del corpo,
così si vede che l'anima e l'animo di per sé non possono nulla.
Senza dubbio, poiché, mescolati ‹per› vene e visceri,
per nervi ed ossa, i loro primi principi sono trattenuti
da tutto il corpo, né possono balzar qua e là, liberi,
a grandi distanze - per questo rinchiusi si muovono
con moti sensiferi, che essi, fuori del corpo, scacciati
tra i venti, dopo la morte non possono produrre,
perché non sono trattenuti nello stesso modo.
Corpo infatti, e per di più essere animato, sarà l'aria, se l'anima
potrà mantenervisi unita e chiudersi in quei movimenti
che prima compiva nei nervi e dentro il corpo stesso.
Perciò, ancora e ancora, una volta che sia dissolto tutto
il riparo del corpo e scacciato fuori il soffio della vita,
è necessario, devi ammetterlo, che il senso dell'animo e l'anima
si dissolvano, giacché per questi e il corpo la causa è congiunta.
Ancora, poiché il corpo non può sopportare la separazione
dell'anima senza putrefarsi in un odore ripugnante,
come puoi dubitare che, levatasi dal profondo e dall'intimo,
la forza dell'anima sia esalata e si sia dispersa come fumo,
e che il corpo, mutato da tanta rovina, sia caduto in sfacelo
per ciò, perché nel profondo sono state smosse dalla sede
le fondamenta, con l'esalare dell'anima fuori, per le membra
e per tutte le tortuosità dei meati, che sono nel corpo,
e attraverso i pori? Sicché in molti modi puoi conoscere
che divisa in parti la natura dell'anima è uscita per le membra,
e dentro il corpo stesso s'era già da sé dilaniata
prima che, scivolando via, andasse a volare tra i venti.
Anzi, mentre ancora si volge dentro i confini della vita,
l'anima tuttavia sovente, scossa da qualche causa,
sembra andarsene e ‹volere› sciogliersi da tutto il corpo,
e il volto sembra invaso dal languore dell'ora estrema,
e molli dal corpo esangue cadere tutte le membra.
In tale stato è colui di cui si dice che s'è sentito male
o che è caduto in deliquio; e già si trepida e tutti
agognano riallacciare l'estremo vincolo della vita.
Sono scossi, infatti, allora la mente e il potere dell'anima
interamente, e col corpo stesso essi stanno per sfasciarsi;
sì che una causa un po' più grave può dissolverli.
E puoi ancora dubitare che l'anima, cacciata via dal corpo,
debole com'è, fuori, all'aperto, priva del suo riparo,
non solo non possa durare in perpetuo, ma sia anche
incapace di sussistere per un qualsiasi minimo tempo?
E infatti non si vede alcuno che morendo senta
l'anima sua andar fuori dal corpo intero intatta,
o salirgli prima alla gola e più sopra, alle fauci; sente invece
che essa vien meno lì dov'è collocata, in una sede determinata;
così come sa che gli altri sensi si dissolvono ognuno nella propria parte.
Ma, se la nostra mente fosse immortale, non tanto, morendo,
si lamenterebbe di dissolversi: piuttosto ‹si rallegrerebbe›
d'andar fuori e lasciare la spoglia, come una serpe.
Ancora, perché la mente e il senno dell'animo non nascono mai
nel capo o nei piedi o nelle mani, ma sono per tutti gli uomini
fissati in un'unica sede e in una determinata regione,
se non perché determinati luoghi sono assegnati a ogni cosa
per la nascita, e dove ognuna, una volta che sia creata,
possa durare ed avere le varie parti così ripartite
che l'ordine delle membra non appaia mai sovvertito?
Tanto è vero che una cosa segue a un'altra cosa, né suole
la fiamma esser prodotta dai fiumi, né il gelo nascere nel fuoco.
Inoltre, se la natura dell'anima è immortale
e può sentire dopo essere stata disgiunta dal nostro corpo,
di cinque sensi, a quel ch'io credo, bisogna supporla dotata.
Né in altro modo noi possiamo rappresentarci
le anime d'inferno vaganti lungo l'Acheronte.
Pertanto i pittori e le precedenti generazioni di scrittori
presentarono le anime così, dotate di sensi.
Ma né occhi, né nari e neppure mani può aver l'anima separata
dal corpo, né può aver lingua, né orecchie separata dal corpo;
dunque, non possono le anime per sé sole sentire, né esistere.
E, poiché sentiamo che il senso vitale è presente
in tutto il corpo e vediamo che questo è tutto animato,
se subitamente a mezzo lo recide con celere colpo
qualche forza, sì da disgiungere del tutto l'una e l'altra parte,
fuor di dubbio anche la forza dell'anima spartita
e scissa insieme col corpo sarà disunita.
Ma ciò che viene scisso e si divide in parti,
evidentemente nega di avere una natura eterna.
Si narra che carri armati di falci, caldi di confusa strage,
spesso recidano le membra così subitamente
che tremare in terra si vede ciò che dagli arti è caduto
reciso, mentre tuttavia la mente e la forza dell'uomo
non possono sentire il dolore per la subitaneità del colpo
e insieme perché la mente è presa dalla passione della battaglia:
col resto del corpo egli tende alla battaglia e alle stragi,
e spesso non s'accorge d'aver perduto la mano sinistra con lo scudo
e che tra i cavalli l'han travolta le ruote e le falci rapaci;
un altro non s'accorge che gli è caduta la destra, mentre s'arrampica e incalza.
D'altra parte un altro tenta di drizzarsi sulla gamba mozzata,
mentre lì presso, sul suolo, il piede moribondo agita le dita.
E una testa recisa da un tronco caldo e vivente
conserva sul suolo il volto della vita e gli occhi aperti,
finché non ha esalato del tutto i resti dell'anima.
Anzi, se d'un serpente che ha lingua vibrante,
minacciosa coda, lungo corpo, ti piace fendere col ferro
le due parti in molti pezzi, vedrai poi tutti i brani
tagliati contorcersi per la fresca ferita
ciascuno separatamente e cospargere di putredine la terra,
e la parte anteriore voltarsi e avventarsi con la bocca su sé stessa
per stringersi col morso, trafitta dall'ardente dolore della ferita.
Diremo dunque che in tutti quei pezzetti
vi sono anime intere? Ma, ragionando così, seguirà
che un unico essere vivente aveva nel corpo molte anime.
Dunque, quell'anima, che fu una, è stata divisa insieme
col corpo; perciò bisogna credere che entrambi sono mortali,
poiché ugualmente si scindono in molte parti.
Inoltre, se la natura dell'anima è immortale
e s'insinua nel corpo al momento della nascita,
perché non possiamo ricordare anche la vita trascorsa prima,
né serbiamo alcuna traccia delle azioni in essa compiute?
Giacché, se la facoltà dell'animo è mutata a tal punto
che ogni ricordo delle cose passate è svanito,
tale stato, io credo, non si scosta ormai molto dalla morte.
Perciò bisogna che tu ammetta che l'anima di prima è perita
e quella che c'è in quest'età, in quest'età è stata creata.
Inoltre, se la facoltà vitale dell'animo suole introdursi
in noi dopo che il nostro corpo è già formato,
nello stesso punto in cui nasciamo e passiamo la soglia
della vita, non dovremmo, in tal caso, vederla crescere insieme
col corpo e unitamente con le membra nello stesso sangue,
ma dovrebbe vivere come in una gabbia, per sé, da sé sola,
lasciando tuttavia abbondare di sensibilità tutto il corpo.
Quindi, ancora e ancora, non bisogna credere che le anime
siano esenti dal nascere, né sciolte dalla legge di morte.
Infatti non si può credere che abbiano potuto a tal punto
connettersi coi nostri corpi insinuandovisi dall'esterno.
La realtà manifesta insegna che avviene tutto il contrario;
giacché l'anima è così connessa per vene, carni, nervi
ed ossa che anche i denti son partecipi del senso;
come dimostrano il mal di denti e la loro fitta per acqua gelata
e l'urto d'un aspro sassolino che si nasconda in un pezzo di pane.
D'altronde, essendo le anime così intrecciate, non si vede
come possano uscire incolumi e disciogliersi sane e salve
da tutti i nervi e le ossa e le articolazioni.
Ma, se per caso credi che, insinuatasi dall'esterno,
l'anima soglia spandersi per le nostre membra,
tanto più essa perirà, essendo sparsa attraverso il corpo.
Giacché ciò che si spande, si dissolve: dunque muore.
Infatti, come il cibo, ripartito per tutti i meati del corpo,
quando si propaga nelle membra e in tutti gli arti,
perisce e da sé fornisce una nuova sostanza,
così l'anima e l'animo, seppure entrano intatti ‹nel› corpo
appena nato, tuttavia nello spandervisi si dissolvono,
mentre per tutti i meati, per così dire, si spargono negli arti
le particelle da cui si crea questa natura dell'animo,
che ora domina nel nostro corpo, nata
da quella che allora perì ripartita tra gli arti.
Quindi si vede che la natura dell'anima non è priva
del giorno natale, né è esente dalla morte.
Inoltre, restano semi dell'anima nel corpo
esanime, o no? Che se restano e stanno lì dentro,
non si potrà a ragione crederla immortale,
poiché sminuita dalla perdita di parti s'è dipartita.
Ma se con integre membra s'è staccata ed è fuggita via,
sì da non lasciare alcuna parte di sé nel corpo,
donde mai i cadaveri, quando la carne è già putrida, danno vita
a vermi, e come mai una sì grande folla di esseri viventi,
senza ossa e senza sangue, brulica su per gli arti tumefatti?
Che se per caso credi che dall'esterno le anime s'insinuino
nei vermi e ad una ad una possano introdursi nei corpi,
e non consideri perché mai molte migliaia di anime
s'adunino là donde è partita una sola, tuttavia c'è questo
che sembra debba essere investigato e messo in discussione:
se finalmente le anime vadano in caccia di ogni seme
di vermiciattolo, e da sé si fabbrichino sedi per starvi dentro,
oppure s'insinuino, per così dire, in corpi già formati.
Ma perché esse lo facciano o perché s'affatichino,
non è possibile dire. E infatti, quando sono senza corpo,
non svolazzano assillate da malattie e da gelo e da fame.
Giacché il corpo, più soggetto a tali afflizioni, più ne soffre,
e molti mali l'animo subisce per il contatto con esso.
Ma tuttavia ammettiamo che per queste sia quanto si voglia utile
farsi un corpo in cui entrare; non si vede però alcuna via
per cui lo possano. Dunque le anime non fanno per sé corpi e arti.
Né tuttavia può essere che s'insinuino in corpi già formati;
giacché non potranno essere intimamente connesse con quelli,
né si produrrà l'armonia per corrispondenza di sensi.
E ancora, perché la feroce violenza s'accompagna alla funesta
stirpe dei leoni, l'astuzia alle volpi, e l'inclinazione alla fuga
viene ai cervi trasmessa dai padri e la paterna paura ne stimola le membra?
E in breve, perché tutte le altre qualità di questo genere
si generano nelle membra e nell'indole dal principio della vita,
se non perché insieme con ogni corpo cresce un potere
dell'animo determinato secondo il suo seme e la stirpe?
Ma, se l'anima fosse immortale e solesse passare da un corpo
in un altro, gli esseri viventi avrebbero caratteri confusi,
spesso il cane di razza ircana fuggirebbe l'assalto
d'un cornuto cervo, e tra i venti dell'aria lo sparviero,
fuggendo all'arrivo della colomba, tremerebbe, sarebbero privi
di ragione gli uomini, ragionerebbero le selvagge stirpi delle fiere.
Giacché con falso ragionare si procede, quando s'afferma
che l'anima immortale mutando corpo si modifica.
Ciò che si muta, infatti, si dissolve: dunque muore.
Si traspongono infatti le parti ed escono dal loro ordine;
perciò devono anche potersi dissolvere nelle membra,
per morire alfine tutte insieme col corpo.
Se poi diranno che le anime degli uomini trasmigrano sempre
in corpi umani, domanderò tuttavia perché di sapiente
l'anima possa diventare stolta, e nessun bimbo sia avveduto,
né il puledro sia addestrato come il cavallo nel pieno del vigore.
Certo ricorreranno a questo espediente: che in tenero corpo
si fa tenera la mente. Ma, se ciò davvero avviene, bisogna
che tu ammetta che l'anima è mortale, poiché, mutata
per le membra a tal punto, perde la vita e il senso di prima.
E in qual modo il vigore dell'animo potrà, rinsaldandosi
insieme con ogni corpo, attingere il desiderato fiore della vita,
se non sarà partecipe della stessa sorte nell'origine prima?
E perché se ne vuole uscire fuori dalle membra invecchiate?
Forse teme di rimanere rinchiuso in un corpo putrido
e che la casa, rovinata dal lungo tratto di tempo, gli crolli
addosso? Ma per ciò che è immortale non esistono pericoli.
Ancora, sembra cosa ridicola immaginare che le anime
facciano la posta ai connubi di Venere e ai parti delle fiere;
che anime immortali aspettino mortali membra
in numero innumerevole e gareggino con straordinaria fretta
tra loro a chi prima e prevalendo sulle altre s'insinui;
salvo che, per caso, siano stabiliti tra le anime patti
per cui quella che prima sia a volo arrivata per prima s'insinui
e quindi non contendano affatto tra loro con la violenza.
Ancora, non può esistere nel cielo un albero, né nel mare
profondo nuvole, non possono i pesci vivere nei campi,
né esserci sangue nel legno, né succo nei sassi.
È determinato e disposto dove ogni cosa cresca e abbia sede.
Così la natura dell'animo non può nascere sola,
senza il corpo, né esistere lontano dai nervi e dal sangue.
Se lo potesse, infatti, molto prima la stessa forza dell'animo
potrebbe essere nel capo o negli òmeri o in fondo ai talloni
e sarebbe solita nascere in qualsiasi parte, ma in fin dei conti
rimanere nello stesso uomo e nello stesso vaso.
Ora, poiché anche nel nostro corpo è fermamente determinato
e si vede disposto dove possano esistere e crescere
separatamente l'anima e l'animo, tanto più si deve negare
che fuori da tutto il corpo possano nascere o durare.
Perciò, quando il corpo è morto, devi ammettere
che anche l'anima è perita, dilaniata in tutto il corpo.
Giacché congiungere il mortale all'eterno e credere
che possano sentire in comune e avere reazioni reciproche,
è follia. Infatti cosa mai si può credere più contrastante
o più sconnesso e discordante nelle sue relazioni
che l'unione di ciò che è mortale con ciò che è immortale
e perenne in un aggregato che sopporti furiose tempeste?
Inoltre, tutte le cose che permangono eterne è necessario
o che respingano gli urti perché hanno corpo solido
e non si lascino penetrare da qualcosa che possa dissociare
nell'interno le parti strettamente unite, quali sono i corpi
della materia, di cui prima abbiamo rivelato la natura;
oppure che possano durare per ogni tempo per questo,
perché sono esenti da colpi, come è il vuoto,
che rimane intatto e non subisce il minimo urto,
o anche perché intorno non si trova tratto di spazio
ove, in qualche modo, le cose possano sperdersi e dissolversi;
così è eterna la somma delle somme, fuori della quale
non c'è luogo ove le cose si dileguino, né ci son corpi
che possano cadere su di esse e con forte colpo dissolverle.
Ma se per caso l'anima dev'esser creduta immortale piuttosto
per questo, perché è munita e protetta da forze vitali
o perché non l'attingono affatto cose avverse alla sua salvezza
o perché quelle che l'attingono in qualche modo si ritirano
respinte prima che possiamo sentire quanto ci nocciono,
‹fatti manifesti mostrano che la verità è un'altra›.
Giacché, a parte il fatto che s'ammala delle malattie del corpo,
sovente sopravviene ciò che, riguardo al futuro, la tormenta
e nel timore la fa star male e con affanni la travaglia;
e per le colpe passate i rimorsi la straziano.
Aggiungi la follia propria della mente e l'oblio delle cose,
aggiungi che è sommersa nelle nere onde del letargo.
Nulla dunque la morte è per noi, né ci riguarda punto,
dal momento che la natura dell'animo è conosciuta mortale.
E come nel tempo passato non sentimmo alcuna afflizione,
mentre i Cartaginesi da ogni parte venivano a combattere,
quando il mondo, scosso dal trepido tumulto della guerra,
tremò tutto d'orrore sotto le alte volte dell'etere,
e fu dubbio sotto il regno di quale dei due popoli
dovessero cadere tutti gli uomini sulla terra e sul mare,
così quando noi non saremo più, quando sarà avvenuto il distacco
del corpo e dell'anima, che uniti compongono il nostro essere,
certo a noi, che allora non saremo più, non potrà affatto
accadere alcunché, nulla potrà colpire i nostri sensi,
neppure se la terra si confonderà col mare e il mare col cielo.
E anche se supponiamo che, dopo il distacco dal nostro corpo,
la natura dell'animo e il potere dell'anima serbano il senso,
questo tuttavia non importa a noi, che dall'unione e dal connubio
del corpo e dell'anima siamo costituiti e unitamente composti.
E quand'anche il tempo raccogliesse la nostra materia
dopo la morte e di nuovo la disponesse nell'assetto
in cui si trova ora e a noi fosse ridata la luce della vita,
tuttavia neppure questo evento ci riguarderebbe minimamente,
una volta che fosse interrotta la continuità della nostra coscienza.
Così ora a noi non importa nulla di noi, quali fummo in precedenza,
‹né› ormai per quel nostro essere ci affligge angoscia.
E invero, se volgi lo sguardo verso tutto lo spazio trascorso
del tempo illimitato, e consideri quanto siano molteplici
i movimenti della materia, facilmente puoi indurti a credere
che questi stessi atomi, di cui siamo composti ora, già prima
siano stati spesso disposti nel medesimo ordine in cui sono ora.
Eppure non possiamo riafferrare con la memoria quell'esistenza;
s'è interposta infatti una pausa della vita e sparsamente
tutti i moti si sviarono per ogni dove, lontano dai sensi.
Infatti, se sventura e affanno devono colpire qualcuno, occorre
che allora, in quel medesimo tempo, esista quella stessa persona
cui possa incoglier male. Ma, poiché la morte toglie ciò e impedisce
che esista colui a cui le disgrazie possano attaccarsi,
è chiaro che niente noi dobbiamo temere nella morte,
e che non può divenire infelice chi non esiste, né fa punto
differenza se egli sia nato o non sia nato in alcun tempo,
quando la vita mortale gli è stata tolta dalla morte immortale.
Quindi, se vedi un uomo dolersi della propria sorte,
perché dopo la morte dovrà, sepolto il corpo, putrefarsi
o essere distrutto dalle fiamme o dalle mascelle delle fiere,
puoi intendere che le sue parole non suonano sincere
e che sotto il suo cuore c'è qualche stimolo cieco,
benché egli asserisca di non credere che morto avrà qualche senso.
Infatti, io credo, non mantiene ciò che promette e i principi
su cui poggia, né radicalmente si svelle e si scaccia fuori
della vita, ma inconsciamente fa sopravvivere qualcosa di sé.
Ognuno infatti che da vivo si rappresenta
che dopo la morte uccelli e fiere sbraneranno il suo corpo,
commisera sé stesso; e infatti non riesce a separarsi di lì,
né si stacca abbastanza dal cadavere gettato via e confonde sé stesso
con quello e, stando dritto lì accanto, gli trasfonde il proprio senso.
Per questo si duole d'esser nato mortale
e non vede che nella vera morte non ci sarà un altro sé stesso
che possa, vivo, piangere la perdita di sé per sé stesso
e, stando in piedi, lamentarsi di giacere a terra e d'essere sbranato o bruciato.
E invero, se nella morte è un male essere straziato dalle mascelle
e dai morsi delle fiere, non intendo come non sia acerbo
esser posto sul rogo per esservi arrostito dalle calde fiamme
o soffocare immerso nel miele o intirizzire di freddo,
disteso sopra la liscia superficie d'una gelida pietra,
o esser premuto dall'alto, schiacciato sotto il peso della terra.
"Ora, ora mai più la casa ti accoglierà in letizia, né la sposa
ottima, né i dolci figli ti correranno incontro a contendersi
i primi baci, né invaderanno il tuo cuore di tacita dolcezza.
Non potrai essere uomo di prospere imprese, né sostegno
ai tuoi. A te misero miseramente" dicono "un solo giorno
avverso tutti ha tolti i molti doni della vita".
Ma questo, a tale proposito, non aggiungono: "né più
il rimpianto di quelle cose ti accompagna e resta in te".
Se ciò vedessero chiaro con la mente e vi s'attenessero con le parole,
si scioglierebbero da grande angoscia e timore dell'animo.
"Tu certamente, come ti sei assopito nella morte, così sarai
per tutto il tempo che resta, esente da tutti i dolori penosi.
Ma noi insaziabilmente abbiamo pianto te ridotto
in cenere sull'orribile rogo lì vicino, e nessun giorno
ci leverà dal petto l'eterna tristezza".
Questo dunque a costui bisogna chiedere: che mai ci sia
di tanto amaro, se la cosa si riduce al sonno e alla quiete,
perché uno possa consumarsi in eterno lutto.
Anche ciò gli uomini fanno quando si son messi a tavola
e tengono in mano le coppe e velano la fronte con le corone: dicono,
dal profondo dell'animo: "Breve è questo godere per i poveri uomini;
presto sarà passato, né dopo sarà mai possibile farlo tornare".
Come se nella morte questo dovesse essere il peggiore
dei loro mali: essere arsi e disseccati, gli infelici, da un'arida sete
o essere oppressi dal rimpianto di qualche altra cosa.
In realtà nessuno sente la mancanza di sé stesso e della vita
quando la mente e il corpo riposano insieme assopiti.
Per quanto riguarda noi, infatti, quel sonno può durare
in perpetuo, né alcun rimpianto di noi stessi ci affligge.
E tuttavia, attraverso le nostre membra quei primi principi
non vagano affatto lontano dai moti sensiferi
quando un uomo, strappatosi al sonno, raccoglie sé stesso.
Molto meno, dunque, si deve credere che sia per noi la morte,
se può esserci meno rispetto a ciò che vediamo esser nulla;
giacché maggiore dispersione della materia perturbata
segue alla morte, né alcuno si risveglia e si leva,
una volta che l'abbia colto la fredda pausa della vita.
Ancora, se la natura d'un tratto parlasse e a qualcuno
di noi così facesse, in persona, questo rimprovero:
"Che cosa, o mortale, ti preme tanto che indulgi oltremisura
a penosi lamenti? Perché per la morte ti affliggi e piangi?
Infatti, se ti è stata gradita la vita che hai trascorsa prima,
né tutti i suoi beni, come accumulati in un vaso bucato,
sono fluiti via e si sono dileguati senza che ne godessi,
perché non ti ritiri, come un convitato sazio della vita,
e non prendi, o stolto, di buon animo, un riposo sicuro?
Ma se tutti i godimenti che ti sono stati offerti, sono stati dissipati
e perduti, e la vita ti è in odio, perché cerchi di aggiungere ancora
quello che di nuovo andrà malamente perduto e tutto svanirà
senza profitto? Perché non poni piuttosto fine alla vita e al travaglio?
Infatti non c'è più nulla che io possa escogitare e scoprire
per te, che ti piaccia: tutte le cose sono sempre uguali.
Se il tuo corpo non è ancora sfatto dagli anni, né le membra
stremate languiscono, tuttavia tutte le cose restano uguali,
anche se tu dovessi vincere, continuando a vivere,
tutte le età, anzi perfino se tu non dovessi morire mai"; -
che cosa risponderemmo, se non che la natura intenta
un giusto processo e con le sue parole espone una causa vera?
E se ora un vecchio cadente si lagnasse e lamentasse
l'incombere della morte rattristandosi più del giusto,
non avrebbe essa ragione d'alzare la voce e rimbrottarlo con voce aspra?
"Via di qui con le tue lacrime, o uomo da baratro, e rattieni i lamenti.
Tutti i doni della vita hai già goduti e sei marcio.
Ma, perché sempre aneli a ciò che è lontano e disprezzi quanto è presente,
incompiuta ti è scivolata via, e senza profitto, la vita,
e inaspettatamente la morte sta dritta accosto al tuo capo
prima che tu possa andartene sazio e contento d'ogni cosa.
Ora, comunque, lascia tutte queste cose che non si confanno più alla tua età
e di buon animo, suvvia, cedi il posto ‹ad altri›: è necessario".
Giusta, penso, sarebbe l'accusa, giusti i rimbrotti e gl'improperi.
Sempre infatti, scacciate dalle cose nuove, cedono il posto
le vecchie, ed è necessario che una cosa da altre si rinnovi;
né alcuno nel baratro del tenebroso Tartaro sprofonda.
Di materia c'è bisogno perché crescano le generazioni future;
che tutte, tuttavia, compiuta la loro vita, ti seguiranno;
e dunque non meno di te le generazioni son cadute prima, e cadranno.
Così le cose non cesseranno mai di nascere le une dalle altre,
e la vita a nessuno è data in proprietà, a tutti in usufrutto.
Volgiti a considerare parimenti come nulla siano state per noi
le età dell'eterno tempo trascorse prima che noi nascessimo.
Questo è dunque lo specchio in cui la natura ci presenta
il tempo che alfine seguirà la nostra morte.
Forse in esso appare qualcosa di orribile, forse si vede qualcosa
di triste? Non è uno stato più tranquillo di ogni sonno?
E senza dubbio tutte quelle cose che secondo la tradizione
sono nell'Acheronte profondo, sono tutte nella nostra vita.
Né Tantalo misero teme il gran masso che nell'aria
sovrasta, da vana paura, come è fama, paralizzato;
ma piuttosto nella vita un fallace timore degli dèi opprime
i mortali, e temono il colpo che a ognuno può menare la sorte.
Né gli uccelli si cacciano dentro Tizio giacente
nell'Acheronte, né dentro l'ampio petto possono certo
trovare qualcosa in cui frugare in perpetuo.
Si stenda pure con una massa di corpo quanto si voglia
immane, che copra con le membra dispiegate,
non solo nove iugeri, ma tutto l'orbe della terra:
non potrà tuttavia continuare a sopportare un eterno dolore,
né fornire cibo dal proprio corpo per sempre.
Ma Tizio è per noi qui: è colui che giacente nell'amore
uccelli straziano, cioè lo divora un'ansiosa angoscia
o per qualsiasi altra passione lo dilaniano affanni.
Anche Sisifo è nella vita nostra, alla vista di tutti:
è colui che aspira ad ottenere dal popolo i fasci
e le crudeli scuri, e sempre vinto e triste si ritira.
Giacché cercare un potere che è vano, né vien dato mai,
e in quella ricerca sostenere sempre un duro travaglio,
questo è sospingere con grande sforzo su per l'erta d'un monte
un masso, che tuttavia ‹dalla› somma vetta sùbito rotola
di nuovo giù, e ratto corre verso la distesa della piana campagna.
Ancora: pascer sempre l'insaziabile natura dell'animo
e tuttavia non colmarla mai di beni, né mai saziarla,
come a noi fanno le stagioni dell'anno, quando, in giro
volgendosi, ritornano e ci recano i frutti e le varie delizie,
senza che tuttavia noi siamo mai paghi delle gioie della vita,
questa, io penso, è la favola delle fanciulle nel fiore dell'età,
le quali raccolgono l'acqua in un vaso perforato,
che tuttavia non si può in alcun modo riempire.
Cerbero e le Furie, per soprappiù, e la mancanza di luce,
il Tartaro eruttante dalle fauci vampe orribili,
che non esistono in alcun luogo, né invero possono esistere!
Ma c'è nella vita il timore delle pene,
grave per i crimini gravi, e l'espiazione della colpa,
il carcere e l'orribile precipitare giù dalla rupe,
staffilate, carnefici, cavalletto, pece, lamine, fiaccole;
e anche se son lontani, pure la mente, conscia dei propri misfatti,
in ansia infligge assilli a sé stessa e si brucia con staffili,
né vede intanto quale possa essere il termine dei mali,
né quale sia alfine la fine delle pene, e anzi teme
che queste stesse afflizioni nella morte diventino più gravi.
Alfine, è qui che la vita degli stolti diventa un inferno.
Anche questo talora tu potresti dire a te stesso:
"Chiuse i suoi occhi alla luce anche il buon Anco,
che in molte cose fu migliore di te, o briccone.
Caddero poi molti altri re e dominatori del mondo,
che su grandi nazioni esercitarono il comando.
Quegli stesso che un giorno aprì una via per il grande mare
e offerse alle legioni un cammino perché andassero sopra
le profondità marine, e insegnò a varcare a piedi i salati abissi,
e disprezzò i fragori dei flutti calpestandoli coi cavalli,
anch'egli fu privato della luce ed esalò l'anima dal corpo morente.
Scipione, fulmine di guerra, terrore di Cartagine,
rese le ossa alla terra come se fosse un infimo schiavo.
Aggiungi gli scopritori delle scienze e delle arti,
aggiungi i compagni delle Muse, tra i quali Omero, l'unico,
dopo aver conquistato lo scettro, s'addormentò dello stesso sonno degli altri.
E ancora: dopoché matura vecchiezza fece sentire a Democrito
che i memori movimenti della mente languivano,
spontaneamente alla morte andò incontro e offrì il proprio capo.
Lo stesso Epicuro morì, dopo aver percorso il luminoso tratto
della vita, egli che per ingegno superò il genere umano, e tutti
offuscò, come il sole sorto nell'etere offusca le stelle.
E tu esiterai e t'indignerai di morire?
Tu cui la vita è quasi morta, mentre sei ancora vivo e vedi;
tu che nel sonno consumi la parte maggiore del tempo
e sveglio russi, né cessi di vedere sogni
ed hai la mente assillata da vana paura,
e spesso non sei capace di scoprire che male tu abbia, mentre
ebbro sei oppresso da molti affanni, infelice, da ogni parte,
e vaghi ondeggiando in preda al confuso errore dell'animo".
Se gli uomini, come si vede che sentono di avere
in fondo all'animo un peso che con la sua gravezza li affatica,
potessero anche conoscere da che cause ciò provenga e perché
una sì grande mole, per così dire, di male nel petto persista,
non così passerebbero la vita, come ora per lo più li vediamo:
ognuno non sa quel che si voglia e cerca sempre
di mutar luogo, quasi potesse deporre il suo peso.
Esce spesso fuori del grande palazzo colui
che lo stare in casa ha tediato, e sùbito ‹ritorna›,
giacché sente che fuori non si sta per niente meglio.
Corre alla villa, sferzando i puledri, precipitosamente,
come se si affrettasse a recar soccorso alla casa in fiamme;
sbadiglia immediatamente, appena ha toccato la soglia
della villa, o greve si sprofonda nel sonno e cerca l'oblio,
o anche parte in fretta e furia per la città e torna a vederla.
Così ciascuno fugge sé stesso, ma, a quel suo 'io', naturalmente,
come accade, non potendo sfuggire, malvolentieri gli resta attaccato,
e lo odia, perché è malato e non comprende la causa del male;
se la scorgesse bene, ciascuno, lasciata ormai ogni altra cosa,
mirerebbe prima di tutto a conoscere la natura delle cose,
giacché è in questione non la condizione di un'ora sola,
ma quella del tempo senza fine, in cui i mortali devono aspettarsi
che si trovi tutta l'età, qualunque essa sia, che resta dopo la morte.
Infine, a trepidare tanto nei dubbiosi cimenti
quale trista brama di vita con tanta forza ci costringe?
Senza dubbio un termine certo della vita incombe ai mortali,
né la morte si può evitare, dobbiamo incontrarla.
Inoltre, ci moviamo nello stesso giro e vi rimaniamo sempre,
né col continuare a vivere si produce alcun nuovo piacere;
ma, finché ciò che bramiamo è lontano, sembra che esso superi
ogni altra cosa; poi, quando abbiamo ottenuto quello, altro
bramiamo e un'uguale sete di vita sempre in noi avidi riarde.
Ed è dubbio qual sorte apporti il tempo futuro,
che cosa ci rechi il caso, quale fine sovrasti.
Né, protraendo la vita, sottraiamo mai nulla
dal tempo della morte, in nulla siamo in grado d'intaccarlo,
sì da potere, forse, per un tempo più breve essere morti.
Puoi, quindi, vivendo finire quante generazioni vuoi:
ti aspetterà pur sempre quella morte eterna;
né per colui che ha finito la vita con la luce
di questo giorno il non esistere più sarà più breve
che per colui che già da molti mesi ed anni scomparve.


LIBRO IV (1)

Percorro remote regioni delle Pieridi, ove nessuno prima
impresse orma. Godo ad appressarmi alle fonti intatte
e bere, e godo a cogliere nuovi fiori
e comporre per il mio capo una corona gloriosa,
di cui prima a nessuno le Muse abbiano velato le tempie;
anzitutto perché grandi cose io insegno, e cerco
di sciogliere l'animo dagli stretti nodi della superstizione;
poi perché su oscura materia compongo versi tanto luminosi,
tutto cospargendo col fascino delle Muse.
Infatti anche questo appare non privo di ragione;
ma, come i medici, quando cercano di dare ai fanciulli
il ripugnante assenzio, prima gli orli, tutt'attorno al bicchiere,
cospargono col dolce e biondo liquore del miele,
perché nell'imprevidenza della loro età i fanciulli siano ingannati,
non oltre le labbra, e intanto bevano interamente l'amara
bevanda dell'assenzio e dall'inganno non ricevano danno,
ma al contrario in tal modo risanati riacquistino vigore;
così io ora, poiché questa dottrina per lo più pare
troppo ostica a coloro che non l'hanno coltivata,
e il volgo rifugge lontano da essa, ho voluto esporti
la nostra dottrina col canto delle Pieridi che suona soave,
e quasi cospargerla col dolce miele delle Muse,
per provare se per caso potessi in tal modo tenere
avvinto il tuo animo ai miei versi, finché comprendi tutta
la natura e senti a fondo il vantaggio.
E, poiché ho insegnato quale sia la natura dell'animo
e di quali elementi costituita viva in unione col corpo
e in che modo, una volta divisa, torni ai primi principi,
ora comincerò a dirti ciò che con queste cose è connesso
strettamente: esistono quelli che chiamiamo simulacri delle cose;
i quali, come membrane strappate dalla superficie delle cose,
volteggiano qua e là per l'aria; e sono essi stessi
che atterriscono gli animi, presentandosi a noi,
sia mentre vegliamo, sia nel sonno, quando spesso osserviamo
figure strane e spettri di gente che ha perduto la luce della vita,
i quali spesso, mentre languivamo addormentati, paurosamente
ci svegliarono: perché non crediamo, per caso, che le anime
fuggano dall'Acheronte o che le ombre volteggino tra i viventi
o che qualcosa di noi possa durare dopo la morte,
quando il corpo e la natura dell'animo insieme disfatti
si sono disgregati nei loro diversi principi primi.
Dico dunque che immagini delle cose e tenui figure
sono emesse dalle cose e si staccano dalla loro superficie.
Ciò si può conoscere di qui, anche con mente ottusa.
[Ma, poiché ho insegnato quali siano i principi
di tutte le cose e quanto differenti per varietà di forme
spontaneamente volteggino, stimolati da moto eterno,
e in che modo da questi si possa produrre ogni cosa,
ora comincerò a dirti ciò che con queste cose è connesso
strettamente: esistono quelli che chiamiamo simulacri delle cose,
cui si può dare quasi il nome di membrane o di corteccia,
poiché l'immagine presenta aspetto e forma simile all'oggetto,
qualunque sia, dal cui corpo essa appare emanata per vagare.]
Anzitutto, poiché molte tra le cose visibili emettono
corpi, in parte liberamente diffusi,
come la legna emette fumo e il fuoco calore,
e in parte più strettamente contesti e densi, come si vede
talora, quando le cicale in estate depongono le fini tuniche,
e quando i vitelli nascendo lasciano cadere membrane
dalla superficie del corpo, e similmente quando la lubrica
serpe lascia tra i pruni la veste: infatti spesso vediamo
i pruneti coperti di svolazzanti spoglie di serpi -
poiché tali cose accadono, una tenue immagine deve pure
dalle cose essere emessa, staccarsi dalla superficie delle cose.
Infatti, perché cadano e si scostino dalle cose quegli oggetti
piuttosto che altri più sottili, non è possibile dire;
tanto più che le cose hanno in superficie molti corpi
minuti, tali che possono volarne via nello stesso ordine
in cui erano, conservando la forma esteriore,
tanto più velocemente, quanto meno possono essere impediti,
pochi come sono, e collocati in prima linea.
Giacché certo vediamo molte cose emettere particelle e spanderle in abbondanza,
non solo dal profondo e dall'intimo, come abbiamo detto prima,
ma anche dalla superficie: e ciò avviene spesso per il loro stesso colore.
E generalmente fanno questo i velari gialli e rossi
e color di ruggine, quando, tesi su grandi teatri,
oscillano e fluttuano, spiegati ovunque tra pali e travi:
ivi infatti colorano sotto di sé il pubblico delle gradinate
e tutto lo sfoggio della scena ‹e la splendida folla dei senatori›,
e li costringono a fluttuare nei loro colori.
E quanto più sono chiuse, tutt'intorno, le pareti
del teatro, tanto più ciò che è dentro, soffuso di grazia,
ride tutto nella raccolta luce del giorno.
Dunque, se le tele emettono dalla superficie il colore,
ogni oggetto deve anche emettere immagini tenui,
poiché in ambo i casi è dalla superficie che avviene il lancio.
Ci sono dunque, senz'altro, sicure tracce di forme,
che dovunque volteggiano fornite di un sottile tessuto,
né si possono vedere separate ad una ad una.
Inoltre, ogni odore, fumo, calore e altre cose
consimili, perciò traboccano dalle cose, disperdendosi,
perché, venendo dalle profondità, al cui interno son sorti,
si scindono nel cammino sinuoso, né le vie hanno varchi diretti
per cui possano affrettarsi a uscire insieme, dopo esser insieme sorti.
Per contro, quando vien lanciata la tenue membrana d'un colore
che si trova alla superficie, non c'è nulla che possa lacerarla,
perché, collocata in prima linea, ha sgombro il cammino.
Infine, tutti i simulacri che ci appaiono negli specchi,
nell'acqua e in ogni superficie risplendente,
giacché sono dotati di aspetto simile alle cose,
devono consistere di immagini emesse da queste.
Ci sono dunque tenui immagini delle forme, simili ad esse,
che, sebbene nessuno le possa discernere ad una ad una,
tuttavia, rinviate indietro con assiduo e frequente riflesso,
rimandano dal piano degli specchi la visione,
e si vede che non possono altrimenti conservarsi,
in modo che sian riflesse figure tanto simili a ciascun oggetto.
E ora apprendi di che tenue natura consti l'immagine.
E in primo luogo, considera quanto i primi principi
sono al di sotto dei nostri sensi e quanto più piccoli delle cose
che gli occhi primamente cominciano a non potere più scorgere.
Ora, tuttavia, affinché io ti confermi anche questo, apprendi
in poche parole quanto siano sottili i principi di tutte le cose.
Anzitutto, già ci sono alcuni animali talmente piccoli
che una terza parte di loro non si può in alcun modo vedere.
Un viscere qualunque di questi, come si deve credere che sia?
E il globo del cuore o dell'occhio? E le membra? E gli arti?
Quanto son piccini? Che dire poi di ciascuno dei primi principi
di cui deve constare la loro anima e la natura dell'animo?
Non vedi forse quanto siano sottili e quanto minuti?
Inoltre, tutte le cose che emanano dal proprio corpo
un odore acre, la panacea, il ripugnante assenzio
e l'abrotono greve e l'amara centaurea:
se per caso ‹premi› un poco tra due ‹dita› una qualunque di queste,
‹un forte odore aderirà alle tue dita...› ...
e non riconoscere piuttosto che molti simulacri di cose vagano
in molti modi, non dotati di forza propria e privi di sensibilità?
Ma, affinché tu non creda, per caso, che vadano vagando solo
quei simulacri che si distaccano dalle cose, e non altri,
esistono anche quelli che si generano spontaneamente
e si formano da soli in questa regione del cielo
che si chiama aria, e foggiati in molti modi volano in alto,
come talora vediamo le nuvole facilmente formarsi nell'alto
del cielo e oscurare il sereno aspetto del firmamento,
accarezzando l'aria col moto: ché spesso si vedono volare
volti di Giganti e spander l'ombra per ampio spazio,
talora grandi monti e macigni divelti
dai monti avanzare e passar davanti al sole,
poi una belva tirarsi dietro altri nembi e guidarli.
E fondendosi non cessano di mutare il proprio aspetto
e assumere contorni di forme d'ogni specie.
Ora, in che facile e celere modo si generino quei simulacri,
e di continuo fluiscano dalle cose e staccatisi s'allontanino,
‹io esporrò...› ...
sempre infatti ciò che è all'estrema superficie trabocca
dalle cose, sì che esse possono emetterlo. E quando ciò raggiunge
altre cose, le attraversa, come fa soprattutto con la stoffa.
Ma, quando ha raggiunto aspre rocce o legname, lì sùbito
si lacera, sì che non può rimandare alcun simulacro.
Ma, quando fanno ostacolo oggetti risplendenti e densi,
qual è soprattutto lo specchio, niente di simile accade.
Infatti non può attraversarli, come la stoffa, né d'altra parte
può lacerarsi: a conservarlo così illeso provvede la levigatezza.
Perciò avviene che di lì tornino a noi riflessi i simulacri.
E per quanto subitamente, in qualsiasi momento, tu ponga
una cosa qualunque contro uno specchio, appare l'immagine;
sì che puoi conoscere che sempre fluiscono dalla superficie
dei corpi tessuti tenui e tenui figure delle cose.
Dunque, molti simulacri in breve tempo si generano,
sì che a ragione può dirsi che per tali cose sia celere il nascere.
E come il sole deve spandere in breve tempo molti
raggi perché continuamente tutto ne sia pieno,
così dalle cose, parimenti e per simile ragione, devono
in un istante effondersi molti simulacri di cose,
in molti modi, da ogni parte, in tutte le direzioni;
giacché, ovunque volgiamo alle superfici delle cose
lo specchio, le cose vi si riflettono con simile forma e colore.
Inoltre, il cielo, anche se fu or ora in uno stato di estrema limpidezza,
con la massima celerità diventa orridamente torbido,
sì che potresti credere che da ogni parte le tenebre abbiano tutte
lasciato l'Acheronte e abbiano riempito le grandi caverne del cielo:
a tal punto, sorta la tetra notte dei nembi,
incombono dall'alto volti di cupa paura;
e tuttavia, di questi quanto piccola parte sia l'immagine,
non c'è alcuno che possa dirlo, né a parole renderne conto.
E ora, con che celere moto procedano i simulacri
e quale mobilità nell'attraversare a nuoto l'aria sia ad essi data,
sì che in lungo tragitto si consuma breve tempo,
quale che sia il luogo a cui ciascuno con diverso impulso tende,
esporrò in versi soavi piuttosto che numerosi;
così il breve canto del cigno è migliore di quel clamore
delle gru disperso tra le eteree nubi dell'Austro.
Anzitutto, molto spesso si può vedere che le cose leggere
e fatte di corpi minuti sono celeri.
Di tale specie sono, certo, la luce del sole e il suo calore
perché sono fatti di elementi minuti,
che vengono quasi battuti e non esitano ad attraversare
l'aria interposta, incalzati dal colpo susseguente.
Sùbito infatti luce succede a luce e, come in serie
ininterrotta, splendore è stimolato da splendore.
Perciò bisogna che i simulacri parimenti possano
trascorrere in un istante attraverso uno spazio
inimmaginabile, anzitutto perché c'è una piccola causa
lontano, da tergo, che li sospinge e li caccia innanzi,
quando, del resto, essi procedono con tanto alata levità;
poi perché vengono emessi dotati di un tessuto così rado
che posson penetrare facilmente in cose di qualunque tipo
e, per così dire, infiltrarsi attraverso l'aria interposta.
Inoltre, se quelle particelle che son mandate fuori
dalle intime profondità delle cose, come la luce
e il calore del sole, in un momento si vedono staccarsi
e diffondersi per tutto lo spazio del cielo
e volare su per il mare e le terre e inondare il cielo,
che avverrà allora di quelle che son già pronte in prima linea,
quando vengono lanciate via e nulla ne ritarda il dipartirsi?
Non vedi quanto più presto e più lontano debbono andare,
e correre attraverso una distesa di spazio molto più grande,
nel tempo stesso in cui i raggi del sole si spandono per il cielo?
Anche questa sembra essere una prova sopra tutte vera
del celere moto con cui procedono i simulacri delle cose:
appena si pone sotto il cielo sereno un'acqua limpida,
sùbito, se il cielo è stellato, puri
rispondono nell'acqua i raggianti astri del firmamento.
Non vedi, dunque, ormai come in un istante l'immagine
cada dalle plaghe dell'etere nelle plaghe terrene?
Perciò, ancora e ancora, devi riconoscere che con mirabile
‹rapidità sono emessi dalle cose›
corpi che feriscono gli occhi e provocano il vedere.
E continuamente fluiscono da certe cose gli odori;
come il fresco dai fiumi, il calore dal sole, dalle onde del mare
l'esalazione che corrode i muri intorno alle spiagge.
Né cessano varie voci di volteggiare per l'aria.
Ancora, spesso entra nella bocca un'umidità di sapore salmastro
quando camminiamo lungo il mare; e d'altra parte, quando
guardiamo mescolare un infuso d'assenzio, ci punge l'amaro.
A tal punto è vero che da tutte le cose emanazioni d'ogni tipo
fluendo si staccano e da ogni parte si diffondono in tutte
le direzioni, né sosta né requie è mai dato frapporre al fluire,
giacché di continuo i nostri sensi ne sono impressionati,
e sempre possiamo vedere ogni cosa, percepirne odori e suoni.
Inoltre, giacché una forma palpata con le mani
nelle tenebre si riconosce in certo modo uguale a quella
che si discerne alla luce e nel luminoso fulgore,
da una simile causa devono essere mossi il tatto e la vista.
Ora, dunque, se tastiamo un oggetto quadrato e di questo
riceviamo l'impressione nelle tenebre, nella luce che cosa
potrà offrirsi quadrata allo sguardo, se non la sua immagine?
È quindi evidente che la causa del vedere sta nelle immagini
e che senza di queste non può essere veduta cosa alcuna.
Ora, quei simulacri di cui parlo, procedono
da ogni parte e si lanciano e diffondono in ogni direzione.
Ma, poiché noi possiamo vedere soltanto con gli occhi,
perciò accade che, ove volgiamo lo sguardo, ivi tutte le cose
gli si fanno incontro e lo colpiscono con la forma e il colore.
E quanto ogni cosa sia da noi distante, è l'immagine
che ce lo fa vedere e procura che lo determiniamo.
Infatti, quando viene emessa, sùbito caccia innanzi e spinge
l'aria, quale che sia, che si trova interposta fra essa e gli occhi,
e così questa scorre tutta nel nostro sguardo
e quasi asterge le pupille, e così passa.
Perciò accade che vediamo quanto ogni cosa sia lontana.
E quanta più aria è agitata innanzi a noi
e quanto più lungo è il soffio che asterge i nostri occhi,
tanto più ogni cosa si vede remota nella lontananza.
Queste cose si svolgono, ben inteso, con celerità somma,
sì che vediamo insieme quale sia ogni cosa e quanto disti.
In tale riguardo non dobbiamo affatto meravigliarci
perché i simulacri che colpiscono gli occhi non possano
essere veduti a uno a uno e invece le cose stesse sono scorte.
Giacché, anche quando il vento ci sferza a poco a poco
e quando il freddo aspro s'insinua, non soliamo sentire
ogni singola particella di quel vento e di quel freddo,
bensì l'insieme, e vediamo allora che il nostro corpo
subisce colpi proprio come se qualche cosa
ci sferzasse e ci desse la sensazione del suo corpo dall'esterno.
Inoltre, quando picchiamo una pietra con un dito,
tocchiamo solo la superficie del sasso e il colore esteriore,
eppure non sentiamo questo col tatto, bensì sentiamo
la durezza stessa del sasso nell'intima profondità.
Ora, suvvia, apprendi perché l'immagine si veda
al di là dello specchio: giacché certo appare discosta nel fondo.
Così è delle cose che son vedute realmente fuori, attraverso
una porta, quand'essa offre attraverso a sé una vista aperta,
e molte cose fa sì che dalla casa siano vedute fuori.
Giacché anche questa visione si produce per una duplice aria.
Prima infatti si scorge in tal caso l'aria al di qua degli stipiti,
seguono poi gli stessi battenti a destra e a sinistra,
successivamente asterge gli occhi la luce di fuori,
poi l'altra aria e quelle cose che sono vedute realmente fuori.
Così, appena l'immagine dello specchio si è lanciata avanti,
mentre viene alle nostre pupille, caccia innanzi e spinge
l'aria, quale che sia, che si trova interposta fra essa e gli occhi,
e fa sì che possiamo sentire tutta questa prima che lo specchio.
Ma, quando abbiamo percepito anche lo specchio stesso,
sùbito l'immagine che da noi procede perviene
a questo, e riflessa ritorna verso i nostri occhi,
e sospinge e fa scorrere innanzi a sé altra aria,
e fa sì che vediamo questa prima di lei stessa,
e per ciò sembra distare dallo specchio tanto discosta.
Quindi, ancora e ancora, non è giusto che ci si meravigli
‹che il medesimo fenomeno dell'apparire al di là, avvenga
sia per le cose che si vedono attraverso la porta, sia›
per quelle che rimandano dal piano degli specchi la visione,
giacché da duplice aria è prodotta la cosa in ambo i casi.
Ora, quella che per noi è la parte destra delle membra,
negli specchi accade che appaia a sinistra, perché l'immagine,
quando arriva e urta contro il piano dello specchio,
non si volta girando su sé stessa e restando inalterata,
ma è rovesciata dritta, come se uno sbatta una maschera
di creta, prima che sia asciutta, contro un pilastro o una trave,
ed essa conservi immediatamente dritta di fronte
la propria figura e riproduca sé stessa rovesciata indietro.
Accadrà che quell'occhio che prima era destro, ora
sia sinistro, e reciprocamente il sinistro diventi destro.
Anche accade che da specchio a specchio si trasmetta l'immagine,
sì che sogliono prodursi anche cinque ‹o› sei simulacri.
Infatti quanti oggetti saranno nascosti là dietro, in una parte più interna,
di lì, benché remoti in fondo ad un tortuoso andirivieni,
sarà possibile tirarli fuori tutti per serpeggianti passaggi
mediante più specchi e vedere che sono dentro la casa.
Tanto è vero che di specchio in specchio si riflette l'immagine
e, quando è stata porta la sinistra, accade poi che si muti in destra,
quindi ritorna di nuovo indietro e riprende la stessa posizione.
Anzi, tutti gli specchi che hanno facce laterali
dotate di una curvatura simile a quella dei nostri fianchi,
per questo ci rimandano i simulacri senza rivoltarli,
o perché l'immagine è trasmessa da una parte all'altra dello specchio
e di lì vola verso di noi rovesciata due volte, o anche perché
l'immagine, quando è arrivata, fa un giro su sé stessa per questa
cagione, che la curva forma dello specchio le insegna di volgersi
in giro verso di noi. Può sembrarti, per di più, che i simulacri
camminino di pari passo e posino il piede insieme con noi e imitino
i nostri gesti, perché da quella parte dello specchio da cui ti ritiri,
sùbito di lì non possono riflettersi i simulacri;
giacché la natura costringe tutte le cose a riflettersi
e rimbalzare dalle cose, rimandate indietro con angoli eguali.
Gli occhi, poi, rifuggono le cose splendenti e evitano di fissarle.
Il sole finanche acceca, se continui a tendere lo sguardo
contro di esso, perché grande è la sua forza, e dall'alto
attraverso l'aria pura pesantemente i simulacri piombano
e feriscono gli occhi perturbandone le compagini.
Inoltre ogni splendore che è penetrante, sovente
brucia gli occhi perché contiene molti semi di fuoco,
che negli occhi producono dolore insinuandosi.
Giallastre inoltre diventano tutte le cose che fissano
gli itterici, perché dal corpo di questi fluiscono
molti semi di color giallastro e vanno a incontrare i simulacri
delle cose, e molti sono per di più mescolati nei loro occhi
e con il loro contatto dipingono ogni oggetto di pallore.
E dall'oscurità vediamo le cose che sono nella luce
perché, quando la nera aria della caligine, che è più vicina,
è entrata per prima negli occhi aperti e li ha occupati,
la segue sùbito una raggiante aria luminosa
che, per così dire, li purga e spazza via le nere ombre
dell'altra aria; infatti quest'aria è molte volte
più mobile e molte più minuta e più possente.
Appena essa ha riempito di luce le vie degli occhi
e ha dischiuso quelle che prima aveva invase l'aria
‹nera›, senza indugio seguono i simulacri delle cose
che si trovano nella luce e ci stimolano a vedere.
Per contro non possiamo far ciò dalla luce nell'oscurità
perché l'aria della caligine, che è più spessa,
segue seconda ed empie tutti i canali
e invade le vie degli occhi, sì che nessun simulacro
delle cose può lanciarsi in essi e stimolarli.
E quando vediamo da lungi le quadrate torri d'una città,
per ciò spesso avviene che sembrino rotonde,
perché di lontano ogni angolo si vede ottuso
o piuttosto non si vede affatto e se ne perde
il colpo, né la percossa perviene alle nostre pupille,
perché, mentre i simulacri viaggiano per molta aria,
coi frequenti scontri l'aria la costringe ad ottundersi.
Quando perciò tutti gli angoli sono insieme sfuggiti al senso,
accade che le strutture di pietra appaiano come lavorate al tornio,
non tuttavia come quelle che son davanti a noi e davvero rotonde,
ma paiono un po' somiglianti come per vago adombramento.
Similmente l'ombra sembra a noi che nel sole si muova
e che segua i nostri passi ed imiti i gesti:
se tu credi possibile che aria privata di luce
cammini, seguendo i movimenti e i gesti degli uomini;
in effetti non può essere altro che aria priva di luce
ciò che noi siamo soliti chiamare ombra.
Certo perché il suolo vien privato della luce del sole
in certi luoghi successivamente, dovunque noi movendoci
la intercettiamo, e similmente se ne riempie quella sua parte
che abbiamo lasciata, perciò accade che quella che fu poc'anzi
l'ombra del nostro corpo, sembri averci sempre seguiti identica,
in linea dritta con noi. Sempre infatti nuovi raggi luminosi
si spandono e i precedenti svaniscono, come se si fili lana
entro una fiamma. Perciò facilmente la terra e si spoglia
di luce e ugualmente se ne riempie e si deterge le nere ombre.
Né tuttavia concediamo che qui gli occhi s'ingannino in nulla.
Giacché vedere in quale luogo sia la luce e in quale l'ombra,
è loro proprietà; ma se sia o non sia la stessa luce,
e se la stessa ombra che fu qui, passi ora là,
o piuttosto accada ciò che abbiamo detto poc'anzi,
questo deve discernerlo soltanto il ragionare della mente,
né possono gli occhi conoscere la natura delle cose.
Dunque non attribuire falsamente agli occhi questo errore della mente.
La nave da cui siamo trasportati, si muove, mentre sembra star ferma;
quella che rimane immobile all'ormeggio, si crede che proceda oltre.
E sembra che a poppa fuggano colline e pianure
oltre le quali conduciamo la nave e con le vele voliamo.
Gli astri sembrano tutti restare immobili, fissi
alle eteree cavità, e tuttavia son tutti in assiduo movimento,
giacché, dopo esser sorti, rivedono i lontani tramonti,
quando hanno percorso il cielo col loro corpo lucente.
E il sole e la luna parimenti sembra che rimangano
immobili, essi che il fatto stesso mostra in movimento.
E monti che s'innalzano lontano in mezzo alle onde,
tra i quali si apre libero un vasto passaggio alle flotte,
sembrano tuttavia fare, congiunti tra loro, un'unica isola.
Ai fanciulli, quando hanno smesso di fare il girotondo
essi stessi, paiono gli atri girare e rigirare, e le colonne
correre intorno, a tal punto che a stento allora essi possono
credere che non minacci la casa tutta di crollare sopra di loro.
E ancora, quando la natura comincia a levare in alto il rosso fulgore
del sole coi suoi tremuli fuochi e a innalzarlo sopra i monti,
quei monti, sopra i quali a te allora sembra stia il sole,
toccandoli esso stesso da vicino, ardente, col suo fuoco,
distano da noi appena duemila tiri di freccia,
anzi spesso appena cinquecento lanci di giavellotto:
tra essi e il sole giacciono le smisurate distese del mare,
che si estendono sotto le immense plaghe eteree,
e sono interposte molte migliaia di terre,
in cui dimorano varie genti e razze di fiere.
Ma una pozzanghera d'acqua non più profonda d'un dito,
che tra le pietre stagna per le vie lastricate,
offre una vista che tanto a fondo sotterra s'inabissa
quanto la profonda voragine del cielo si stende su dalla terra;
sì che ti pare di vedere laggiù le nuvole e scorgere il cielo,
corpi mirabilmente immersi sotterra nel cielo.
Ancora, quando l'ardente cavallo ci si è impuntato
in mezzo a un fiume e guardiamo laggiù,
nelle rapide onde della corrente, sembra che una forza trascini
di traverso il corpo del cavallo immoto e rapidamente lo sospinga
contro corrente e, ovunque volgiamo gli occhi,
ogni cosa sembra essere trascinata e fluire come noi.
Un portico, ancora, benché sia di tracciato uniforme
e stia da un capo all'altro sorretto su colonne uguali,
tuttavia, se vien guardato da un'estremità per tutta la lunghezza,
a poco a poco si contrae nel vertice di un cono angusto,
congiungendo il tetto al suolo e tutto il lato destro al sinistro,
finché li unisce nell'oscura punta di un cono.
In mare accade che ai naviganti il sole sembri sorgere
dalle onde e nelle onde scomparire e nascondere la luce;
ed è naturale, giacché nient'altro che acqua e cielo vedono;
perché tu non creda alla leggera che i sensi cadano in fallo da ogni lato.
E a coloro che non conoscono il mare, nel porto i navigli sembrano
storpiati, con gli aplustri infranti, resistere agli urti delle onde.
Giacché tutta la parte dei remi che sovrasta ai salsi flutti
è diritta, e diritti sono di sopra i timoni.
Le parti, invece, che immerse s'affondano nell'acqua, sembrano,
infrante, tutte rivolgersi e, rovesciate all'indietro, ritornare in su
e ritorte quasi fluttuare alla superficie dell'acqua.
E quando per il cielo i venti trasportano rade nuvole
nottetempo, allora gli spendidi astri sembrano
scorrere contro i nembi e andare nell'alto in una direzione
di gran lunga diversa da quella in cui procedono veramente.
E se per caso una mano, posta sotto un occhio, di sotto
lo preme, per una certa sensazione accade che tutte le cose
che guardiamo sembrino farsi allora doppie al guardarle,
doppie le luci delle lucerne che fioriscono di fiamme
e doppia per tutta la casa farsi la suppellettile
e duplici le facce degli uomini e doppi i corpi.
Ancora, quando il sonno ha avvinto le membra con soave
sopore, e il corpo giace tutto in somma quiete,
allora ci sembra tuttavia di vegliare e di muovere
le membra, e nella cieca caligine della notte
crediamo di vedere il sole e la luce del giorno,
e nella chiusa camera ci sembra di mutare cielo, mare, fiumi,
monti, e attraversare a piedi pianure,
e udire suoni mentre i severi silenzi della notte
perdurano ovunque, e scambiare parole, mentre taciamo.
Altre cose di questa specie, mirabilmente numerose, vediamo,
e tutte tendono quasi a fare scempio della fede nei sensi;
invano: perché la maggior parte di esse inganna
per le opinioni della mente che aggiungiamo noi stessi,
sì che cose non vedute dai sensi contano come vedute.
Infatti nulla è più malagevole che distinguere le cose manifeste
dalle cose incerte, che l'animo da sé senz'altro aggiunge.
Infine, se taluno crede che non si sappia nulla, anche questo
non sa se si possa sapere, giacché ammette di non sapere nulla.
Contro di lui dunque tralascerò di discutere,
perché da sé stesso si mette col capo al posto dei propri piedi.
E tuttavia voglio pure concedergli che sappia anche ciò;
ma gli domanderò soltanto: se nel mondo egli non ha prima veduto
mai nulla di vero, donde sa cosa sia sapere e, viceversa, non sapere?
Quale cosa ha prodotto il concetto di vero e di falso,
e quale cosa ha provato che l'incerto differisce dal certo?
Troverai che il concetto di vero è stato prodotto primamente
dai sensi e che i sensi non possono essere contraddetti.
Giacché maggiore credibilità dev'essere riconosciuta
a ciò che di per sé col vero possa confutare il falso.
Ma che cosa si deve giudicare maggiormente credibile
che il senso? Forse, nata da un senso fallace, la ragione
varrà ad oppugnare i sensi, essa che tutta da loro è nata?
Se quelli non son veritieri, anche la ragione diventa tutta falsa.
O potranno le orecchie correggere gli occhi, o il tatto
le orecchie? O, d'altronde, questo tatto sarà convinto d'errore
dal gusto della bocca, o lo confuteranno le nari, o gli occhi
lo smentiranno? Non è così, io penso. Giacché ogni senso
ha un potere specialmente distinto, ciascuno ha una facoltà
propria, e perciò è necessario percepire con un senso speciale
ciò che è molle e gelido o infocato, e con un senso speciale
i vari colori delle cose, e vedere quanto ai colori è congiunto.
Una speciale facoltà ha pure il gusto della bocca, per una via
speciale sorgono gli odori, per un'altra speciale i suoni. Si deve
perciò concludere che i sensi non possono confutarsi a vicenda.
E neanche potranno correggersi da sé,
poiché uguale fiducia si dovrà sempre ad essi accordare.
Quindi ciò che in ogni momento è a questi apparso, è vero.
E se non potrà la ragione discernere la causa per la quale
le cose che da presso erano quadrate, da lontano sembrano
rotonde, tuttavia è preferibile per difetto di ragionamento
spiegare erroneamente le cause dell'una e dell'altra figura,
anziché lasciarsi sfuggir via dalle mani cose manifeste
e far violenza alla fede prima e sconvolgere gl'interi
fondamenti su cui poggiano la vita e la salvezza.
Non solo, infatti, la ragione rovinerebbe tutta: anche la stessa
vita crollerebbe all'istante, se tu non osassi fidarti dei sensi
ed evitare i precipizi e tutte le altre cose di questa specie
che si devon fuggire, e seguire le cose che sono contrarie.
Concludi dunque che è un vano mucchio di parole tutto
quello che contro i sensi è stato messo insieme e approntato.
Ancora: come in una costruzione, se il regolo al principio
è storto, e se la squadra è fallace ed esce dalle linee dritte,
e la livella da qualche parte zoppica un pochino,
inevitabilmente tutto l'edificio riesce difettoso e piegato,
storto, cascante, inclinato in avanti, inclinato all'indietro
e disarmonico, sì che alcune parti sembra vogliano
già precipitare, e tutto precipita, tradito dalle prime misure
fallaci, così, dunque, il ragionare sulle cose deve riuscirti
storto e falso, qualora da falsi sensi sia nato.
Ora resta da spiegare in che modo gli altri sensi percepiscano
ciascuno il proprio oggetto, spiegazione per nulla difficile.
Anzitutto, suoni e voci d'ogni specie si odono quando,
insinuandosi nelle orecchie, hanno colpito il senso col loro corpo.
Bisogna infatti riconoscere che anche la voce e il suono
hanno natura ‹corporea›, giacché possono urtare i sensi.
D'altronde, la voce raschia spesso la gola
e il grido prorompendo inasprisce la trachea.
Giacché, quando gli elementi delle voci, lanciati in folla soverchia
per l'angusto passaggio, hanno cominciato a uscire, naturalmente,
riempita la gola, vien raschiata anche l'entrata della bocca.
Non è dubbio, dunque, che le voci e le parole constano
di elementi corporei, sì che possono produrre lesioni.
E parimenti non ti sfugge quanta parte di corpo porti via
e quanta parte tolga ai nervi e alle forze stesse degli uomini
un discorso continuo, fino all'ombra della nera notte
protratto dal sorgente splendore dell'aurora,
soprattutto se viene emesso con altissimo gridare.
Dunque la voce deve constare di elementi corporei,
giacché chi molto parla perde parte del corpo.
E l'asprezza della voce è prodotta dall'asprezza
dei primi elementi, e così la levigatezza viene dalla levigatezza.
Né primi elementi di forma simile penetrano le orecchie,
quando una tromba con basso murmure gravemente mugge
e col riecheggiare del suono produce barbara un rauco rimbombo,
e quando dell'Elicona
levano con lugubre voce un limpido lamento.
Queste voci, dunque, quando dal profondo del nostro corpo
le tiriamo e direttamente per la bocca le mandiamo fuori,
le articola la mobile lingua, artefice di parole,
e le foggia per parte sua la conformazione delle labbra.
Per questo, se non è lunga la distanza da cui ognuna
di quelle voci parte e arriva a noi, anche le stesse parole
si devono chiaramente udire e distinguere secondo le articolazioni:
ogni voce infatti conserva la disposizione e conserva la forma.
Ma, se lo spazio frapposto è troppo ampio, di necessità
le parole, attraversando molta aria, si confondono
e la voce si perturba nel volare attraverso i venti.
Così accade che tu possa sentire il suono, senza tuttavia
distinguere quale sia il senso di quelle parole:
a tal punto la voce arriva confusa e intralciata.
Inoltre, un'unica parola, emessa dalla bocca di un banditore,
spesso in un'assemblea percuote le orecchie di tutti i presenti.
In molte voci, dunque, un'unica voce d'un tratto si spande,
se è vero che arriva separata a tutte le singole orecchie,
imprimendo alle parole il suggello della forma e del chiaro suono.
Ma quella parte di voci che non cade nelle orecchie stesse,
passando oltre si perde, diffusa invano per l'aria.
Un'altra parte, urtando contro luoghi occupati da cose compatte,
è rimandata indietro e ci riporta il suono, e talora c'inganna
con l'eco d'una parola. Se discerni bene ciò, puoi spiegare
a te stesso e agli altri in che modo per luoghi solitari
le rocce rimandino uguali le forme delle parole, in ordine,
quando cerchiamo i compagni vaganti tra i monti ombrosi,
e li chiamiamo a gran voce, mentre sono sparsi qua e là.
Ho veduto luoghi rimandare anche sei o sette voci,
quando ne gettavi solo una: così i colli stessi, ai colli
rinviando le parole, rinnovavano l'eco di ciò che era stato detto.
In questi luoghi gli abitanti delle vicinanze s'immaginano
che risiedano i capripedi Satiri e le Ninfe, e dicono che ci sono
i Fauni, e affermano che dal loro strepito vagante nella notte
e dai loro giochi buffi son rotti spesso i taciturni silenzi,
e suoni di corde si levano, e dolci lamenti,
che effonde il flauto toccato dalle dita dei sonatori,
e la gente delle campagne per ampia distesa l'ode, quando Pan,
scotendo le fronde di pino che gli velano il capo semiferino,
con il labbro adunco spesso percorre le cave canne,
perché la zampogna non cessi d'effondere la silvestre armonia.
Ogni altro prodigio e portento di tale specie raccontano,
perché non si creda che risiedano in luoghi solitari, abbandonati
anche dagli dèi. Perciò vantano miracoli nei loro discorsi
o da qualche altra ragione vi sono indotti, dal momento
che tutto il genere umano è troppo avido di orecchie intente.
Quanto al resto, non c'è da stupire se per quegli stessi
luoghi attraverso cui gli occhi non possono vedere cose palesi,
le voci passano e giungono a colpire le orecchie.
Spesso vediamo svolgersi un colloquio anche attraverso
porte chiuse, senza dubbio perché la voce può passare incolume
per i sinuosi meati dei corpi, mentre i simulacri vi si rifiutano.
Infatti si lacerano, se non traversano meati diritti,
quali son quelli del vetro, per cui ogni immagine passa a volo.
Inoltre la voce si propaga in tutte le direzioni
perché le voci nascono le une dalle altre una volta che una,
levatasi, si è suddivisa in molte, come spesso una scintilla
di fuoco suole spandersi nelle sue particelle di fuoco.
Dunque s'empiono di voci luoghi nascosti allo sguardo e appartati,
che tutti intorno fervono e sono agitati dal suono.
Ma i simulacri procedono tutti per vie diritte,
una volta che sono stati emessi; perciò nessuno può vedere
oltre un recinto, mentre si possono percepire le voci di fuori.
E tuttavia questa voce, anch'essa, mentre passa per i muri
‹delle case›, s'affievolisce e nelle orecchie penetra confusa,
e a noi sembra di udire un suono piuttosto che parole.
Né la lingua e il palato, con cui sentiamo i sapori,
richiedono un po' più di ragionamento o maggiore fatica.
Anzitutto, sentiamo il sapore in bocca, quando spremiamo
il cibo masticando, come se uno cominci a comprimere
con la mano e a svuotare una spugna piena d'acqua.
Poi ciò che spremiamo fuori, si spande tutto per i condotti
del palato e per i sinuosi meati della lingua porosa.
Perciò, quando sono lisci gli atomi del succo che cola,
soavemente toccano e soavemente titillano tutte
le umide volte che s'inarcano sulla lingua, dintorno trasudanti.
Ma per contro, tanto più gli atomi pungono il senso
e con l'assalto lo lacerano, quanto più son pieni d'asperità.
E poi, piacere nasce dal succo entro i confini del palato;
ma, quando giù per le fauci è precipitato,
non v'è alcun piacere, mentre si spande tutto nelle membra.
Né importa alcunché con quale vitto il corpo sia nutrito,
purché ciò che ingerisci tu possa digerirlo e spanderlo
nelle membra e conservare nello stomaco un'umidità costante.


LIBRO IV (2)

Ora darò una spiegazione che ci faccia capire perché il cibo
sia diverso per diversi esseri, e per che ragione ciò che per gli uni
è disgustoso e amaro, possa tuttavia parere dolcissimo ad altri.
E così grandi sono ‹in› tale riguardo la distanza e la discordanza
che ciò che per uno è cibo, per altri è violento veleno.
‹C'è, per esempio,› un serpente che, toccato da saliva d'uomo,
perisce, distruggendosi da sé, coi propri morsi.
Inoltre, per noi l'elleboro è violento veleno,
ma alle capre e alle quaglie accresce l'adipe.
Perché tu possa conoscere per quali cause avvenga questo,
anzitutto conviene ricordare ciò che abbiamo detto prima,
cioè che i semi contenuti nelle cose sono misti in vari modi.
D'altro canto, tutti gli esseri animati che ingeriscono cibo,
come sono dissimili esternamente e come, secondo le specie,
è diverso l'esterno contorno delle membra che li racchiude,
così sono anche composti di semi con forme differenti.
E poiché sono differenti i semi, devono differire
gl'intervalli e i canali, che chiamiamo meati,
in tutte le membra e nella bocca e nello stesso palato.
Più piccoli devono dunque essere alcuni, più grandi altri;
per alcune specie devono essere triangolari, per altre quadrati,
molti rotondi, alcuni con molti angoli disposti in molti modi.
Infatti, come esigono la combinazione delle forme
e i movimenti, così devono differire le forme dei meati
e variare i canali secondo il tessuto che li racchiude.
Per questo, quando ciò che è dolce per gli uni, agli altri
diventa amaro, a quello per cui è dolce atomi sommamente
lisci devono carezzevolmente entrare nei condotti del palato,
mentre, d'altronde, a quelli cui la stessa cosa è dentro acerba,
certo atomi ruvidi e uncinati penetrano le fauci.
Ora è facile in base a questi fatti intendere ogni cosa.
Così, quando qualcuno è stato assalito dalla febbre
per eccesso di bile, o da un'altra causa è stata suscitata
qualche violenza di malattia, allora l'intero corpo è turbato,
allora tutte sono alterate le positure degli atomi;
avviene che corpi che prima si confacevano al senso,
ora non si confacciano, e siano più congrui altri,
che posson penetrare e produrre una sensazione acerba.
Ambedue le specie sono infatti commiste nel sapore del miele;
ciò che già sopra ti abbiamo dimostrato spesso prima d'ora.
E ora dirò come l'odore s'accosti e tocchi le nari.
Anzitutto, devono esserci molte cose
da cui fluendo si svolge il vario flutto degli odori,
e bisogna credere che ovunque fluisca e si lanci e si sparga;
ma ad alcuni esseri viventi è più congruo un odore, ad altri
un altro, per la diversità delle forme. E così attraverso l'aria
le api sono attirate dall'odore del miele, benché sia lontano,
e gli avvoltoi dai cadaveri. E ovunque il biforcuto zoccolo
delle bestie selvagge abbia volto il passo, l'impeto dei cani
sguinzagliati ci conduce; e di lontano l'odore dell'uomo è colto
col fiuto dalla candida oca, salvatrice della rocca dei figli di Romolo.
Così i vari odori assegnati ai vari corpi conducono ognuno
al proprio cibo e lo costringono a tirarsi indietro per fuggire
il repellente veleno, e in tal modo si conservano le specie delle fiere.
Di questi stessi odori, dunque, che stimolano le nostre nari,
taluno può propagarsi più lontano di un altro;
ma tuttavia nessun odore va tanto lontano quanto il suono,
quanto la voce, e tralascio di dire: quanto i corpi
che feriscono le pupille e provocano il vedere.
Vagando, infatti, l'odore viene lentamente e svanisce troppo presto,
inconsistente dissolvendosi a poco a poco tra i venti;
prima, perché, venendo dal profondo, è emesso a stento dalla cosa:
infatti, che gli odori fluiscano e si stacchino dall'interno delle cose,
lo dimostra il fatto che da tutte le cose il profumo ci giunge
più forte quando esse sono spezzate, quando sono triturate,
quando sono sciolte dal fuoco; e poi, si può vedere che l'odore
è composto di elementi più grandi che quelli della voce, poiché non penetra
attraverso le pareti di pietra, per cui la voce e il suono comunemente passano.
Per questo anche vedrai che non è tanto facile scoprire
in quale luogo sia posto l'oggetto che manda odore.
Si raffredda infatti l'impulso indugiando per l'aria,
né al senso accorrono caldi i messaggi dei corpi.
Perciò i cani spesso errano e vanno in cerca delle tracce.
Né tuttavia ciò avviene soltanto per gli odori
e i sapori, ma ugualmente gli aspetti e i colori delle cose
non si confanno tutti ai sensi di tutti,
sì che alcuni non siano troppo aspri alla vista di certuni.
Anzi, al gallo, che suole, sbattendo le ali per cacciar via
la notte, chiamare l'aurora con voce squillante,
i rabbiosi leoni non possono stare di fronte
e fissarlo: tanto pensano immediatamente a fuggire,
senza dubbio perché nel corpo dei galli ci sono certi
semi, che, quando sono spinti dentro gli occhi dei leoni,
trafiggono le pupille e provocano un dolore acuto,
sì che questi, malgrado la ferocia, non possono resistervi;
mentre tuttavia tali semi non possono ledere in nulla le nostre
pupille, o perché non vi penetrano o perché, pur penetrandovi,
è data ad essi una libera uscita dagli occhi, sì che non possono,
nel trattenervisi, ledere in alcuna parte la vista.
Ora ascolta, suvvia, quali cose muovano l'animo e apprendi
in poche parole donde vengano le cose che vengono nella mente.
Anzitutto questo io dico, che molti simulacri di cose
in molti modi vagano da ogni parte in tutte le direzioni,
e son sottili, e facilmente si congiungono tra loro nell'aria,
quando s'incontrano, come ragnatele e foglie d'oro.
E infatti questi simulacri sono di tessuto molto più sottile,
in confronto a quelli che occupano gli occhi e provocano il vedere,
poiché questi penetrano per i pori del corpo e dentro destano
la sottile natura dell'animo e ne provocano la sensibilità.
E così vediamo Centauri e membra di Scille
e canine facce di Cerberi e i simulacri di coloro
che sono morti e di cui la terra abbraccia le ossa;
poiché simulacri d'ogni genere si muovono in ogni dove,
e parte nascono spontaneamente nell'aria stessa,
parte son quelli che in qualche modo si staccano dalle varie cose
e quelli che son fatti dal comporsi delle figure di questi.
Ché certo non viene da cosa viva l'immagine del Centauro,
poiché non è mai esistita la natura d'un tale essere vivente,
ma, quando le immagini d'un cavallo e d'un uomo per caso
s'incontrano, sùbito facilmente aderiscono, come abbiamo detto
prima, per la loro sottile natura e il tenue tessuto.
Tutte le altre cose di questo genere si producono allo stesso modo.
E quando si muovono rapidamente con somma levità,
come prima ho mostrato, facilmente con un solo colpo
una qualsiasi sottile immagine commuove l'animo nostro;
tenue infatti è la mente e mirabilmente mobile anch'essa.
Che queste cose avvengano come dico, facilmente puoi conoscere
da questo: dal momento che l'uno è simile all'altro, ciò che vediamo
con la mente e ciò che vediamo con gli occhi, in simile modo
devono avvenire. Ora, dunque, poiché ho chiarito che io vedo,
ad esempio, un leone mediante simulacri, quelli che colpiscono
gli occhi, si può intendere che la mente in modo simile è mossa
mediante simulacri di leoni ‹e› di tutte le altre cose che vede,
né più, né meno che gli occhi, ma distingue simulacri più tenui.
E, quando il sonno ha rilassato le membra, la facoltà intellettiva
dell'animo resta sveglia solo perché ci colpiscono
l'animo questi medesimi simulacri della veglia,
a tal grado che effettivamente crediamo di vedere colui
che, lasciata la vita, è ormai preda della morte e della terra.
Perciò la natura fa avvenire questo, perché tutti
i sensi del corpo ottusi riposano nelle membra,
né possono confutare il falso col vero.
Inoltre la memoria è inattiva e langue in sopore,
né discorda obiettando che è morto e trapassato
già da tempo colui che la mente crede di veder vivo.
Quanto al resto, non è sorprendente che i simulacri si muovano
e in cadenza agitino le braccia e le altre membra.
Infatti accade che nei sogni l'immagine sembri far questo,
giacché, quando la prima è sparita e quindi un'altra è nata
in altra positura, sembra allora che la prima abbia mutato gesto.
Senza dubbio si deve pensare che ciò avvenga in modo celere:
tanta è la mobilità, tanta la moltitudine delle immagini,
e tanta è l'abbondanza delle particelle in un qualunque
minimo tempo percettibile, che può bastare all'effetto.
E a questo proposito molte domande si pongono e molti fatti
dobbiamo chiarire, se vogliamo esporre appieno le cose.
Si chiede anzitutto perché, quando a chiunque sia venuto
il capriccio di pensar qualcosa, sùbito la mente pensi proprio quella.
Forse i simulacri sono attenti al nostro volere
e, appena noi vogliamo, accorre a noi l'immagine,
se il mare, se la terra ci sta a cuore, o infine il cielo?
Radunanze d'uomini, una processione, conviti, battaglie,
ogni cosa la natura crea e appronta a una nostra parola?
E questo benché, nella stessa regione e nello stesso luogo,
la mente d'altri pensi ogni sorta di cose molto dissimili.
Che dire poi, quando in sogno vediamo simulacri avanzare
ritmicamente e muovere le flessibili membra,
quando alternamente slanciano celeri le flessibili braccia
e ripetono il gesto col piede che s'accorda agli occhi?
Certo sono imbevuti d'arte i simulacri e addestrati vagano,
sì che possono offrire rappresentazioni nelle ore notturne.
O non sarà piuttosto vero ciò? Poiché in un singolo momento
in cui sentiamo, cioè in cui viene emessa una singola voce,
si celano molti momenti, che la ragione scopre esistenti,
perciò accade che in qualsiasi momento simulacri d'ogni tipo
siano a disposizione e pronti in tutti i vari luoghi:
tanta è la mobilità, tanta la moltitudine delle immagini.
Perciò, quando la prima è morta e quindi un'altra è nata
in altra positura, pare allora che la prima abbia mutato gesto.
E poiché sono sottili, l'animo non può discernere distinte
se non quelle che cerca di cogliere; quindi tutte quelle che ci sono
oltre ad esse, vanno perdute, tranne quelle cui l'animo s'è preparato.
Esso, d'altra parte, si prepara e s'aspetta che gli accada di vedere
ciò che segue a ogni positura dell'immagine; quindi ciò avviene.
Non vedi che anche gli occhi, quando s'accingono a scorgere
cose che sono sottili, si tendono con sforzo e si preparano,
né senza ciò può accadere che discerniamo distintamente?
E tuttavia, anche nel caso di cose manifeste, puoi osservare
che, se non volgi ad esse la mente, è come se tutto
il tempo la cosa fosse distante e di gran lunga remota.
Perché, dunque, meravigliarsi, se l'animo perde tutte
le altre cose, tranne quelle alle quali esso è intento?
E poi da piccoli segni procediamo alle congetture più vaste
e ci irretiamo noi stessi nell'inganno che ci illude.
Accade anche talora che non sussegua un'immagine
dello stesso genere, ma quella che prima era una donna,
sembri starci accanto divenuta uomo sotto i nostri occhi,
oppure si seguano facce ed età differenti.
Ma il sonno e l'oblio fanno sì che non ce ne stupiamo.
A tale proposito desideriamo vivamente che tu fugga
un vizioso ragionamento, e con grande cautela eviti l'errore
di credere che il chiaro lume degli occhi sia stato creato
affinché possiamo vedere, e che le estremità delle gambe
e delle cosce fondate sui piedi possano piegarsi per questo,
affinché siamo in grado di avanzare a lunghi passi,
e ancora, che gli avambracci siano attaccati alle forti braccia
e ci siano state date le mani per servirci ‹dall'›una e l'altra parte,
affinché possiamo fare ciò che abbisogna per la vita.
Tutte le interpretazioni di questo genere
mettono il prima al posto del dopo con ragionare stravolto,
poiché nessuna cosa è nata nel corpo per questo,
affinché potessimo usarne, ma ciò che è nato crea esso l'uso.
Né esistette la vista prima che nascessero gli occhi,
né il dire con parole prima che la lingua fosse creata,
ma piuttosto la nascita della lingua precedette di molto
la favella, e le orecchie furono create molto prima
che si udisse il suono, e, in breve, tutte le membra
esistettero, io credo, prima che esistesse il loro uso.
Non poterono quindi crescere per il fine dell'uso.
Ma, al contrario, venire alle mani nella zuffa della battaglia
e lacerar membra e insozzare di sangue il corpo
furono molto prima che volassero i lucidi dardi,
e la natura costrinse a evitare la ferita prima che il braccio
sinistro opponesse la difesa dello scudo foggiato dall'arte.
E senza dubbio l'abbandonare al riposo il corpo stanco
è molto più antico che il letto dai morbidi materassi,
e il placare la sete nacque prima delle coppe.
Si può dunque credere che siano state inventate per l'uso
queste cose che sono state scoperte secondo i bisogni della vita.
Ma stanno a parte tutte quelle cose che, nate prima
esse stesse, dettero poi la nozione della loro utilità.
Di tale genere vediamo anzitutto i sensi e le membra;
quindi, ancora e ancora, non ti è possibile credere
che abbiano potuto esser creati per adempiere l'utile funzione.
Di questo, ugualmente, non ci si deve stupire, che il corpo
d'ogni vivente cerca il cibo per impulso della propria natura.
E infatti ho insegnato che molti corpi fluiscono via e si staccano
dalle cose in molti modi, ma più numerosi se ne devono staccare
dagli animali. Poiché ‹questi› sono travagliati dal movimento,
e molti corpi vanno via col sudore, spremuti dal profondo,
molti sono esalati per la bocca, quando essi infiacchiti anelano,
per tali motivi, dunque, si dirada il corpo e si strema
tutta la loro natura; e a ciò segue il dolore.
Perciò si prende il cibo, affinché sorregga le membra
e distribuito ricrei le forze, e per membra
e per vene sazi l'avido desiderio di nutrimento.
Ugualmente l'umore si spande in tutte quelle parti
che richiedono umore; e i molti corpi di calore raccolti,
che nel nostro stomaco producono un incendio,
li dissipa al suo arrivo il liquido e li spegne come fuoco,
affinché l'arido calore non possa più ardere le membra.
Così dunque, vedi, la sete anelante si deterge
dal nostro corpo, così si appaga l'affamata brama.
Ora dirò come avviene che possiamo avanzare coi nostri passi
quando vogliamo, e che ci sia dato muover le membra in vari modi,
e quale forza sia solita spingere innanzi questo gran peso
del nostro corpo: tu ascolta attentamente le mie parole.
Dico che dapprima simulacri di movimento giungono
al nostro animo e lo impressionano, come abbiamo già detto.
Quindi nasce il volere; e infatti nessuno comincia a fare
qualcosa prima ‹che› la mente preveda quello che vuole fare.
E di quello che essa prevede, esiste un'immagine.
Dunque, quando l'animo si muove sì che vuole andare
e procedere, sùbito sprona la forza dell'anima
che è disseminata in tutto il corpo per membra e giunture;
e ciò è facile a farsi, poiché all'animo è strettamente congiunta.
Poi essa sprona a sua volta il corpo, e così tutta
la massa a poco a poco è spinta innanzi e si muove.
Inoltre, allora si dirada anche il corpo, e l'aria
(come naturalmente deve, giacché sempre è di mobile natura)
arriva attraverso le aperture e penetra nei fori in abbondanza,
e così si sparge qua e là, fino a tutte le parti minute
del corpo. Allora, dunque, avviene che il corpo sia mosso
da due cause, operanti da una parte e dall'altra, come una nave
spinta dai remi e dal vento. Né tuttavia in ciò fa meraviglia
che corpuscoli tanto piccoli possano dirigere un corpo
tanto grande e voltare attorno tutto il nostro peso.
E infatti il vento, tenue per la sottile sua materia,
muove e spinge una grande nave di grande massa,
e un'unica mano la guida, con qualunque rapidità proceda,
e un unico timone la dirige ovunque piaccia;
e per mezzo di carrucole e di ruote una macchina sposta
e solleva molte cose di grande peso con uno sforzo lieve.
In quali modi il sonno diffonda la quiete per le membra
e sciolga dal petto le inquietudini dell'animo,
ora esporrò in versi soavi piuttosto che numerosi;
così il breve canto del cigno è migliore di quel clamore
delle gru disperso tra le eteree nubi dell'austro.
Tu prestami fini orecchie e animo sagace,
affinché non neghi che possa avvenire ciò che dico
e non ti scosti da me con petto che respinge e scaccia le parole
veritiere, mentre proprio tu sei in errore e non riesci a discernere.
Anzitutto, il sonno si produce quando la forza dell'anima
è dispersa per le membra, e una parte, scacciata fuori, è andata via,
un'altra, stipata dentro, si è ritratta più nel profondo.
Infatti, proprio allora le membra si rilassano e sono cascanti.
Giacché non v'è dubbio che per opera dell'anima esiste
in noi questo senso; quando il sonno gl'impedisce di esistere,
dobbiamo credere che allora l'anima sia stata perturbata
e scacciata fuori; tuttavia, non tutta: altrimenti il corpo
giacerebbe penetrato dall'eterno freddo della morte.
E infatti, se nessuna parte dell'anima rimanesse celata
nelle membra, come si cela il fuoco sepolto sotto molta cenere,
donde potrebbe il senso riaccendersi d'un tratto nelle membra,
come da fuoco invisibile può risorgere la fiamma?
Ma spiegherò per quali fattori si produca questo nuovo stato
e per quale causa possa perturbarsi l'anima e languire il corpo:
tu fa' che io non disperda ai venti le parole.
Anzitutto, è inevitabile che dalla parte esterna il corpo,
poiché da vicino è toccato dai soffi dell'aria,
venga urtato e picchiato dai frequenti colpi di questa;
e perciò quasi tutti i corpi sono coperti o di cuoio
o anche di conchiglie o di callo o di scorza.
Anche la parte interna degli esseri che respirano è sferzata
da questa stessa aria, quando viene inspirata ed espirata.
Perciò, essendo il corpo battuto da entrambi i lati
ed arrivando i colpi, attraverso i piccoli pori,
fino alle prime parti e agli elementi primi del nostro corpo,
avviene a poco a poco in noi per le membra quasi un crollo.
Si sconvolgono infatti le positure degli atomi
del corpo e dell'animo. Avviene quindi che una parte dell'anima
sia scacciata fuori e una parte si ritragga e si celi nell'interno,
un'altra parte, dispersa per le membra, non possa restare
in sé connessa, né scambiare movimenti;
la natura infatti impedisce gli incontri e sbarra le vie;
così, mutati i movimenti, il senso si ritira nel profondo.
E poiché non v'è nulla che quasi sorregga le giunture,
diventa debole il corpo e languiscono tutte le membra,
cadono le braccia e le palpebre, e i ginocchi,
anche se si è coricati, spesso si piegano e rilassano le loro forze.
Ancora, il sonno segue al pasto, perché i medesimi effetti
dell'aria li produce anche il cibo, mentre in tutte le vene
si diffonde. E molto più di ogni altro è pesante quel sopore
che ti prende se sei sazio o stanco, perché più numerosi
elementi allora si sconvolgono, travagliati dal grande sforzo.
Parimenti avvengono un più profondo stiparsi di parte dell'anima
e una più larga espulsione di un'altra parte all'esterno,
mentre all'interno essa è in sé stessa più divisa e dispersa.
E l'attività alla quale ognuno di solito è attaccato e attende,
o gli oggetti sui quali molto ci siamo prima intrattenuti
e nell'occuparsi dei quali è stata più intenta la mente,
in questi stessi per lo più nei sogni ci pare d'essere impegnati:
gli avvocati credono di perorare cause e confrontare leggi,
i generali di combattere e di impegnarsi nella battaglia,
i naviganti di sostenere la lotta ingaggiata coi venti,
e noi di compiere quest'opera e d'investigare sempre la natura
e scoprirla ed esporla in pagine scritte nella lingua dei padri.
Così tutte le altre attività e arti per lo più paiono nei sogni
tenere prigionieri di fallaci immagini gli animi degli uomini.
E chiunque per molti giorni continuamente fu presente
e attento agli spettacoli, per lo più vediamo
che, quando ha ormai cessato di percepirli coi sensi,
conserva tuttavia aperte nella sua mente altre vie,
per le quali possono entrare i medesimi simulacri.
E così per molti giorni quelle stesse immagini si presentano
davanti ai suoi occhi, sì che anche da sveglio crede
di veder persone che danzano e muovono le flessibili membra,
e di percepire con le orecchie il limpido canto della cetra
e la voce delle corde, e di vedere gli stessi spettatori
e, insieme, lo splendere dei vari ornamenti della scena.
Tanto grande è l'importanza della passione e del piacere
e delle occupazioni consuete,
non solo per gli uomini, ma anche per tutti gli animali.
Vedrai infatti forti cavalli, le cui membra giaceranno distese,
tuttavia irrorarsi di sudore nel sonno e ansar senza posa
e tender le forze all'estremo, quasi fossero in gara per la vittoria,
o le sbarre fossero state aperte † ...... †
E spesso i cani dei cacciatori, pur mollemente addormentati,
tuttavia dimenano d'improvviso le zampe e emettono d'un tratto
latrati e aspirano frequentemente con le nari l'aria,
come se avessero scoperto tracce di fiere e le seguissero;
e spesso, essendosi svegliati, inseguono vane
immagini di cervi, quasiché li vedessero lanciati nella fuga,
finché, dissipati gli errori, ritornano in sé.
Ma la carezzevole prole dei cuccioli, avvezza a vita domestica,
in fretta scuote via e solleva da terra il corpo,
quasiché vedesse figure e facce ignote.
E quanto più una razza è feroce,
tanto più nel sonno essa deve infuriare.
Ma i variopinti uccelli fuggon via e, sbattendo le ali,
d'un tratto turbano durante la notte i boschi sacri,
se nel dolce sonno sembrò loro di vedere sparvieri
dare battaglia e far zuffa perseguitandoli a volo.
Inoltre le menti degli uomini, che con grandi movimenti producono
grandi cose, spesso nei sogni le fanno e le svolgono parimenti:
i re espugnano, son fatti prigionieri, si gettano nella mischia,
emettono grida come se fossero scannati in quel punto stesso.
Molti lottano all'ultimo sangue e mandano gemiti di dolore
e, come se fossero dilaniati dai morsi d'una pantera
o d'un feroce leone, riempiono tutto di grandi grida.
Molti nel sonno parlano di cose gravi,
e così parecchi denunziarono proprie colpe.
Molti affrontano la morte. Molti, come se da alti monti
precipitassero a terra con tutto il peso del corpo,
sono sconvolti dalla paura e, destandosi, come mentecatti
a stento tornano in sé, perturbati dal rimescolìo del corpo.
Similmente, un assetato si siede presso un corso d'acqua
o un'amena sorgente e con le fauci ingoia quasi tutto il fiume.
Spesso persone pudiche, se avvinte dal sonno credono
di sollevare la veste davanti a una latrina o a un vaso da notte,
spandono il liquido filtrato attraverso tutto il corpo, e le coperte
babilonesi, dal magnifico splendore, ne sono bagnate.
E a quelli cui pei canali adolescenti la prima volta s'insinua
il seme, quel giorno stesso della maturazione che l'ha prodotto
nelle membra, arrivano di fuori simulacri emessi da vari corpi,
nunzi di uno splendido volto e di un bel colorito,
che stimola ed eccita le parti turgide di molto seme,
sì che spesso, come se tutto avessero compiuto, spandono
larghi fiotti di liquido e imbrattano la veste.
Si agita ‹in› noi questo seme, di cui ho parlato prima,
appena l'adolescenza rafforza le membra.
Giacché diverse cause eccitano e provocano diversi oggetti:
dall'uomo, solo l'attrattiva dell'uomo fa scaturire il seme umano.
E appena questo, emesso dalle sue sedi, esce,
attraverso le membra e le giunture si ritira da tutto il corpo,
raccogliendosi in determinate regioni nervose,
e immediatamente eccita proprio gli organi genitali.
Le parti stimolate inturgidiscono di seme e nasce la voglia
di emetterlo là verso dove è protesa la furente brama,
e il corpo cerca quello da cui la mente è ferita d'amore.
Giacché tutti solitamente cadono sulla ferita, e il sangue
spiccia in quella direzione da cui è giunto il colpo
e, se il nemico è vicino, il rosso liquido lo copre.
Così, dunque, chi riceve i colpi dai dardi di Venere,
lo trafigga un fanciullo di membra femminee
o una donna che da tutto il corpo irraggi amore,
tende verso là donde è ferito, e anela a congiungersi,
e in quel corpo spandere l'umore tratto dal corpo.
Ché il muto desiderio presagisce il piacere.
Questa è Venere per noi; e di qui viene il nome di amore,
di qui quella goccia della dolcezza di Venere stillò
prima nel cuore, e le susseguì il gelido affanno.
Infatti, se è assente l'oggetto del tuo amore, son tuttavia presenti
le sue immagini, e il dolce nome non abbandona le tue orecchie.
Ma conviene fuggire quelle immagini e respingere via da sé
ciò che alimenta l'amore e volgere la mente ad altro oggetto
e spandere in altri corpi, quali che siano, l'umore raccolto,
e non trattenerlo essendo rivolto una volta per sempre all'amore
d'una persona sola, e così riservare a sé stesso affanno e sicuro dolore.
Giacché la piaga s'inacerbisce e incancrenisce, a nutrirla,
e di giorno in giorno la follia aumenta e la sofferenza s'aggrava,
se non scacci con nuove piaghe le prime ferite, e non le curi
vagando con Venere vagabonda mentre sono ancora fresche,
o trovi modo di rivolgere altrove i moti dell'animo.
Né dei frutti di Venere è privo colui che evita l'amore,
ma piuttosto coglie le gioie che sono senza pena.
Giacché certo agli assennati ne viene un piacere più puro
che ai malati d'amore. Infatti nel momento stesso del possedere
fluttua ed erra incerto l'ardore degli amanti, né sanno
che cosa debbano prima godere con gli occhi e le mani.
Quel che hanno desiderato, lo premono strettamente, e fanno
male al corpo, e spesso infiggono i denti nelle labbra,
e urtano bocca con bocca nei baci, perché non è puro il piacere
e assilli occulti li stimolano a ferire l'oggetto stesso,
quale che sia, da cui sorgono quei germi di furore.
Ma lievemente attenua le pene Venere nell'atto di amore
e il carezzevole piacere, commisto, raffrena i morsi.
Giacché in ciò è la speranza: che dallo stesso corpo
da cui è nato l'ardore, possa anche essere estinta la fiamma.
Ma la natura oppone che ciò avviene tutto al contrario;
e questa è l'unica cosa per cui, quanto più ne possediamo,
tanto più il petto riarde d'una crudele brama.
Difatti cibo e bevanda sono assorbiti dentro le membra;
e poiché possono occupare determinate parti,
perciò la sete e la fame si saziano facilmente.
Ma di una faccia umana e di un bel colorito nulla, di cui
si possa godere, penetra nel corpo, tranne tenui simulacri,
che spesso trascinano la mente con una misera speranza.
Come quando in sogno un assetato cerca di bere e non gli è data
bevanda che nelle membra possa estinguere l'arsura,
ma a simulacri di acque aspira e invano si travaglia
e in mezzo a un fiume impetuoso bevendo patisce la sete,
così in amore Venere con simulacri illude gli amanti,
né possono saziare i propri corpi contemplando corpi pur vicini,
né sono in grado di strappar via qualcosa dalle tenere membra
con le mani errando incerti su per tutto il corpo.
E quando, alfine, congiunte le membra, si godono il fiore
di giovinezza, quando il corpo già presagisce il piacere,
e Venere è sul punto di effondere il seme nel femmineo campo,
s'avvinghiano avidamente al corpo e mischiano le salive
bocca a bocca, e ansano, premendo coi denti le labbra;
ma invano; perché non possono strapparne nulla,
né penetrare e perdersi nell'altro corpo con tutto il corpo;
infatti sembra talora che vogliano farlo e che per questo lottino:
tanto ardentemente si tengono avvinti nelle strette di Venere,
finché le membra si sciolgono, sfinite dalla forza del piacere.
Infine, quando il desiderio costretto nei nervi ha trovato sfogo,
segue una piccola pausa dell'ardore violento, per poco.
Quindi torna la stessa rabbia, e di nuovo li invade quel furore,
quando essi stessi non sanno ciò che bramano ottenere,
né sono in grado di trovare che mezzo possa vincere quel male:
in tanta incertezza si consumano per una piaga nascosta.
Aggiungi che sciupano le forze e si struggono nel travaglio;
aggiungi che si trascorre la vita al cenno di un'altra persona.
Son trascurati i doveri, e ne soffre il buon nome e vacilla.
Frattanto il patrimonio si dilegua, e si converte in profumi
babilonesi, e bei sandali di Sicione ai piedi ridono,
s'intende, e grandi smeraldi con la verde luce
sono incastonati nell'oro, e la veste color di mare è consunta
assiduamente, e maltrattata beve il sudore di Venere;
e i beni ben guadagnati dai padri diventano bende, diademi,
talora si cangiano in un mantello femminile e in tessuti di Alinda e di Ceo.
S'apparecchiano conviti con splendide tovaglie e vivande,
giochi, coppe senza risparmio, unguenti, corone, serti,
ma invano, perché di mezzo alla fonte delle delizie
sorge qualcosa di amaro che pur tra i fiori angoscia,
o quando per caso l'animo conscio s'angustia per il rimorso
d'una vita trascorsa nell'inerzia e perduta nelle orge,
o perché lei ha lanciato, lasciandone in dubbio il senso, una parola,
che confitta nel cuore appassionato divampa come fuoco,
o perché gli sembra che troppo lei occhieggi o che il suo sguardo
sia attratto da un altro, e nel suo volto vede le tracce d'un sorriso.
E questi mali si trovano in un amore che dura ed è felice
al più alto grado; ma, se è infelice e senza speranza, ci sono
mali che puoi cogliere anche ad occhi chiusi,
innumerevoli; sì che è meglio stare prima all'erta,
come ho insegnato, e guardarsi dall'essere adescati.
Difatti evitare di cadere nei lacci d'amore
non è così difficile come districarsi, una volta presi
in mezzo alle reti, e forzare i possenti nodi di Venere.
E tuttavia, anche avviluppato e inceppato, potresti sfuggire
all'insidia, se proprio tu non opponessi ostacoli a te stesso,
e non ti celassi in primo luogo tutti i difetti dell'animo
o quelli del corpo di colei che prediligi e desideri.
Questo infatti fanno per lo più gli uomini ciechi di passione,
e attribuiscono alle amate pregi ch'esse non posseggono davvero.
Così vediamo che donne in molti modi deformi e laide
sono adorate e godono del più alto onore.
E poi s'irridono a vicenda, e l'uno invita l'altro a placare
Venere, perché lo affligge un brutto amore, e spesso
non scorge, l'infelice, i propri mali, che sono i più grandi.
La nera "ha il colore del miele", la sudicia e fetida è "disadorna",
se ha occhi verdastri è "l'immagine di Pallade", se è nervosa e secca è "una gazzella",
la piccoletta, la nanerottola, è "una delle Grazie", è "tutta puro sale",
la corpulenta e smisurata è "un prodigio" ed è "piena di maestà".
La balbuziente, che non può parlare, "cinguetta", la muta è "pudica";
e l'irruente, odiosa, linguacciuta è "tutta fuoco".
Diventa "un sottile amorino", quando non può vivere
per la consunzione; se poi è già morta di tosse, è "delicata".
E la turgida e popputa è "Cerere stessa dopo aver partorito Bacco",
la camusa è "una Silena" e "una Satira", la labbrona è "un bacio".
Troppo mi dilungherei, se tentassi di dire tutte le altre cose
di questa specie. Ma tuttavia sia pure bella in volto quanto vuoi,
sia tale che da tutte le sue membra promani il potere di Venere:
certo ce ne sono anche altre; certo senza di lei siamo vissuti per l'addietro,
certo ella fa in tutto, e noi sappiamo che le fa, le stesse cose
che fa la brutta, e da sé stessa, misera, s'appesta di odori nauseanti:
fuggono allora le ancelle lontano da lei e furtivamente sghignazzano.
Ma l'amante escluso, piangendo, spesso copre di fiori
e ghirlande la soglia, e profuma di maggiorana
la porta superba, e addolorato imprime baci sui battenti;
ma se, alfine ricevuto, lo investisse nell'entrare una sola
di quelle esalazioni, cercherebbe speciosi pretesti per andar via,
e cadrebbe il lamento, a lungo meditato, ripreso da lontano,
e in quel punto egli si taccerebbe di stoltezza, perché vedrebbe
d'avere attribuito a lei più di quanto conviene concedere a una mortale.
Né questo sfugge alle nostre Veneri; perciò tanto più esse celano
con la massima cura tutti i retroscena della vita a costoro
che vogliono tenere saldamente avvinti nei vincoli d'amore,
ma invano, perché tu con la mente hai pur sempre il potere di trarli
tutti alla luce e di scrutare tutto ciò che può essere oggetto di riso,
e, se lei è di animo amabile e non è odiosa, a tua volta
puoi lasciar correre ‹e› perdonare all'umana limitatezza.
Né sempre di finto amore sospira la donna, quando,
abbracciando il corpo dell'amante, col proprio corpo lo congiunge,
e lo tiene avvinto, dando umidi baci sulle labbra che sugge.
Difatti spesso lo fa di cuore e, cercando condivisi
piaceri, lo stimola a raggiungere la meta dell'amore.
Non potrebbero altrimenti gli uccelli, gli armenti
e le fiere e le greggi e le cavalle sottomettersi ai maschi,
se la stessa natura loro non entrasse in calore, non ardesse traboccando
e non rispondesse con gioia alla Venere di quelli che dan loro l'assalto.
Non vedi anche come quelli che vicendevole piacere
ha avvinti, spesso nei legami comuni si travagliano?
Quanto spesso nei trivi i cani, anelando a distaccarsi,
bramosamente tirano con tutte le forze in direzioni opposte,
mentre restano tuttavia stretti nei possenti lacci di Venere!
Questo non lo farebbero mai, se non conoscessero mutui piaceri,
capaci di farli cadere nella rete e tenerli avvinti.
Dunque, ancora e ancora, come dico, il piacere è condiviso.
E quando, nel frammischiarsi dei semi, per avventura
la femmina con sùbita forza ha vinto e travolto la forza del maschio,
allora i figli nascono simili alle madri per effetto del seme materno,
come ai padri per il seme paterno. Ma quelli che vedi
partecipi d'ambedue gli aspetti, mescolare, l'uno accosto all'altro,
i volti dei genitori, crescono dal corpo paterno e dal sangue materno,
quando il concorde, mutuo ardore ha spinto a incontrarsi
i semi eccitati per le membra dagli stimoli di Venere,
e nessuno dei due ha vinto, né è stato vinto.
Avviene anche talora che possano nascere figli simili agli avi,
e spesso riproducano gli aspetti dei bisavoli,
perché spesso i genitori celano nel proprio corpo
molti principi mescolati in molti modi, che, provenienti
dal ceppo originario, son trasmessi da padri ad altri padri:
così Venere con varia sorte forma gli aspetti
e riproduce i volti e le voci e i capelli degli antenati;
giacché questi sono creati in noi ‹da› semi determinati,
non meno che le facce e i corpi e le membra.
E figlie femmine sorgono dal seme paterno
e maschi nascono plasmati dal corpo materno.
Sempre infatti il parto è prodotto da duplice seme,
e quello dei due cui più rassomiglia chi vien procreato,
è lui che ha dato la parte più grande; come puoi scorgere,
si tratti di maschio rampollo o di prole femminile.
Né divine potenze rifiutano ad alcuno il seme generativo,
perché non venga mai chiamato padre dai dolci nati
e in sterili amori trascorra l'esistenza;
come credono sovente gli uomini, e mesti cospargono
di molto sangue le are e bruciano offerte sugli altari,
perché possano far gravide le mogli con seme abbondante.
Invano affaticano la potenza degli dèi e gli oracoli.
Giacché sterili sono, parte a causa di seme troppo denso,
altri, per contro, perché il seme è liquido e sottile più del giusto.
Il sottile, poiché non può fissare la sua aderenza alle parti,
sùbito scorre via e torna indietro senza fecondare.
Il seme troppo denso, inoltre, poiché per quegli altri nell'emissione
è più tenace del giusto, o non vola via con lancio abbastanza lungo,
o non può penetrare egualmente nelle parti, o, sebbene sia
penetrato, si mescola a stento col seme femminile.
Si vede infatti che molto differiscono le armonie di Venere.
E alcuni più fan pregne alcune donne, e da altri
meglio altre accolgono il peso e diventano gravide.
E molte furono per l'addietro sterili in più matrimoni
e tuttavia alfine trovarono l'uomo dal quale poterono
generare fanciullini e arricchirsi di dolce parto.
E spesso anche per uomini, cui prima nella casa le mogli,
benché feconde, non avevano potuto partorire, fu trovata
la natura confacente, sì che poterono munire di figli la vecchiaia.
A tal punto importa che i semi possano
mischiarsi coi semi in un modo atto alla generazione,
e che i densi s'uniscano coi liquidi e i liquidi coi densi.
E in ciò ha importanza con quale vitto la vita si sostenti;
e infatti per alcuni cibi s'ingrossano i semi nelle membra
e per altri, al contrario, si assottigliano e si struggono.
E in quali modi si goda lo stesso carezzevole piacere,
è anche cosa di grande importanza; difatti si crede per lo più
che nella positura delle fiere e alla maniera dei quadrupedi le mogli
concepiscano meglio, perché così i semi possono raggiungere
le proprie sedi, quando il petto è chinato e son sollevati i fianchi.
Né le mogli han punto bisogno di movimenti voluttuosi.
Giacché la donna s'impedisce di concepire e contrasta,
se godendo risponde essa stessa con le anche alla Venere dell'uomo
e con tutto il petto che s'agita flessuoso provoca il fiotto:
infatti scosta il solco dal retto percorso del vomere
e svia dalle sue sedi il getto del seme.
E così son solite agitarsi le meretrici per propria utilità,
per non essere fatte pregne sovente e giacer gravide,
e insieme perché l'atto stesso di Venere sia agli uomini più grato;
ma di ciò è evidente che le nostre spose non hanno bisogno.
E non avviene per volere divino talora o per le saette di Venere
che una donnetta di aspetto meno leggiadro sia amata.
Giacché la donna stessa talvolta, col suo fare
e coi modi compiacenti e col corpo finemente curato,
riesce ad avvezzar‹ti› facilmente a trascorrere la vita con lei.
Del resto, la consuetudine fa nascere l'amore;
giacché ciò che è percosso da colpi continui, benché lievi,
tuttavia in lungo tratto di tempo è vinto e cede.
Non vedi come anche le gocce d'acqua che cadono sopra
le rocce, in lungo tratto di tempo bucano le rocce?


LIBRO V

Chi può con mente possente comporre un canto
degno della maestà delle cose e di queste scoperte?
O chi vale con la parola tanto da poter foggiare
lodi che siano all'altezza dei meriti di colui
che ci lasciò tali doni, cercati ‹e› trovati dalla sua mente?
Nessuno, io credo, fra i nati da corpo mortale.
Infatti, se si deve parlare come richiede la conosciuta
maestà delle cose, un dio fu, un dio, o nobile Memmio,
colui che primo scoperse quella regola di vita
che ora è chiamata sapienza, e con la scienza
portò la vita da flutti così grandi e da così grandi tenebre
in tanta tranquillità e in tanto chiara luce.
Confronta, infatti, le divine scoperte che altri fecero in antico.
E in effetti si narra che Cerere le messi e Libero la bevanda
prodotta col succo della vite abbian fatto conoscere ai mortali;
eppure la vita avrebbe potuto durare senza queste cose,
come è fama che alcune genti vivano tuttora.
Ma vivere bene non si poteva senza mente pura;
quindi a maggior ragione ci appare un dio questi
per opera del quale anche ora, diffuse tra le grandi nazioni,
le dolci consolazioni della vita placano gli animi.
E se crederai che le gesta di Ercole siano superiori,
andrai molto più lontano dalla verità.
Quale danno, infatti, a noi ora potrebbero recare le grandi
fauci del leone nemeo e l'ispido cinghiale d'Arcadia?
E ancora, che potrebbero fare il toro di Creta e il flagello
di Lerna, l'idra cinta di un baluardo di velenosi serpenti?
Che mai, coi suoi tre petti, la forza del triplice Gerione
*
tanto danno farebbero a noi ‹gli uccelli› abitatori ‹del lago›
di Stinfalo e i cavalli del tracio Diomede che dalle froge
spiravano fuoco, presso le contrade bistonie e l'Ismaro?
E il guardiano delle auree fulgide mele delle Esperidi,
il feroce serpente, che torvo guatava, con l'immane corpo
avvolto intorno al tronco dell'albero, che danno alfine farebbe,
lì, presso il lido di Atlante e le severe distese del mare,
dove nessuno di noi si spinge, né alcun barbaro s'avventura?
E tutti gli altri mostri di questo genere che furono sterminati,
se non fossero stati vinti, in che, di grazia, nocerebbero vivi?
In nulla, io credo: a tal punto la terra tuttora
pullula di fiere a sazietà, ed è piena di trepido terrore,
per boschi e monti grandi e selve profonde;
luoghi che per lo più è in nostro potere evitare.
Ma, se non è purificato l'animo, in quali battaglie
e pericoli dobbiamo allora a malincuore inoltrarci!
Che acuti assilli di desiderio allora dilaniano
l'uomo angosciato e, insieme, che timori!
E la superbia, la sordida avarizia e l'insolenza?
Quali rovine producono! E il lusso e la pigrizia?
L'uomo, dunque, che ha soggiogato tutti questi mali
e li ha scacciati dall'animo coi detti, non con le armi,
non converrà stimarlo degno d'essere annoverato fra gli dèi?
Tanto più che bene e divinamente egli fu solito proferire
molti detti sugli stessi dèi immortali
e coi suoi detti rivelare tutta la natura.
Sull'orme sue io cammino e, mentre seguo
i suoi ragionamenti e con le mie parole insegno con che norma
tutte le cose siano state create, come debbano in essa permanere
e non possano spezzare le possenti leggi del tempo -
e così anzitutto si è trovato che la natura dell'animo
è in primo luogo generata e costituita di corpo che nasce,
ed è incapace di durare incolume per gran tratto di tempo,
e sono solo simulacri quelli che nei sogni sogliono ingannare
la mente, quando ci pare di vedere colui che la vita ha lasciato -
per quel che resta, ora l'ordine della dottrina mi ha condotto
a questo punto, che io devo spiegare come il mondo consista
di un corpo mortale e insieme ha avuto una nascita;
e in quali modi quel concorso di materia abbia costituito
le fondamenta di terra, cielo, mare, astri, sole
e del globo lunare; poi quali esseri viventi siano sorti
dalla terra, e quali non siano nati in alcun tempo;
e in che modo il genere umano abbia cominciato a usare
nei reciproci rapporti il vario linguaggio mediante i nomi
attribuiti alle cose; e in quali modi si sia insinuato negli animi
quel timore degli dèi, che su tutta la terra consacra e conserva
templi, laghi, boschi, altari e simulacri di dèi.
Inoltre spiegherò con quale forza la natura, che li governa,
volga i corsi del sole e i movimenti della luna;
perché non ci avvenga di credere che tra cielo e terra
questi percorrano liberi, spontaneamente, i corsi perenni
per favorire la crescita delle messi e degli esseri viventi,
né crediamo che girino secondo qualche disegno divino.
Difatti chi bene ha appreso che gli dèi conducono una vita serena,
se tuttavia frattanto si chiede stupito in che modo
ogni cosa possa svolgersi, specialmente fra quelle cose
che sopra il nostro capo si vedono nelle plaghe eteree,
nuovamente ricade nelle antiche superstizioni
e accetta padroni dispotici, e nella sua miseria
li crede onnipotenti, ignorando che cosa possa essere,
che cosa non possa, infine in qual modo ciascuna cosa
abbia un potere finito e un termine, profondamente confitto.
Del resto, perché non ti tratteniamo più a lungo
con promesse, contempla anzitutto i mari e le terre e il cielo:
la loro triplice natura, i loro tre corpi, o Memmio,
i tre aspetti tanto dissimili, le tre compagini così connesse,
li darà in preda alla rovina un solo giorno e, dopo essersi sostenuta
per molti anni, precipiterà l'immane macchina del mondo.
Né al mio pensiero sfugge quanto alla mente giunga nuova
e mirabile cosa la futura rovina del cielo e della terra,
e quanto sia per me difficile dimostrar questo con parole;
come accade se rechi alle orecchie una cosa prima inaudita,
ma non puoi sottoporla all'accertamento degli occhi,
né metterla fra le mani, per dove la via sicura della persuasione
più dritta porta al cuore umano e alla dimora della mente.
Ma tuttavia parlerò. Alle parole darà forse conferma
il fatto stesso, e per violento insorgere di terremoti
tutte le cose in poco tempo vedrai sconvolte.
Ma lontano da noi volga questo la fortuna reggitrice, e la ragione
piuttosto che il fatto stesso ci persuada che l'universo
può inabissarsi vinto, in un fragore di suono orrendo.
Ma, prima che m'accinga a proferire su questo tema
fatidiche parole, più santamente e con molto maggiore certezza
che la Pizia, la quale parla dal tripode e dal lauro di Febo,
molte consolazioni ti appresterò con dotte parole;
perché tu, inceppato dalla religione, non abbia per caso a credere
che le terre e il sole e il cielo, il mare, gli astri, la luna,
debbano durare eterni in virtù di un corpo divino,
e non giudichi perciò giusto che come i Giganti
paghino il fio per un immane delitto tutti quelli
che con la loro dottrina sconvolgono le mura del mondo
e vogliono estinguere in cielo il sole splendente,
marchiando con discorso mortale cose immortali;
mentre si tratta di cose che tanto distano dal nume divino,
tanto sono indegne d'essere annoverate fra gli dèi,
che le crederemmo piuttosto in grado di dare la nozione
di ciò che è remoto da moto e da senso vitale.
E infatti non si può credere che la natura dell'animo e il senno
si possano congiungere con un corpo qualsiasi;
come non può esistere nel cielo un albero, né nel mare salato
nuvole, né possono i pesci vivere nei campi,
né esserci sangue nel legno, né succo nei sassi.
È determinato e disposto dove ogni cosa cresca e abbia sede.
Così la natura dell'animo non può nascere sola,
senza il corpo, né esistere lontano dai nervi e dal sangue.
Se lo potesse, infatti, molto prima la stessa forza dell'animo
potrebbe essere nel capo o negli òmeri o in fondo ai talloni
e sarebbe solita nascere in qualsiasi parte, ma in fin dei conti
rimanere nello stesso uomo e nello stesso vaso.
Ora, poiché anche nel nostro corpo è fermamente determinato
e si vede disposto dove possano esistere e crescere
separatamente l'anima e l'animo, tanto più si deve negare
che possano durare fuori da tutto il corpo e dalla forma vivente,
nelle friabili zolle della terra o ‹nel› fuoco del sole
o nell'acqua o nelle alte plaghe dell'etere.
Questi dunque non sono dotati di senso divino,
giacché non possono essere vivificati da un'anima.
Questo parimenti non ti è possibile credere, che le sedi
sante degli dèi siano in alcuna parte del mondo.
Sottile, infatti, e di gran lunga remota dai nostri sensi, la natura
degli dèi è veduta appena dalla facoltà intellettiva dell'animo;
e poiché sfugge al contatto e all'urto delle mani,
non deve toccare niente che sia tangibile per noi.
Toccare infatti non può, ciò che non può essere esso stesso toccato.
Pertanto anche le loro sedi devono dalle nostre sedi
esser dissimili, sottili secondo i loro corpi.
Te lo proverò più tardi, con copioso discorso.
Dire, d'altro canto, che per amor degli uomini gli dèi
vollero apprestare la magnifica natura del mondo
e che perciò conviene lodare la loro opera lodevole
e crederla eterna e destinata a durare immortale;
e che non è giusto scuotere con alcuna violenza dalle fondamenta
ciò che da antico disegno degli dèi fu costruito per le genti umane
perché esistesse in perpetuo, o a parole oltraggiarlo
e sovvertirlo dal fondo alla sommità: immaginare queste cose
e aggiungerne altre di questo genere, o Memmio,
è follia. Che vantaggio infatti la nostra gratitudine
potrebbe arrecare ad esseri immortali e beati,
sì che intraprendano a fare qualcosa per cagion nostra?
O che novità poté dopo tanto allettare esseri che prima
se n'erano stati quieti, sì che volessero mutare la vita anteriore?
Difatti è evidente che di cose nuove deve godere chi ha danno
dalle antiche; ma in colui cui nulla di doloroso accadde
nel tempo andato, quando beatamente egli passava la vita,
in un tale essere che cosa poté accendere amore di novità?
O che male sarebbe stato per noi non essere creati?
Forse - ciò dovrei credere - la vita giaceva in tenebre e tristezza,
finché non albeggiò l'origine primigenia delle cose?
Infatti, chiunque è nato, è necessario che voglia restare
in vita, finché lo tratterrà il carezzevole piacere;
ma a colui che non gustò mai l'amore della vita,
né visse mai, che nuoce il non essere stato creato?
E poi, l'esemplare per la generazione delle cose e lo stesso
concetto dell'uomo donde furono primamente impressi negli dèi,
sì che sapessero e vedessero nella loro mente ciò che volevano fare?
O in che modo mai si conobbe il potere dei primi elementi
e che cosa questi potessero fare cambiando tra loro le disposizioni,
se la natura stessa non dette l'esempio della creazione?
E in verità tanto numerosi primi elementi delle cose, in molti modi,
da tempo infinito fino ad ora stimolati dagli urti
e tratti dal proprio peso, sono soliti muoversi e vagare
e in ogni modo congiungersi e provare tutto
quanto possano produrre aggregandosi tra loro,
che non meraviglia se caddero anche in tali disposizioni
e giunsero a tali movimenti quali son quelli
per cui ora il nostro universo rinnovandosi vive.
E quand'anche ignorassi quali siano i primi elementi delle cose,
questo tuttavia oserei affermare in base agli stessi fenomeni
del cielo e comprovare in forza di molte altre cose:
che la natura del mondo non è stata per nulla disposta
dal volere divino per noi: di così grande difetto essa è dotata.
In primo luogo, di quanto copre l'ampia distesa del cielo,
una grande parte è occupata da monti e selve
dominio di belve, la posseggono rupi e deserte paludi
e il mare che vastamente disgiunge le rive delle terre.
Inoltre, quasi due terzi il bruciante calore
e l'assiduo cadere del gelo li tolgono ai mortali.
Ciò che resta di terra coltivabile, la natura con la propria forza
lo coprirebbe tuttavia di rovi, se non le resistesse la forza dell'uomo,
per i bisogni della vita avvezzo a gemere sul robusto
bidente e a solcare la terra cacciandovi a fondo l'aratro.
Se, rivoltando col vomere le glebe feconde e domando
il suolo della terra, non le stimolassimo al nascere,
spontaneamente le piante non potrebbero sorgere nell'aria pura;
e nondimeno, talora, procurate con grande fatica,
quando già per i campi frondeggiano e tutte fioriscono,
o le brucia con eccessivi calori l'etereo sole
o le distruggono improvvise piogge e gelide brine,
e le devasta con violento turbine il soffiare dei venti.
E poi, la razza orrenda delle fiere, nemica
del genere umano, perché la natura in terra e in mare
la alimenta e la accresce? Perché le stagioni apportano
malattie? Perché la morte prematura s'aggira qua e là?
E inoltre, il bimbo, come un navigante gettato sulla riva
da onde furiose, giace a terra nudo, incapace di parlare,
bisognoso d'ogni aiuto per vivere, appena la natura lo fa uscire
con sforzi fuori dal ventre della madre alle rive della luce,
e riempie il luogo di un lugubre vagito, come è giusto
per uno che nella vita dovrà passare per tanti mali.
Ma crescono i vari animali domestici, gli armenti e le fiere,
né c'è bisogno di sonaglini, per nessuno occorre
la carezzevole e balbettante voce dell'amorevole nutrice,
né essi richiedono vesti diverse secondo le stagioni;
infine, non hanno bisogno di armi, né di alte mura,
per proteggere i propri averi, giacché per tutti tutto
largamente producono la terra stessa e la natura artefice.
Innanzitutto, poiché il corpo della terra e l'acqua
e i lievi soffi dei venti e i caldi vapori,
dei quali si vede consistere questo universo,
tutti constano d'un corpo che nasce e che muore,
d'uguale corpo si deve credere consti tutta la natura del mondo.
E infatti le cose, le cui parti e membra vediamo
essere di corpo che nasce e di forme mortali,
ci appaiono esse stesse costantemente mortali
e insieme soggette alla nascita. Perciò, quando vedo le membra
grandissime e parti del mondo consumarsi e rinascere,
concludo che anche il cielo e la terra ebbero parimenti
qualche tempo primordiale e subiranno distruzione.
A tale proposito, perché tu non creda che io abbia a mio pro carpito
l'ammissione di quel punto, quando ho asserito che la terra e il fuoco
sono mortali, e non ho esitato ad affermare che l'acqua e l'aria
periscono, e dissi che questi stessi nascono e crescono di nuovo,
in primo luogo, alquanta parte della terra, bruciata
continuamente dal sole, battuta dagli urti di molti piedi,
esala una nuvola di polvere e nubi volanti,
che i venti possenti sparpagliano per tutta l'aria.
E ancora, una parte delle zolle è trascinata dalle piogge
nell'inondazione, e i fiumi, radendo le rive, le corrodono.
Inoltre, ogni corpo che la terra alimenta e accresce, le è restituito
per la parte che esso ha ricevuta; e poiché certo essa appare
madre di tutto e insieme comune sepolcro delle cose, vedi
dunque che la terra subisce riduzione e, aumentata, ricresce.
Per il resto, che di nuovo liquido il mare, i fiumi, le fonti
sempre abbondino e che le acque scaturiscano perenni,
non c'è bisogno di dirlo: il loro grande scorrere da ogni parte
lo manifesta. Ma l'acqua che di volta in volta è prima, si perde,
e così avviene che nell'insieme il liquido non trabocchi mai,
in parte perché lo diminuiscono i venti possenti
spazzando il mare, e l'etereo sole dissolvendolo coi raggi,
in parte perché nelle profondità terrestri si spande ovunque:
vien filtrata infatti la salsedine, e l'elemento liquido
rifluisce indietro e s'aduna tutto alla sorgente dei fiumi
e di lì sgorga sulle terre con dolce corrente, là dove la via
una volta aperta ha fatto discendere le onde con liquido piede.
Ora dunque parlerò dell'aria, che in tutto il suo corpo
si muta innumerabilmente d'ora in ora.
Sempre infatti ciò che fluisce dalle cose, è trasportato tutto
nel gran mare dell'aria; e, se questa a sua volta non restituisse
elementi alle cose e non le reintegrasse di ciò che ne fluisce,
tutto sarebbe ormai dissolto e convertito in aria.
Dunque non cessa questa d'esser generata dalle cose e di risolversi
nelle cose, poiché è certo che tutto continuamente fluisce.
Così l'abbondante fonte di limpida luce, l'etereo sole,
perennemente inonda il cielo di fulgore sempre nuovo
e sùbito rifornisce la luce con luce nuova.
Ché ogni sua prima emanazione di fulgore perisce,
dovunque cada. E ciò puoi apprenderlo da questo,
che appena le nubi cominciano a passare sotto il sole
e a troncare, per così dire, a mezzo i raggi della luce,
d'un tratto la parte inferiore di questi perisce tutta
e la terra si vela d'ombra dovunque si portano i nembi;
sì che puoi conoscere che di nuovo splendore sempre le cose han bisogno
e che le emanazioni di fulgore periscono man mano che si producono,
né altrimenti le cose potrebbero essere vedute nella luce del sole,
se la stessa sorgente della luce non la fornisse perpetuamente.
E inoltre, vedi, i lumi notturni che sono sulla terra,
lampade appese e torce splendenti di lampeggianti baleni,
grasse di molta caligine, in simile modo s'affrettano
a fornire, mediante la loro fiamma, nuova luce,
e insistono nel tremolare dei fuochi, insistono, né la luce,
troncata, per così dire, a mezzo, lascia i luoghi d'intorno.
Tanto in fretta il suo estinguersi è celato
col celere scaturire di nuova fiamma da tutti i fuochi.
Così, dunque, il sole, la luna e le stelle è da credere
che spandano la luce con successive emanazioni
e che perdano sempre ogni fiamma che via via spunta;
che non ti avvenga di supporli dotati d'inviolabile vigore.
Ancora, non vedi che anche le pietre sono vinte dal tempo,
che le alte torri cadono in rovina e le rocce si sgretolano,
che i templi e le statue degli dèi rovinati si fendono,
e il santo nume non può differire i termini del fato,
né lottare contro le leggi della natura?
E ancora, non vediamo i monumenti degli eroi crollati
chiedere se tu credi che essi a loro volta invecchiano?
Non vediamo precipitare rupi divelte dagli alti monti,
incapaci di resistere e di sopportare le possenti forze di un tempo
sia pure limitato? Né infatti cadrebbero divelte d'un tratto,
se da tempo infinito avessero continuato a sopportare
tutti gli attacchi dell'età senza esserne spezzate.
Inoltre, contempla ora questo cielo che d'intorno e di sopra
cinge col suo abbraccio tutta la terra: se procrea da sé
tutte le cose, come alcuni dicono, e le accoglie dissolte,
tutto di corpo soggetto a nascita e a morte esso consta.
Infatti tutto ciò che di sé accresce e alimenta altre cose,
deve decrescere, e reintegrarsi quando riprende ciò che ha dato.
Oltre a ciò, se non ci fu un'origine primigenia
della terra e del cielo, e sempre essi esistettero eterni,
perché di là dalla guerra tebana e dalle rovine di Troia
non cantarono altri poeti anche altri eventi?
Dove mai tante gesta di eroi tante volte svanirono e perché non fioriscono
in alcun luogo, impresse negli eterni monumenti della fama?
Vero è, a parer mio, che tutto il nostro mondo è nella sua giovinezza,
e recente è la natura del cielo, né da molto tempo ebbe inizio.
Perciò alcune arti ancor oggi si raffinano, oggi ancora
progrediscono; oggi sono stati aggiunti alle navi
molti attrezzi; poc'anzi i musicisti hanno creato melodiosi suoni.
Infine, questo sistema della natura è stato scoperto
di recente, e primo fra tutti io stesso mi trovo
ora in grado di tradurlo nella lingua dei padri.
E se per caso credi che tutte le cose siano esistite identiche già in passato,
ma le generazioni degli uomini siano perite in avvampante fuoco,
o le città sian crollate in un grande sconvolgimento del mondo,
o a causa di piogge assidue fiumi rapinosi siano straripati
su per le terre e abbiano sommerso le città,
tanto più è inevitabile che tu, vinto, ammetta
che alla rovina soccomberanno anche la terra e il cielo:
infatti, quando le cose subivano l'assalto di tali flagelli e di tali pericoli,
se una forza più nociva si fosse in quel punto abbattuta su di loro,
per vasto spazio sarebbero precipitate in disastro e grandi rovine.
Né in altra maniera noi ci accorgiamo di essere mortali,
se non perché a vicenda siamo preda delle stesse malattie
di cui soffrirono coloro che la natura allontanò dalla vita.
Inoltre, tutte le cose che permangono eterne è necessario
o che respingano gli urti perché hanno corpo solido
e non si lascino penetrare da qualcosa che possa dissociare
nell'interno le parti strettamente unite, quali sono i corpi
della materia, di cui prima abbiamo rivelato la natura,
oppure che possano durare per ogni tempo per questo,
perché sono esenti da colpi, come è il vuoto,
che rimane intatto e non subisce il minimo urto,
o anche perché intorno non si trova tratto di spazio
ove, in qualche modo, le cose possano sperdersi e dissolversi:
così è eterna la somma delle somme, fuori della quale
non c'è luogo ove le cose saltino in pezzi, né ci son corpi
che possano cadere su di esse e con forte colpo dissolverle.
Ma, come ho insegnato, la natura del mondo non è dotata
di corpo solido, poiché dentro le cose è misto il vuoto,
né tuttavia esso è come il vuoto, né d'altronde mancano corpi
che, dall'infinito per caso irrompendo in folla, possano
far precipitare questo insieme di cose con violento turbine
o introdurvi qualche altro disastroso pericolo,
e inoltre non difettano il vuoto e le profondità dello spazio,
dove le mura del mondo possano disperdersi,
oppure possono perire colpite da qualsiasi altra forza.
Dunque la porta della morte non è chiusa al cielo,
né al sole, né alla terra, né alle acque profonde del mare,
ma sta spalancata e li aspetta con immane e vasta voragine.
Perciò devi anche ammettere che queste stesse cose hanno avuto
una nascita; e infatti cose che sono di corpo mortale
non avrebbero potuto da tempo infinito fino ad ora
disprezzare le possenti forze di un'età immensa.
Infine, poiché tanto lottano tra loro le grandissime
membra del mondo, sfrenate in empia guerra,
non vedi che alla loro lunga contesa può essere posto
qualche termine? Così, quando il sole e ogni fuoco,
assorbiti tutti gli umori, avranno preso il sopravvento:
a far ciò tendono, ma finora i tentativi non hanno avuto effetto:
tanto rifornimento danno i fiumi, e per di più minacciano
d'inondare ogni cosa riversandosi dai profondi gorghi del mare,
ma invano: poiché i venti, spazzando le acque, e l'etereo sole,
dissolvendole coi raggi, ne diminuiscono il volume,
e confidano di poter prosciugare ogni cosa prima che le onde
possano raggiungere il termine della loro impresa.
Da tanto spirito guerresco infiammati, con uguale esito
lottano per decidere di grandi cose ‹fra loro›,
e intanto il fuoco ebbe una volta il sopravvento,
e una volta, come si racconta, l'acqua regnò sui campi.
Il fuoco infatti sormontò e, raggiungendo molte cose, le bruciò,
quando la rapace forza dei cavalli del sole, uscendo di strada,
trascinò Fetonte attraverso tutto l'etere e su tutte le terre.
Ma il padre onnipotente, stimolato allora da un'ira violenta,
con un repentino colpo di fulmine gettò l'animoso Fetonte
giù dai cavalli sulla terra, e il Sole, andandogli incontro
mentre cadeva, raccolse l'eterna lampada del mondo
e ritrasse i cavalli sbandati e li aggiogò che ancora tremavano;
poi, guidandoli per la loro strada, ristorò tutte le cose.
Così invero cantarono gli antichi poeti di Grecia.
Ma questo si discosta troppo dalla verità.
Il fuoco infatti può sormontare quando più numerosi corpi
della sua materia hanno fatto in folla irruzione dall'infinito;
poi cadono le sue forze, sopraffatte da qualche causa,
oppure le cose periscono bruciate dai soffi cocenti.
Anche l'acqua un tempo, insorta, cominciò a sormontare,
come è fama, quando sommerse molti uomini sotto le onde.
Poi, quando venne meno, respinta da qualche causa,
la sua forza, quanta dall'infinito aveva fatto irruzione,
si fermarono le piogge e i fiumi scemarono la loro violenza.
Ma ora esporrò con ordine in quali modi quell'ammasso
di materia abbia costituito le fondamenta della terra e del cielo
e delle profondità marine, i corsi del sole e della luna.
Ché certo non secondo un deliberato proposito i primi elementi
delle cose si collocarono ciascuno al suo posto con mente sagace,
né in verità pattuirono quali moti dovesse produrre ciascuno,
ma, poiché molti primi elementi delle cose, in molti modi,
da tempo infinito fino ad ora stimolati dagli urti
e tratti dal proprio peso, sono soliti muoversi e vagare
e in ogni modo congiungersi e provare tutto
quanto possano produrre aggregandosi tra loro,
per questo avviene che, dopo aver vagato per gran tempo,
sperimentando ogni genere di aggregazioni e di moti,
alfine si incontrano quelli che, messi insieme d'un tratto,
diventano spesso inizi di grandi cose,
della terra, del mare e del cielo e delle specie viventi.
In tale situazione, non si poteva allora vedere il disco
del sole, volante nell'alto con la sua luce copiosa, né gli astri
del vasto firmamento, né mare, né cielo, e neppure terra, né aria,
né alcuna cosa simile alle nostre cose si poteva scorgere,
ma una specie di tempesta sorta di recente e un ammasso
composto di atomi d'ogni genere, la cui discordia perturbava
gl'intervalli, le vie, le connessioni, i pesi, gli urti,
gl'incontri, i movimenti, in un arder di battaglie,
perché, per le forme dissimili e le varie figure,
non potevano tutti così rimanere congiunti,
né produrre tra loro movimenti concordanti.
Indi parti diverse cominciarono a fuggire in varie direzioni,
e le cose simili a congiungersi con le simili, e segnare
i confini del mondo e dividerne le membra e disporre
le grandi parti, cioè distinguere dalle terre l'alto cielo,
e far sì che in disparte con distinte acque si stendesse il mare,
in disparte anche i fuochi dell'etere puri e distinti.
E, invero, dapprincipio i vari corpi di terra,
poiché erano pesanti e aggrovigliati, s'adunavano
nel mezzo e occupavano tutti le regioni più basse;
e, quanto più aggrovigliati tra loro s'adunavano,
tanto più spremevano fuori i corpi che dovevano produrre
il mare, gli astri, il sole e la luna e le mura del vasto mondo.
Tutti questi in effetti sono di semi più lisci
e più rotondi e di elementi molto più piccoli
che la terra. Così, erompendo, per i fori della terra porosa,
dalle parti di questa, primo si levò in alto l'etere
infuocato e, leggero, trasse su con sé molti fuochi,
non molto diversamente da quel che spesso vediamo,
quando l'aurea luce mattutina del sole raggiante
comincia a rosseggiare fra le erbe ingemmate di rugiada
ed esalano nebbia i laghi e i fiumi perenni,
e anche come la terra stessa si vede talora fumare;
e, quando tutte queste esalazioni, movendo verso l'alto, si aggregano,
lassù condensatesi diventano nuvole che col loro intreccio oscurano il cielo.
Così, dunque, allora l'etere leggero ed espansibile,
condensatosi e avvoltosi intorno, s'incurvò da ogni parte
e, ampiamente espanso da ogni parte in tutte le direzioni,
così circondò tutte le altre cose con avido abbraccio.
A questo tennero dietro gl'inizi del sole e della luna,
i cui globi si volgono nell'aria fra etere e terra:
né la terra li accolse in sé, né l'etere grandissimo, poiché non erano
tanto pesanti da cadere in basso e posarsi sul fondo,
né leggeri sì da potere scivolare per le plaghe più alte;
e tuttavia sono fra l'una e l'altro in tal modo che fanno girare
i loro corpi vivi ed esistono come parti di tutto il mondo:
come in noi certe membra possono restare immobili,
mentre ve ne sono altre che frattanto si muovono.
Ritiratesi, quindi, queste cose, d'un tratto la terra,
là dove ora la zona cerula del mare si stende amplissima,
sprofondò, e inondò di salati gorghi gli avvallamenti.
E di giorno in giorno, quanto più le vampe dell'etere
d'intorno e i raggi del sole serravano da ogni parte la terra
in spazio ristretto con colpi frequenti sugli estremi bordi,
sì che, compressa, si condensava e s'adunava al centro,
tanto più il salso sudore, spremuto fuori dal suo corpo,
scorrendo accresceva il mare e le distese fluttuanti,
e tanto più, guizzando fuori, volavano quei numerosi
corpi di calore e d'aria e addensavano lontano
dalla terra le alte e fulgide regioni del cielo.
Si abbassavano le pianure, ai monti elevati cresceva
l'altezza; e infatti le rocce non potevano abbassarsi,
né tutte le parti insieme ugualmente cader giù.
Così, dunque, il peso della terra col corpo condensato
si fissò, e tutto il limo, per così dire, del mondo confluì
pesante verso il basso e si posò nel fondo come feccia;
poi il mare, poi l'aria, poi lo stesso etere infuocato
coi loro corpi liquidi, tutti restarono puri,
e l'uno più leggero dell'altro; e l'etere, il più liquido
e il più leggero, scorre sopra i soffi dell'aria,
né mischia il suo liquido corpo con gli sconvolgenti
soffi dell'aria; lascia che tutte le cose quaggiù siano sossopra
per violenti turbini, lascia che s'agitino per mutevoli procelle,
mentre trasporta i suoi fuochi scorrendo con slancio immutato.
Infatti, che l'etere possa fluire con calma e con moto uniforme,
lo mostra il Ponto, il mare che fluisce con corrente immutata,
conservando sempre uguale l'andamento del suo scorrere.
Ora cantiamo quale sia la causa dei movimenti degli astri.
Anzitutto, se la grande sfera del cielo gira intorno,
dobbiamo dire che l'aria preme sui poli alle due estremità dell'asse
e la tiene a posto dall'esterno e la chiude da ambo i lati;
altra aria, poi, fluisce al di sopra e tende alla stessa meta
verso cui girano brillando gli astri dell'eterno mondo;
o altra aria fluisce di sotto e trascina la sfera in senso opposto,
come vediamo i fiumi far girare ruote e secchie.
Può anche darsi che tutto il cielo resti immoto,
mentre frattanto i lucidi astri sono in movimento,
o perché vi sono rinchiuse le rapide correnti dell'etere
e, cercando una via, s'aggirano tutt'intorno
e così volgono i fuochi qua e là per le notturne volte del cielo;
o un'aria, che fluisce da un altro luogo qualsiasi al di fuori,
trascina e fa girare i fuochi; o possono essi stessi scivolare
dove il cibo d'ognuno li chiama e invita mentre procedono,
pascendo qua e là per il cielo i loro corpi di fuoco.
Infatti è difficile dare per certo quale di tali cause operi
in questo mondo; ma che cosa possa avvenire e avvenga
per tutto l'universo nei vari mondi in vario modo creati,
questo io insegno, e proseguo a esporre diverse cause
che possono produrre i movimenti degli astri per l'universo;
fra esse tuttavia una sola dev'essere anche in questo mondo
la causa che dà vita al movimento delle stelle; ma spiegare quale
di esse sia, non è affatto proprio di chi avanza passo passo.
E perché la terra resti ferma nel mezzo del mondo,
bisogna che il peso svanisca a poco a poco e decresca,
e che di sotto essa abbia un'altra natura,
dall'inizio dell'esistenza congiunta e strettamente unita
con le parti aeree del mondo in cui è incorporata e vive.
Perciò non è di peso all'aria, né la preme giù;
come su ogni uomo non gravano le sue membra,
né la testa è di peso al collo, e, infine, non sentiamo
che tutto il peso del corpo poggia sui piedi;
mentre tutti i pesi che vengono dall'esterno e ci sono imposti,
ci molestano, quantunque sovente di gran lunga minori.
Di così grande importanza è quale potere abbia ciascuna cosa.
Così dunque la terra non s'aggiunse d'improvviso
come estranea, né da un altro luogo fu gettata su aria estranea,
ma insieme fu concepita sin dalla prima origine del mondo
e come parte determinata d'esso, quali si vedono in noi le membra.
Inoltre, scossa d'un tratto da un gran tuono,
la terra col suo moto scuote tutto quanto le sta sopra;
ciò non potrebbe essa fare in alcun modo, se non fosse
connessa con le parti aeree del mondo e col cielo.
In effetti mediante comuni radici aderiscono tra loro,
dall'inizio dell'esistenza congiunti e strettamente uniti.
Non vedi anche come il nostro corpo è sostenuto,
benché molto pesante, dalla sottilissima forza dell'anima,
perché essa gli è tanto congiunta e strettamente unita?
E infine, che cosa può sollevare il corpo con agile balzo,
se non la forza dell'anima che governa le membra?
Non vedi oramai quanto possa essere grande la forza
d'una natura sottile, quando è unita a un corpo pesante,
come l'aria è unita alla terra e la forza dell'animo a noi?
Né la ruota del sole può essere molto maggiore,
né il suo calore molto minore di quel che appare ai nostri sensi.
Giacché, da qualsiasi distanza possano i fuochi lanciarci
la luce e soffiare sulle membra l'ardente calore,
nulla la distanza toglie al corpo delle fiamme
per il suo intervallo, per nulla il fuoco è ristretto alla vista.
Quindi, poiché il calore del sole e la luce ch'esso spande
arrivano ai nostri sensi e i luoghi ne rifulgono, anche la forma
e la grandezza del sole devono esser viste di qui
quali sono davvero, sì che nulla puoi aggiungervi o toglierne.
E la luna, sia che viaggi illuminando i luoghi con luce estranea,
sia che emetta sua luce dal proprio corpo,
viaggia comunque con una forma per nulla maggiore
di quella con cui ci appare quando la vedono i nostri occhi.
Infatti tutte le cose che scorgiamo a grande distanza,
attraverso molta aria, si vedon confuse all'aspetto
prima che ne sembri diminuita la grandezza. Pertanto la luna,
giacché presenta chiaro aspetto e netta forma, dev'esser vista
da noi, di quaggiù, nell'alto così come essa è delineata
dagli estremi contorni e grande quanto lo è davvero.
Infine tutti i fuochi del cielo che vedi di quaggiù:
poiché tutti ‹i fuochi› che scorgiamo sulla terra,
finché il loro scintillìo ‹è› chiaro, finché la loro fiamma è scorta,
solo un tantino si vedono talora mutare in più o in meno
la loro grandezza, a seconda della distanza,
si può concludere che di pochissimo possono essere minori
di come ci appaiono o d'un'esigua e breve parte maggiori.
Neppure di questo ci si deve stupire, come il sole,
pur così piccolo, possa emettere tanta luce da riempire
dei suoi raggi i mari e tutte le terre e il cielo,
e inondare del suo ardente calore tutte le cose.
Può darsi infatti che in tutto il mondo s'apra di qui l'unica fonte
che faccia scaturire con flusso abbondante e prorompere la luce,
perché da ogni parte del mondo in tal modo gli elementi ignei
si raccolgono e in tal modo il loro ammasso
confluisce che l'ardore sgorga qui da un'unica sorgente.
Non vedi anche quanto ampiamente una piccola fonte
d'acqua talora inondi i prati e trabocchi sulla pianura?
Può anche essere che dal fuoco del sole, benché non grande,
una vampa invada l'aria col suo fervere ardente,
se per caso l'aria è così convenientemente acconcia
da potersi accendere colpita da vampe leggere;
come talora da una sola scintilla vediamo piombare
su messi e stoppie un incendio diffuso.
O forse il sole, che con rosea fiaccola splende nell'alto,
ha intorno a sé molto fuoco che ferve invisibile,
che non è indicato da alcun fulgore,
sì che, carico di calore, accresce solo la violenza dei raggi.
Né si dà un'unica e immediata possibilità di spiegare
in che modo il sole s'avvicini dalle regioni estive
al tropico invernale del Capricorno, e come, ritornando
di là, si volga alla meta solstiziale del Cancro,
e come si veda la luna percorrere tutti i mesi lo spazio
in cui il sole correndo consuma il tempo di un anno.
Non c'è, dico, un'unica causa assegnata a queste cose.
Prima di tutto, infatti, sembra che possa avvenire
ciò che afferma l'opinione di Democrito, uomo venerabile:
quanto più i vari astri sono vicini alla terra,
tanto meno essi possono esser tratti col turbine del cielo;
giacché la sua rapida e veemente forza diminuisce
e si perde in basso; e il sole è a poco a poco lasciato
indietro con le costellazioni posteriori per questo:
perché è molto meno alto delle costellazioni ardenti.
E ancor più di questo la luna: quanto più basso è il suo corso,
quanto più s'allontana dal cielo e s'appressa alla terra,
tanto meno essa può dirigere il corso gareggiando con gli astri.
Anzi, quanto più lento è il turbine da cui essa è tratta
trovandosi al disotto del sole, tanto più tutti gli astri
la raggiungono girandole intorno e la sorpassano.
E perciò avviene ch'essa sembri tornare a ogni astro
più celermente: perché sono gli astri che di nuovo la raggiungono.
Può anche avvenire che da regioni del mondo che attraversano
il corso del sole fluiscano a turno due correnti d'aria, ciascuna
in una stagione determinata: una che possa cacciare il sole
dalle costellazioni estive al tropico invernale e al rigido gelo;
l'altra che dalle gelide ombre del freddo lo ricacci
fino alle regioni cariche di calore e alle costellazioni ardenti.
E similmente si deve credere che la luna e le stelle,
che volgono in grandi orbite i grandi anni, possano muoversi
per correnti d'aria da opposte regioni alternamente.
Non vedi anche le nuvole più basse andare, per forza di venti
opposti, in direzione opposta a quella delle più alte?
Perché non potrebbero quegli astri, per le grandi orbite
dell'etere, volgersi per forza di correnti opposte fra loro?
Ma la notte ricopre d'enorme tenebra la terra,
o quando, al termine del lungo corso, il sole ha battuto
alle estreme regioni del cielo e, fiaccato, ha spirato i suoi fuochi
scossi dal viaggio e indeboliti dalla molta aria attraversata,
o perché lo costringe a volgere il corso sotto la terra
la stessa forza che ha portato il suo giro sopra la terra.
Parimenti a un'ora fissa Matuta diffonde la rosea
aurora per le plaghe dell'etere e propaga la luce,
o perché lo stesso sole, che ritorna di sotto la terra,
occupa prima il cielo coi raggi tentando di accenderlo,
o perché fuochi si raccolgono e molti semi
di calore son soliti confluire a un'ora fissa
e fanno che ogni giorno nasca la luce di un nuovo sole;
così è fama che dalle alte cime dell'Ida
fuochi sparsi si vedano al sorgere della luce,
poi s'uniscano come in un globo e formino il disco del sole.
Né tuttavia in queste cose dovrebbe suscitar meraviglia
che a un'ora così fissa questi semi di fuoco
possano confluire e rinnovare lo splendore del sole.
Giacché vediamo molti fenomeni che avvengono
a data fissa in tutte le cose. Fioriscono a data fissa
gli alberi e a data fissa fanno cadere il fiore.
A data non meno fissa il tempo ingiunge che cadano i denti,
e che l'impubere entri nella pubertà rivestendosi di molle lanugine,
e faccia scendere da entrambe le guance morbida barba.
Infine i fulmini, la neve, le piogge, le nuvole, i venti
si producono in periodi dell'anno non troppo incerti.
Infatti, poiché tali furono i primi principi delle cause
e così le cose si svolsero fin dall'origine prima del mondo,
anche oggi ritornano l'uno dopo l'altro in ordine fisso.
E del pari può darsi che s'allunghino i giorni e scemino le notti,
e poi s'accorcino i giorni e nel contempo crescano le notti,
perché lo stesso sole, sotto la terra e al disopra
descrivendo curve di lunghezza differente, spartisce
le plaghe dell'etere e divide la sua orbita in parti ineguali,
e ciò che da una parte ha tolto, lo aggiunge nell'opposta parte
dell'orbita, facendovi una corsa tanto più lunga,
finché non arriva a quel segno celeste, dove il nodo
dell'anno uguaglia ai giorni le ombre della notte.
Difatti a mezzo cammino fra i soffi dell'aquilone e dell'austro,
il cielo tiene separate ad uguale distanza le due mete
per la positura di tutto il cerchio delle costellazioni
in cui il sole scivolando conchiude il periodo di un anno,
illuminando di obliqua luce la terra e il cielo,
come spiega la dottrina di coloro che disegnarono tutte le regioni
del cielo, ornate delle costellazioni poste nell'ordine loro.
Può anche darsi che in certe parti l'aria sia più densa,
e perciò sotto la terra esiti il tremulo splendore del fuoco
e non possa penetrarla facilmente ed emergere a oriente;
perciò le notti nel tempo invernale lunghe indugiano,
finché non giunga il radioso ornamento del giorno.
Può ancora darsi che allo stesso modo in alterne stagioni dell'anno
siano soliti confluire, ora più lentamente, ora più rapidamente,
i fuochi che fanno sorgere il sole da una parte determinata.
Per questo avviene che sembrino dire il vero

*

Può darsi che la luna splenda perché percossa dai raggi del sole,
e che di giorno in giorno maggiormente volga ‹quella› luce
verso il nostro sguardo, quanto più s'allontana dal disco del sole,
finché di contro ad esso rifulge di pienissima luce
e sorgendo, alta sopra l'orizzonte, ne vede il tramonto;
poi, a poco a poco, essa deve parimenti ritrarsi e nascondere,
per così dire, la luce, quanto più vicino al fuoco del sole
ormai scivola dall'altra parte per il cerchio delle costellazioni;
tale è la teoria di coloro i quali immaginano che la luna
sia simile a una sfera e percorra la sua orbita al disotto del sole.
È dato anche supporre ch'essa possa ruotare con propria luce
e pur presentare differenti aspetti del suo splendore.
Può esserci infatti un altro corpo, che si muove e scivola
insieme con essa, in tutti i modi opponendosi ed eclissandola,
senza che sia possibile discernerlo, perché privo di luce si muove.
Ed essa può girare su sé stessa, come farebbe la sfera
d'una palla cosparsa per metà di candida luce
e, facendo girare la sua sfera, produrre varie fasi,
finché volge al nostro sguardo e agli occhi aperti
quella parte, qualunque sia, che è cinta di fuoco;
poi a poco a poco torce indietro e sottrae ai nostri occhi
la parte luminosa della sua massa sferica:
questo è ciò che la babilonica dottrina dei Caldei, confutando
la scienza degli astronomi, cerca di provare contro costoro,
quasiché non possa avverarsi ciò per cui lottano gli uni e gli altri
o ci sia un motivo per cui osi abbracciare meno questa che quella.
Infine, perché non possa ogni giorno una nuova luna
crearsi con ordine fisso di fasi e con forme fisse,
e ciascun giorno sparire quella che si era creata
e un'altra sostituirsi ad essa nella sua regione e posizione,
è difficile mostrare col ragionamento e provare con le parole,
quando ‹vedi› che tante cose si creano con ordine fisso.
Viene primavera e Venere, e l'alato nunzio di Venere
innanzi cammina, e sulle orme di Zefiro
la madre Flora davanti a loro tutta la via
cosparge di squisiti colori e odori.
Poi segue il calore arido e insieme la sua compagna,
la polverosa Cerere, ‹e› gli etesii soffi degli aquiloni.
Poi giunge l'autunno, e con esso cammina l'Evio Bacco.
Poi altre stagioni e i loro venti seguono,
l'altitonante Volturno e l'Austro possente col fulmine.
Infine la bruma porta le nevi e rinnova il pigro gelo;
la segue l'inverno che batte i denti per il freddo.
Perciò non c'è da meravigliarsi se a tempo fisso la luna
nasce e di nuovo a tempo fisso si dissolve,
quando tante cose possono a tempo fisso avvenire.
Parimenti devi credere che anche le eclissi del sole
e il celarsi della luna possano avvenire per diverse cause.
Infatti, perché la luna potrebbe escludere la terra dalla luce
del sole e a questo opporre il proprio capo alto dalla terra,
ponendo l'opaco disco davanti ai raggi ardenti,
e nello stesso tempo si dovrebbe credere che non possa
far ciò un altro corpo che scivoli sempre privo di luce?
E il sole stesso perché non potrebbe illanguidito
perdere i suoi fuochi a tempo fisso e poi rinnovare la luce,
quando, traversando l'aria, è passato per luoghi ostili alle fiamme,
i quali producono l'estinguersi e il perire dei fuochi?
E perché la terra potrebbe a sua volta spogliar di luce la luna
e tener nascosto il sole standogli sopra essa stessa, mentre la luna
nel suo mensile viaggio scivola per le rigide ombre del cono,
e nello stesso tempo non potrebbe un altro corpo
passar sotto la luna o scivolare sopra il disco del sole,
così da interromperne i raggi e la luce che esso spande?
E d'altronde, se la stessa luna rifulge di proprio splendore,
perché non potrebbe illanguidirsi in una determinata parte
del mondo, mentre attraversa luoghi nemici alla sua luce?
Quanto al resto, poiché ho spiegato come ogni cosa
possa avvenire per i ceruli spazi del vasto mondo,
sì che potessimo conoscere quale forza e causa produca
i vari corsi del sole e i movimenti della luna,
e in che modo quegli astri, oscurata la luce, ‹possano› eclissarsi
e coprire di tenebre la terra che non le aspettava,
quando pare che chiudano gli occhi e poi, apertili di nuovo,
frugano ogni luogo che si imbianca di chiara luce,
ora torno alla giovinezza del mondo e ai molli campi della terra,
e dirò che cosa dapprima essi s'indussero a levare, con nuova
procreazione, alle plaghe della luce e affidare ai volubili venti.
Da principio la terra produsse la famiglia delle erbe
e il verde splendore intorno ai colli e per tutti i piani,
i floridi prati rifulsero di verdeggiante colore,
e ai vari alberi in séguito fu dato di gareggiare
grandemente nel crescere per l'aria a briglie sciolte.
Come sulle membra dei quadrupedi e sul corpo
dei pennuti spuntano dapprima piume e peli e setole,
così allora la giovane terra generò dapprima erbe e virgulti,
in séguito creò le stirpi mortali,
che nacquero in gran numero, in molti modi, con varie forme.
Infatti non possono esser caduti dal cielo gli animali,
né le specie terrestri essere uscite dai salati abissi.
Resta che a ragione la terra ha ricevuto il nome di madre
poiché dalla terra traggono origine tutte le creature.
Ed anche ora molti animali sorgono dalla terra,
generati dalle piogge e dall'ardente calore del sole;
perciò non c'è da stupire se più numerosi ne nacquero allora,
e più grandi, essendo cresciuti quando terra e cielo eran giovani.
Da principio la specie degli alati e i vari uccelli
lasciavano le uova, uscendo dai gusci in primavera,
come ora d'estate le cicale spontaneamente abbandonano
i tondeggianti involucri per cercare il cibo e la vita.
Allora, vedi, la terra cominciò a produrre le stirpi mortali.
Molto calore, infatti, e umidità sovrabbondavano nei campi.
Perciò, ovunque si offriva idonea disposizione di luogo,
crescevano uteri attaccati alla terra con radici;
e quando, maturato il tempo, li aveva aperti l'età
degli infanti, fuggendo l'umidità e cercando l'aria,
lì la natura rivolgeva i canali della terra
e li costringeva a versare dalle vene aperte un succo
simile al latte, come ora ogni femmina,
quando ha partorito, s'empie di dolce latte, perché tutto
alle mammelle converge l'impeto del suo alimento.
La terra offriva ai bimbi il cibo, il calore una veste, l'erba
un giaciglio riboccante di molta e morbida lanugine.
Ma la giovinezza del mondo non produceva rigidi freddi,
né eccessivi calori, né venti di forze possenti.
Tutte le cose infatti di pari passo crescono e prendono vigore.
Perciò, ancora e ancora, la terra a ragione ha ricevuto
e conserva il nome di madre, poiché da sé essa creò
il genere umano e, quasi a un momento stabilito, partorì
ogni animale che sui grandi monti scorrazza selvaggio
e insieme gli uccelli dell'aria nelle varie forme.
Ma, poiché il suo partorire deve avere un termine,
essa cessò, come donna fiaccata da vecchiezza.
Il tempo infatti muta la natura di tutto il mondo,
e in tutte le cose a uno stato deve subentrarne un altro,
né alcunché resta simile a sé stesso: tutte le cose passano,
tutte la natura le trasmuta e le costringe a trasformarsi.
Giacché una imputridisce e fiaccata dal tempo langue,
poi un'altra cresce ed esce ‹dalle› condizioni di disprezzo.
Così dunque il tempo muta la natura di tutto il mondo,
e nella terra a uno stato ne subentra un altro, sicché non può
produrre ciò che poté, ma può ciò che non poté in passato.
E anche molti portenti allora la terra tentò di creare,
nati con facce e membra strane: l'androgino, che sta tra i due
sessi, e non è né l'uno, né l'altro, ma è lontano da ambedue;
alcune creature prive di piedi, altre mancanti, a loro volta,
di mani, o anche mute senza la bocca, o ch'erano cieche
senza gli occhi, o avviluppate in tutto il corpo per l'aderire delle membra,
sì che non potevano fare alcunché, né muoversi verso alcun luogo,
né evitare un danno, né prendere ciò che era necessario.
Ogni altro mostro e portento di questa specie essa creava,
ma invano, perché la natura ne impedì la crescita,
né poterono attingere il bramato fiore dell'età,
né trovare cibo, né congiungersi con gli atti di Venere.
Molte cose vediamo infatti che devono concorrere negli esseri
perché possano generare e propagare le stirpi;
bisogna anzitutto che abbiano di che nutrirsi, poi passaggi per cui
i semi genitali possano scorrere attraverso i corpi ed emanare
dalle membra rilassate; e, affinché la femmina possa congiungersi col maschio,
devono avere ambedue ciò che occorre per scambiarsi vicendevoli piaceri.
E molte stirpi di esseri viventi dovettero allora soccombere
e non poterono generare e propagare la prole.
Giacché tutte quelle che vedi respirare le aure vitali,
o l'astuzia o la forza o almeno la velocità le protesse
dal principio dell'esistenza e ne conservò le generazioni.
E molte ce ne sono che, raccomandate a noi
dalla loro utilità, furono affidate alla nostra tutela.
In primo luogo alla fiera progenie dei leoni e alle stirpi selvagge
fornì difesa la forza, alle volpi l'astuzia e ai cervi la fuga.
Ma i cani dal sonno leggero, che nei petti hanno cuori fedeli,
e ogni progenie nata dal seme delle bestie da soma
e insieme le greggi lanose e le cornute stirpi dei buoi,
tutti furono affidati alla tutela degli uomini, o Memmio.
Ardentemente infatti fuggirono le fiere e cercarono pace
e copiose pasture ottenute senza loro fatica,
cose che noi diamo loro in ricompensa della loro utilità.
Ma quelli cui la natura non diede nulla di ciò,
né di vivere da sé stessi liberamente, né di rendere a noi
qualche servigio per cui consentissimo alla loro progenie
di nutrirsi e di vivere sicura sotto la nostra protezione,
questi certo soggiacevano ad altri come preda e bottino,
inceppati come erano tutti dalle loro catene fatali,
finché la natura ne portò la progenie ad estinzione.
Ma non ci furono Centauri, né in alcun tempo
possono esistere esseri di duplice natura e di corpo doppio,
messi insieme con membra eterogenee, così che le facoltà di creature
nate da questa specie e da quella possano corrispondere abbastanza.
Ciò si può conoscere di qui, anche con mente ottusa.
Anzitutto, nel giro di tre anni il focoso cavallo
è nel suo fiore, ma il bambino per niente; ché spesso ancora
cercherà nel sonno i capezzoli del seno materno colmi di latte.
Poi, quando al cavallo per vecchiaia vengon meno le forze
poderose e languiscono le membra per il fuggire della vita,
solo allora il fanciullo raggiunge il fiore dell'età e comincia
per lui la gioventù, che gli veste di morbida lanugine le guance.
Non ti avvenga, dunque, di credere che dall'uomo e dal seme
di bestie da soma, dei cavalli, possan formarsi Centauri,
ed esistere, o Scille coi corpi semimarini, cinte di rabbiosi cani,
e tutti gli altri esseri di questa fatta,
le cui membra vediamo discordanti fra loro;
che nello stesso tempo né fioriscono, né prendono il vigore
del corpo, né lo perdono a causa della vecchiaia,
né di simile amore ardono, né armonizzano per abitudini
uniformi, né identiche sono le cose che giovano alle loro membra.
Spesso infatti si può vedere che le barbute capre ingrassano
con la cicuta, mentre questa per l'uomo è violento veleno.
Poiché, ‹d'altra parte,› la fiamma suole cuocere e bruciare
i corpi fulvi dei leoni, tanto quanto qualunque altra specie
di carne e sangue che esiste sulla terra,
come sarebbe potuto avvenire che un unico essere con triplice corpo,
nella parte anteriore leone, nella posteriore drago, nella mediana lei,
la Chimera, spirasse per la bocca una fiamma violenta uscita dal corpo?
Così, dunque, chi immagina che tali animali potessero nascere
quando la terra era giovane e il cielo da poco formato,
fondandosi soltanto su questo vano nome di gioventù,
molte cose similmente può dire a vanvera;
può dire che allora fiumi d'oro scorrevano sulla terra ovunque
e che gli alberi comunemente fiorivano di pietre preziose
o che nacque un uomo con membra tanto gigantesche
da poter con un passo poggiare il piede di là da mari profondi
e con le mani rotare intorno a sé tutto il cielo.
Ché, se la terra contenne molti semi di cose
nel tempo in cui il suolo cominciò a produrre gli animali,
questo tuttavia non è segno che si siano potute creare
bestie miste fra loro e membra accozzate di esseri viventi,
poiché le specie delle erbe e le messi e gli alberi rigogliosi,
che tuttora pullulano in abbondanza dalla terra,
non posson tuttavia nascere intrecciati fra loro,
ma ognuna di queste cose procede secondo un proprio modo
e tutte per salda legge di natura conservano le differenze.
Ma la stirpe umana che visse allora nei campi fu molto
più dura, com'era naturale, ché la dura terra l'aveva creata;
e nell'interno del corpo fu piantata su ossa più grandi
e più salde, connessa attraverso le carni da nervi poderosi,
tale che non poteva facilmente esser vinta dal caldo, né dal freddo,
né da cibo inconsueto, né da alcun difetto del corpo.
E, durante il corso di molti lustri del sole per il cielo,
conducevano la vita a guisa di fiere vagabonde.
Non c'era nessuno che robusto reggesse l'aratro ricurvo,
nessuno sapeva lavorare i campi col ferro,
né piantare nella terra i virgulti novelli, né dagli alti
alberi tagliar via coi falcetti i rami vecchi.
Ciò che donavano il sole e le piogge, ciò che produceva
di per sé la terra, era un dono bastevole a placare quei petti.
Tra le querce cariche di ghiande per lo più ristoravano i corpi;
e le corbezzole, che ora nella stagione invernale vedi
farsi mature, di colore purpureo, allora la terra
le produceva in grandissimo numero e anche più grosse.
E la fiorente gioventù del mondo produsse allora
molti altri rudi alimenti, abbondanza per i miseri mortali.
Ma a sedare la sete li chiamavano i fiumi e le fonti,
come ora il torrente, che precipita giù dai grandi monti,
chiama per ampio spazio col chiaro suono sitibonde famiglie di fiere.
Occupavano infine i silvestri recessi delle ninfe, scoperti
nel loro vagare, dai quali sapevano che rivoli d'acqua
fluivano con larga corrente lavando le umide rocce,
le umide rocce, stillanti sopra il verde muschio,
mentre altri scaturivano ed erompevano per la piana campagna.
E non sapevano ancora trattare le cose col fuoco,
né servirsi di pelli e vestire il corpo con spoglie di fiere,
ma abitavano boschi e caverne montane e selve
e nascondevano le scabre membra tra le macchie,
quando eran costretti a evitare sferzate di venti e piogge.
Né erano capaci di mirare al bene comune,
né sapevano valersi di costumi e di leggi nei loro rapporti.
Ciò che a ciascuno la fortuna aveva offerto come preda, ciascuno
se lo prendeva, avvezzo a usare la forza e a vivere da sé, per sé stesso.
E Venere nelle selve congiungeva i corpi degli amanti;
conquistava infatti la donna o un reciproco desiderio
o la violenta forza dell'uomo e la sua brama intensa
o una mercede: ghiande e corbezzole o pere scelte.
E, confidando nella meravigliosa forza delle mani e dei piedi,
davano la caccia alle silvestri stirpi delle fiere
con lancio di sassi e con clave pesanti;
e molte ne vincevano, poche ne evitavano nascondendosi;
e, come setolosi cinghiali, abbandonavano sulla terra
nude le membra silvestri, quando li sorprendeva la notte,
avvolgendosi, tutt'intorno, di foglie e di fronde.
Né con grande lamento cercavano il giorno e il sole
per i campi vagando paurosi tra le ombre della notte,
ma taciti e sepolti nel sonno aspettavano
che con la rosea fiaccola il sole portasse la luce nel cielo.
E infatti, poiché dalla fanciullezza s'erano abituati a vedere
sempre le tenebre e la luce prodursi in tempi alterni,
non poteva avvenire mai che li colpisse meraviglia
o il timore che una notte senza fine occupasse la terra
e il lume del sole fosse stato rapito per sempre.
Ma più angoscioso era questo, che le stirpi ferine
spesso a quei miseri facevano tribolato il riposo.
E, scacciati dalla loro dimora, fuggivano i rocciosi ripari
all'arrivo d'un cinghiale schiumante o d'un possente leone,
e a notte fonda atterriti cedevano
agli ospiti feroci i covili coperti di fronde.
Né allora molto più che ora le stirpi mortali
lasciavano con lamenti la dolce luce della vita.
Certo, allora più spesso qualcuno di loro, sorpreso,
offriva pasto vivente alle fiere, dilaniato dalle zanne,
e riempiva di lamenti boschi e monti e selve,
vedendo le proprie vive carni seppellite in un vivo sepolcro.
E quelli che si erano salvati fuggendo col corpo lacerato,
poi, tenendo le mani tremanti sopra le orribili piaghe,
invocavano con grida spaventose Orco,
finché spasimi crudeli li privavano della vita,
senza aiuto, ignari delle cure che le ferite reclamavano.
Tuttavia molte migliaia di uomini adunate sotto le insegne
non dava a morte un solo giorno, né le procellose acque
del mare gettavano navi e uomini a infrangersi contro gli scogli;
ma alla cieca, a vuoto, invano il mare spesso si sollevava
imperversando, e facilmente deponeva le inutili minacce,
né la lusinga della bonaccia poteva subdola
trarre in inganno qualcuno col sorridere delle onde.
La rovinosa arte del navigare giaceva allora ignorata.
Allora la penuria di cibo dava alla morte le membra
languenti, ora al contrario le sommerge l'abbondanza.
Per ignoranza gli uomini d'allora spesso versavano il veleno
a sé stessi, quelli d'ora più scaltramente lo danno essi ‹agli altri.›
Poi, quando si provvidero di capanne e di pelli e di fuoco,
e la donna congiunta con l'uomo passò ad un solo

*

furono conosciuti, ed essi videro la prole nata da loro,
allora primamente il genere umano cominciò a dirozzarsi.
Il fuoco infatti fece sì che i corpi freddolosi non potessero più
sopportare bene il freddo sotto la volta del cielo,
e Venere diminuì le forze, e i bambini con le carezze
facilmente vinsero l'indole fiera dei genitori.
Allora cominciarono anche a stringere amicizia fra loro
i vicini, desiderando non nuocere e non subire violenza,
e si affidarono l'un l'altro i fanciulli e le donne,
con balbettanti voci e col gesto significando
che era giusto che tutti avessero pietà per i deboli.
Né tuttavia poteva la concordia nascere sempre, ma una buona,
una gran parte degli uomini osservava i patti fedelmente;
altrimenti il genere umano già allora sarebbe perito tutto,
né il suo propagarsi avrebbe potuto far durare fino ad ora le stirpi.
I vari suoni della lingua, poi, fu la natura che costrinse
ad emetterli, e l'utilità foggiò i nomi delle cose,
in modo non molto diverso da quello in cui si vede che la stessa
incapacità della lingua a esprimere parole induce i bimbi a gestire,
quando fa che mostrino a dito le cose che sono presenti.
Difatti ognuno sente per qual uso possa valersi delle proprie facoltà.
Il vitello, prima che le corna gli siano spuntate e sporgano
dalla fronte, con esse irato assale e ostile incalza.
Dal canto loro, i cuccioli delle pantere e i leoncini
si difendono con unghie e zampe e morsi già quando
denti e unghie non sono ancora ben formati.
Vediamo poi ogni specie di uccelli affidarsi alle ali
e chiedere alle penne un aiuto che ancora è tremolante.
Perciò pensare che qualcuno allora abbia assegnato i nomi
alle cose e che da lui gli uomini abbiano imparato i primi vocaboli,
è follia. Infatti, perché colui avrebbe potuto designare con parole
ogni cosa ed emettere i vari suoni della lingua, ma si dovrebbe
credere che nello stesso tempo altri non abbiano potuto farlo?
Inoltre, se delle parole non avevano fatto uso fra loro
anche altri, donde fu impressa in quello la nozione
della loro utilità e donde fu data a lui per primo la facoltà
di sapere e di vedere nella mente che cosa volesse fare?
Parimenti, non poteva uno solo costringer molti e vincerli
e domarli, sì che acconsentissero a imparare i nomi delle cose.
Né in alcun modo è facile insegnare a sordi e persuaderli
di ciò che bisogna fare; difatti non lo sopporterebbero,
né in alcun modo tollererebbero che inauditi suoni di voce
più volte assordassero le loro orecchie invano.
Infine, che c'è di tanto sorprendente in questo,
se il genere umano, che aveva voce e lingua vigorose,
secondo le diverse impressioni designava le cose con suoni diversi?
Quando le greggi prive di parola, quando perfino le stirpi
delle fiere son solite formare voci dissimili e varie,
secondo che sentano timore o dolore o cresca in esse la gioia.
E infatti è possibile conoscer questo in base a fatti palesi.
Quando le larghe morbide labbra dei cani molossi
incominciano a fremere irritate, scoprendo i duri denti,
tirate indietro per la rabbia, minacciano con suono molto diverso
da quando poi latrano ed empiono tutti i luoghi delle loro voci.
Ma, quando prendono a lambire con la lingua carezzevolmente i cuccioli
o li sballottano con le zampe e, minacciando di morderli,
senza stringere i denti fingono di volerli divorare teneramente,
li vezzeggiano col mugolìo in modo molto diverso
da quando lasciati soli in casa abbaiano, o quando
uggiolando scansano col corpo schiacciato a terra le percosse.
E ancora, non si vede che parimenti differisce il nitrito,
quando un polledro nel fiore dell'età infuria fra le cavalle,
colpito dagli sproni di amore alato,
e con le froge dilatate freme movendo all'assalto,
e quando, in altri casi, nitrisce con membra tremanti?
Infine, le specie degli alati e i vari uccelli,
gli sparvieri e le aquile marine e gli smerghi
che cercano il nutrimento e la vita nei salati flutti del mare,
in un tempo diverso gettano gridi di gran lunga diversi
da quando contendono per il cibo e le prede fanno resistenza.
E alcuni mutano col mutare del tempo i rauchi canti,
come le longeve stirpi delle cornacchie e le frotte dei corvi,
di cui si dice che a volte invochino l'acqua e la pioggia,
altre volte chiamino i venti e le brezze.
Dunque, se sensi diversi costringono gli animali,
benché siano privi di parola, a emettere voci diverse,
quanto è più naturale che gli uomini allora abbian potuto
designare cose dissimili con suoni differenti fra loro!
Perché a tale proposito non ti ponga per caso, tacito, questa
domanda, fu il fulmine che portò giù in terra ai mortali il fuoco
dapprincipio; di là si diffonde ogni ardore di fiamme.
Molte cose infatti vediamo accendersi penetrate dai semi delle fiamme
celesti, quando un colpo dal cielo ha dato ad esse il suo calore.
E d'altronde, quando un albero ramoso, battuto dai venti,
vacillando fluttua e si getta sui rami di un altro albero,
si sprigiona il fuoco, cavato fuori dal possente attrito,
prorompe talora il fervido ardore della fiamma,
mentre tra loro i rami e i tronchi si sfregano a vicenda.
E l'una e l'altra di queste cause può aver dato ai mortali il fuoco.
Poi il sole insegnò loro a cuocere il cibo e ad ammollirlo
col calore della fiamma, poiché vedevano molte cose maturare
vinte dalle sferzate dei raggi e dalla calura per i campi.
E di giorno in giorno sempre più a mutare il cibo e la vita
anteriore con nuove scoperte e col fuoco insegnavano loro
quelli che eccellevano per ingegno e vigore d'animo.
I re incominciarono a fondare città e a costruire rocche,
per trovarvi essi stessi difesa e rifugio,
e divisero il bestiame e i campi, e li donarono
secondo la bellezza e la forza e l'ingegno di ciascuno;
perché la bellezza ebbe molto valore e la forza gran pregio.
Più tardi fu scoperta la ricchezza e fu trovato l'oro,
che facilmente tolse onore sia ai belli che ai forti;
al séguito del più ricco difatti gli uomini per lo più s'accodano,
quantunque siano e forti e dotati di bei corpi.
Ma, se si vuol governare la vita secondo la verità,
ricchezza grande è per l'uomo il vivere parcamente
con animo sereno; giacché del poco non c'è mai penuria.
Ma gli uomini vollero essere illustri e potenti,
perché su fondamento stabile perdurasse la loro fortuna
e opulenti potessero condurre una placida vita;
invano, perché, lottando per ascendere al vertice degli onori,
si fecero pieno di insidie il cammino,
e, quand'anche vi giungano, dal vertice l'invidia, come un fulmine,
colpendoli talvolta li precipita con disprezzo nel Tartaro tetro;
perché per l'invidia, come per il fulmine, per lo più ardono
i vertici e tutte le cose che si elevano al disopra di altre;
sì che è molto meglio obbedire quieto
che aspirare al potere supremo e al possesso di regni.
Lascia dunque che invano spossati sudino sangue,
lottando per l'angusto cammino dell'ambizione;
giacché il loro sapere dipende dalla bocca altrui, e mirano alle cose
seguendo ciò che hanno udito dire piuttosto che i propri sensi,
né ciò è ora, né sarà in avvenire più di quanto fu per l'innanzi.
Dunque, uccisi i re, giacevano abbattuti
l'antica maestà dei troni e gli scettri superbi;
e lo splendido ornamento della testa regale, insanguinato,
sotto i piedi del volgo piangeva il grande onore;
con ardore infatti si calpesta ciò che troppo fu prima temuto.
Così le cose eran ridotte a estrema confusione e turbamento,
mentre ognuno cercava per sé il potere e la sovranità.
Poi una parte di essi insegnò a creare magistrati
e fondò il diritto, perché volessero osservare le leggi.
Infatti il genere umano, spossato dal vivere una vita di violenza,
languiva per le inimicizie; perciò tanto più spontaneamente
si sottomise da sé stesso alle leggi e alla stretta giustizia.
Poiché ognuno, difatti, nell'ira s'apprestava a vendetta
più crudele di quella che ora concedono le giuste leggi,
per questo agli uomini venne a tedio il vivere una vita di violenza.
Da allora il timore delle pene guasta i doni della vita.
Giacché violenza e ingiustizia irretiscono ognuno
e per lo più ricadono su colui da cui nacquero,
né trascorrere una vita placida e pacata è facile
per chi vìola coi propri atti i comuni patti di pace.
Infatti, benché sfugga alla stirpe divina e all'umana,
tuttavia non può esser sicuro che il misfatto resterà sempre occulto;
e invero si dice che molti, spesso parlando nel sonno
o delirando per malattia, si tradirono
e manifestarono colpe ‹a lungo› celate.
Ora, quale causa abbia diffuso per le grandi nazioni
la potenza degli dèi e abbia riempito le città di altari
e abbia fatto istituire solenni riti, quei riti
che oggi fioriscono in grandi occasioni e in grandi sedi,
donde ancor oggi è piantato dentro i mortali l'orrore
che innalza nuovi templi di dèi su tutta la terra
e costringe a frequentarli nei giorni festivi,
non è tanto difficile spiegare con parole.
E difatti già allora le stirpi dei mortali vedevano
nelle menti durante la veglia eccellenti immagini di dèi,
e queste in sogno apparivano di ancor più mirabile corporatura.
A queste, dunque, attribuivano il senso perché pareva
che movessero le membra e proferissero parole superbe,
confacenti allo splendido aspetto e alle forze imponenti.
E attribuivano loro vita eterna, perché sempre la loro immagine
si rinnovava e la forma rimaneva inalterata
e, d'altronde, soprattutto perché pensavano che esseri dotati di forze
così grandi non potessero facilmente esser vinti da alcuna forza.
E pensavano che per sorte molto eccellessero,
perché il timore della morte non ne tormentava alcuno,
e insieme perché in sogno li vedevano compiere molte
e mirabili azioni senza risentirne essi stessi alcuna fatica.
Scorgevano inoltre i fenomeni celesti e le varie stagioni
dell'anno rotare secondo un ordine costante,
né potevano conoscere per quali cause questo avvenisse.
Dunque avevano per sé via d'uscita l'assegnare ogni cosa
agli dèi e supporre che al cenno di quelli ogni cosa obbedisse.
E nel cielo collocarono le sedi e le regioni degli dèi,
perché nel cielo si vedono girare la notte e la luna,
la luna, il giorno e la notte, e le severe stelle della notte,
e le faci del cielo che vagano di notte, e le fiamme volanti,
le nubi, il sole, le piogge, la neve, i venti, i fulmini, la grandine,
e i rapidi fremiti e i grandi minacciosi fragori.
O infelice genere umano, quando agli dèi
attribuì tali azioni ed aggiunse ire acerbe!
Che gemiti allora a sé stessi, che piaghe a noi,
che lacrime cagionarono ai nostri discendenti!
Né è punto vera pietà farsi spesso vedere nell'atto di volgersi
velato a un sasso e accostarsi a tutti gli altari,
né gettarsi a terra prosternato e protendere le palme
innanzi ai templi degli dèi, né cospargere gli altari
con molto sangue di quadrupedi, né intrecciar voti a voti,
ma piuttosto il poter contemplare ogni cosa con mente tranquilla.
Difatti, quando leviamo lo sguardo alle celesti plaghe
del vasto mondo, lassù, e all'etere trapunto di stelle fulgenti,
e il pensiero si volge ai corsi del sole e della luna,
allora, contro i petti oppressi da altri mali comincia
a ergere il capo ridesto anche quell'angoscioso pensiero,
che non ci sia per caso su di noi un immenso potere di dèi,
che con vario movimento volga gli astri splendenti.
Ignorando le cause, infatti, la mente è assillata dal dubbio
se mai ci sia stata un'origine primigenia del mondo
e, insieme, se ci sia un termine fino al quale le mura del mondo
possano sopportare questo travaglio di moto affannoso,
oppure, dotate di eterna esistenza dal volere divino,
possano, volando per un tratto ininterrotto di tempo,
disprezzare le possenti forze di un'età immensa.
Oltre a ciò, a chi non si stringe il cuore per timore degli dèi,
a chi non si raggricciano le membra per paura,
quando sotto l'orribile colpo del fulmine la terra arsa
trema tutta e fragori percorrono il vasto cielo?
Non tremano popoli e genti, e i re superbi
non contraggono le membra percossi dal timore degli dèi,
immaginando che per qualche azione turpe o parola superba
sia giunto il penoso tempo di pagare il fio?
E, quando l'enorme forza del vento che imperversa per il mare
spazza via su per l'onde il comandante d'una flotta
insieme con le possenti legioni e gli elefanti,
non cerca egli con voti la pace degli dèi, non invoca pregando
pavido il placarsi dei venti e brezze favorevoli,
ma invano, giacché spesso, afferrato da turbine violento,
vien tuttavia trasportato nelle secche della morte?
A tal punto una forza nascosta schiaccia le cose umane
e sembra calpestare e avere a scherno
gli splendidi fasci e le scuri spietate.
Infine, quando sotto i piedi la terra tutta vacilla
e scosse cadono le città o minacciano di cadere,
che meraviglia se le stirpi mortali disprezzano sé stesse
e ammettono nel mondo vasti poteri e mirabili forze
di dèi che governino tutte le cose?
Quanto al resto, il rame e l'oro e il ferro e, insieme ad essi,
il peso dell'argento e il potere del piombo furono scoperti
quando il fuoco avvampante aveva arso immense selve
su grandi monti, o per un fulmine piombato dal cielo,
o perché gli uomini, guerreggiando tra loro nelle selve,
avevano scagliato il fuoco tra i nemici per atterrirli,
o perché, allettati dalla bontà del terreno, volevano
aprire pingui campi e a pascoli ridurre le campagne,
o far massacro di belve e arricchirsi di preda.
Difatti il cacciare con la fossa e col fuoco sorse prima
che il cingere il bosco con reti e lo scovare la selvaggina coi cani.
Comunque sia, quale che fosse la causa per cui l'ardore
delle fiamme aveva divorato con orrendo fragore le selve
dalle profonde radici e aveva cotto a fondo col fuoco la terra,
colavano dalle vene bollenti confluendo nelle cavità della terra
rivoli d'argento e d'oro e anche di rame e di piombo.
E quando gli uomini li vedevano poi rappresi
risplendere sul suolo di lucido colore,
li raccoglievano, avvinti dalla nitida e levigata bellezza,
e vedevano che erano foggiati in forma simile a quella
che aveva l'impronta dell'incavo di ognuno.
Allora in essi entrava il pensiero che questi, liquefatti al calore,
potessero colando plasmarsi in qualsiasi forma e aspetto di oggetti,
e che martellandoli si potesse forgiarli in punte di pugnali
quanto mai si volesse acute e sottili,
sì da procurarsi armi e poter tagliare selve
ed asciare il legname e piallare e levigare travi
ed anche trapanare e trafiggere e perforare.
E dapprima s'apprestavano a far queste cose con l'argento e l'oro
non meno che con la forza violenta del possente rame,
ma invano, poiché la tempra di quelli vinta cedeva,
né potevano sopportare ugualmente il duro sforzo.
Difatti ‹il rame› era più pregiato e l'oro era trascurato
per l'inutilità, perché si smussava con la punta rintuzzata.
Ora è trascurato il rame, l'oro è asceso al più alto onore.
Così il volgere del tempo tramuta le stagioni delle cose:
ciò che era in pregio, diventa alfine di nessun valore;
quindi subentra un'altra cosa ed esce ‹dal› disprezzo
e sempre più, di giorno in giorno, è desiderata, e una volta scoperta
fiorisce di lodi e gode tra i mortali di mirabile onore.
Ora in qual modo sia stata scoperta la natura del ferro,
ti è facile conoscere da te stesso, o Memmio.
Armi furono in antico le mani, le unghie e i denti
e i sassi, e inoltre i rami spezzati nelle selve,
poi fiamme e fuoco, da quando se n'ebbe la prima conoscenza.
In séguito fu scoperta la forza del ferro e del bronzo.
E l'uso del bronzo fu conosciuto prima di quello del ferro,
in quanto la sua natura è più malleabile e di più esso abbonda.
Col bronzo lavoravano il terreno, e col bronzo agitavano
flutti di guerra e spargevano ferite devastatrici
e depredavano greggi e campi. Infatti tutto quel ch'era nudo
e inerme cedeva facilmente a quelli ch'erano armati.
Poi a poco a poco si fece strada la spada di ferro
e divenne obbrobriosa la foggia della falce di bronzo,
e col ferro incominciarono a solcare il suolo della terra
e furono uguagliati i cimenti della guerra dall'esito incerto.
E montare armato sui fianchi del cavallo e guidarlo
col morso e combattere con la destra, è uso più antico
che tentare i rischi della guerra su un carro a due cavalli.
E due cavalli si usò aggiogare prima che quattro
e prima che salire armati sui carri muniti di falci.
Poi ai bovi lucani dal corpo turrito, spaventosi,
con la proboscide serpentina, i Punici insegnarono a sopportare
in guerra le ferite e a scompigliare le grandi schiere di Marte.
Così la triste discordia produsse, l'una dopo l'altra,
cose fatte per incutere orrore alle genti umane in armi,
e di giorno in giorno fece crescere i terrori della guerra.
Sperimentarono anche tori nelle imprese di guerra
e tentarono d'avventare contro i nemici cinghiali feroci.
E alcuni lanciarono innanzi a sé vigorosi leoni
con domatori armati e spietati maestri,
che potessero guidarli e tenerli in catene,
ma invano, perché, caldi della confusa strage, inferociti,
i leoni scompigliavano le torme senza alcuna distinzione,
squassando dappertutto le criniere terrificanti,
né i cavalieri potevano placare i petti dei cavalli
spauriti al ruggito, né rivolgerli coi freni contro i nemici.
Le leonesse slanciavano d'un balzo, da ogni lato, i corpi concitati,
e s'avventavano ai volti di quelli che andavano incontro ad esse,
e strappavano giù quelli che sorprendevano da tergo
e, avvinghiandosi intorno, li gettavano a terra vinti dalle ferite,
attaccate a loro con i morsi poderosi e gli artigli adunchi.
E i tori sbalzavan via gli uomini della propria schiera e con le zampe
li schiacciavano, e ai cavalli fianchi e ventri trafiggevano di sotto
con le corna, e sconvolgevano il terreno con impeto minaccioso.
E i cinghiali con le zanne poderose massacravano gli alleati,
cospargendo furibondi col proprio sangue i dardi in loro infranti,
[cospargendo col proprio sangue i dardi infranti nei propri corpi]
e atterravano cavalieri e fanti in confusa rovina.
I cavalli infatti cercavano di schivare le feroci zannate gettandosi
di traverso, o impennandosi percotevano l'aria con gli zoccoli,
ma invano, ché si potevano vedere coi garretti troncati
crollare e coprire il terreno con pesante caduta.
Se alcune belve prima gli uomini credevano abbastanza domate
e addomesticate, nel fervere della mischia le vedevano infiammarsi
per le ferite, il clamore, la fuga, il terrore, il tumulto,
né potevano ricondurne indietro alcuna parte;
infatti tutte le varie specie delle fiere fuggivano qua e là;
come ora i bovi lucani, malamente colpiti dal ferro, sovente
fuggono qua e là, dopo aver fatto stragi di amici.
Se avvenne che facessero questo. Ma a stento posso indurmi
a credere che non abbiano potuto presentire e vedere con la mente,
prima che avvenisse, l'atroce male che li avrebbe colpiti tutti;
e meglio potresti asserire che ciò sia avvenuto entro l'universo,
nei vari mondi in varia maniera creati,
anziché su una qualunque determinata ed unica terra.
Ma vollero far questo, non tanto per la speranza di vincere,
quanto per dar motivo di pianto ai nemici, e perire essi stessi,
giacché non confidavano nel numero ed erano privi di armi.
La veste intrecciata precedette l'abito tessuto.
Il tessuto viene dopo il ferro, perché col ferro s'appresta il telaio,
né in altro modo si posson produrre strumenti così levigati,
spole e fusi, navette e rulli sonori.
E a lavorare la lana la natura costrinse gli uomini prima
che la stirpe delle donne (giacché molto eccelle nell'arte
e molto più industriosa è in genere la stirpe virile),
finché i severi contadini fecero di ciò una colpa,
sì che quelli vollero lasciarne la cura a mani femminili
e sopportare essi stessi ugualmente dura fatica
e indurire in duro lavoro le membra e le mani.
Ma esempio per la semina e origine dell'innesto
fu dapprima la stessa natura creatrice delle cose,
perché le bacche e le ghiande cadute dagli alberi facevano
a piè di questi pullulare nella giusta stagione sciami di polloni;
di là venne anche l'idea di inserire germogli nei rami
e di piantare nella terra novelli virgulti per i campi.
Poi tentavano altre e altre colture del caro campicello
e vedevano che i frutti selvatici si ammansivano nel terreno
per effetto di premurosa attenzione e amorevole cura.
E ogni giorno di più costringevano le selve a ritrarsi
in su, sopra i monti, e a far posto in basso alle colture,
per aver prati, stagni, ruscelli, messi e floridi vigneti
sui colli e nelle pianure, e perché la cerula zona
degli ulivi col suo risalto potesse correre in mezzo,
sparsa per poggi e convalli e pianure; come ora vedi
per varia bellezza risaltare tutta la campagna,
che gli uomini ornano piantandovi in mezzo
dolci frutteti e cingono piantando intorno alberi feraci.
Ma l'imitare con la bocca le limpide voci degli uccelli
fu molto prima che gli uomini fossero capaci di praticare
il canto di versi armoniosi e dilettare gli orecchi.
E i sibili dello zefiro per le cavità delle canne dapprima
insegnarono ai campagnoli a soffiare entro cave zampogne.
Poi a poco a poco appresero i dolci lamenti
che effonde il flauto toccato dalle dita dei sonatori,
scoperto fra remoti boschi e selve e pascoli,
nei solinghi luoghi dei pastori e negli ozi divini.
[Così gradatamente il tempo rivela ogni cosa,
e la ragione la innalza alle plaghe della luce.]
Questi suoni carezzavano loro gli animi e davano diletto,
quando erano sazi di cibo; allora infatti tutto è caro al cuore.
Spesso, dunque, familiarmente distesi sull'erba morbida,
presso un ruscello, sotto i rami di un albero alto,
con tenui mezzi davano giocondità ai corpi,
soprattutto quando il tempo arrideva e la stagione
dipingeva di fiori le erbe verdeggianti.
Allora solevano esserci gli scherzi, allora i conversari, allora i dolci
scoppi di gaiezza; allora infatti la musa agreste era in rigoglio;
allora una libera allegria li spingeva a ornare il capo
e le spalle con corone intrecciate di fiori e di foglie,
e ad avanzare in danza senza ritmo, duramente movendo
le membra, e a battere con duro piede la madre terra;
di lì nascevano risa e dolci scoppi di gaiezza, perché allora
tutte queste cose, più nuove e meravigliose, erano pregiate.
E se vegliavano, di qui avevano sollievo per il sonno perduto:
far passare la voce per molti toni e modulare il canto,
e correre col labbro incurvato su per le canne del flauto;
donde venne questa usanza che anche ora conservano le scolte,
e hanno imparato a osservare i tipi dei ritmi, ma intanto
non colgono affatto un frutto di dolcezza maggiore di quello
che coglieva la stirpe silvestre dei figli della terra.
Difatti ciò che è a disposizione, se non abbiamo conosciuto prima
qualche cosa di più dolce, ci piace sopra tutto e sembra prevalere,
ma per lo più una scoperta posteriore lo annienta
e muta il nostro sentire riguardo a ogni cosa passata.
Così nacque l'avversione per le ghiande, così furono abbandonati
quei giacigli cosparsi di erbe e guarniti di fronde.
Cadde anche nel disprezzo la veste di pelle ferina;
che, quando fu scoperta, suscitò, io credo, tale invidia
da cagionare insidie e morte a chi la indossò per primo;
e tuttavia, lacerata da coloro che se la strappavan di mano,
fra molto sangue fu distrutta senza poter giovare.
Allora, dunque, le pelli, ora l'oro e la porpora tormentano
con affannosi desideri la vita degli uomini e l'affaticano in guerra;
e perciò, come credo, la colpa maggiore sta in noi.
Infatti, nudi, senza pelli, i figli della terra erano martoriati
dal freddo; ma a noi non nuoce affatto l'esser privi
d'una veste di porpora e adorna d'oro e di grandi figure,
purché abbiamo una veste plebea che possa proteggerci.
Dunque il genere umano a vuoto e invano si travaglia
sempre e consuma ‹in› affanni inutili la vita,
certo perché non conosce quale sia il limite del possesso
e generalmente fino a qual punto cresca il vero piacere.
E questo a poco a poco ha sospinto la vita in alto mare
e ha suscitato dal profondo grandi tempeste di guerra.
Ma quelle scolte, il sole e la luna, con la loro luce
percorrendo tutt'intorno la grande, rotante volta del cielo,
insegnarono agli uomini che le stagioni ruotano e che la cosa
si svolge secondo un costante piano e un ordine costante.
Già protetti da torri possenti passavano la vita
e divisa e distinta da confini era coltivata la terra,
e inoltre il mare fioriva di navi volanti con le vele,
già per patti fissati avevano ausiliari e alleati, quando i poeti
cominciarono a tramandare coi canti le gesta compiute;
né molto prima furono scoperte le lettere dell'alfabeto.
Perciò la nostra età non può discernere quel che è avvenuto prima,
tranne che il ragionamento in qualche modo non le mostri le tracce.
Navi e colture dei campi, mura, leggi,
armi, vie, vesti ‹e› le altre cose siffatte,
i doni e anche le delizie della vita, tutte quante,
canti, pitture e statue lavorate con arte, levigate, gradatamente
li insegnarono la pratica e, insieme, lo sperimentare
della mente alacre agli uomini avanzanti passo passo.
Così gradatamente il tempo rivela ogni cosa
e la ragione la innalza alle plaghe della luce.
Difatti con la mente vedevano chiarirsi una cosa dall'altra,
finché con le arti giunsero al culmine più alto.


LIBRO VI

Quanto al resto, poiché ho spiegato come ogni cosa
possa avvenire per i ceruli spazi del vasto mondo,
sì che potessimo conoscere quale forza e causa produca
i vari corsi del sole e i movimenti della luna,
e in che modo quegli astri, oscurata la luce, ‹possano› eclissarsi
e coprire di tenebre la terra che non le aspettava,
quando pare che chiudano gli occhi e poi, apertili di nuovo,
frugano ogni luogo che si imbianca di chiara luce,
ora torno alla giovinezza del mondo e ai molli campi della terra,
e dirò che cosa dapprima essi s'indussero a levare, con nuova
procreazione, alle plaghe della luce e affidare ai volubili venti.
Da principio la terra produsse la famiglia delle erbe
e il verde splendore intorno ai colli e per tutti i piani,
i floridi prati rifulsero di verdeggiante colore,
e ai vari alberi in séguito fu dato di gareggiare
grandemente nel crescere per l'aria a briglie sciolte.
Come sulle membra dei quadrupedi e sul corpo
dei pennuti spuntano dapprima piume e peli e setole,
così allora la giovane terra generò dapprima erbe e virgulti,
in séguito creò le stirpi mortali,
che nacquero in gran numero, in molti modi, con varie forme.
Infatti non possono esser caduti dal cielo gli animali,
né le specie terrestri essere uscite dai salati abissi.
Resta che a ragione la terra ha ricevuto il nome di madre
poiché dalla terra traggono origine tutte le creature.
Ed anche ora molti animali sorgono dalla terra,
generati dalle piogge e dall'ardente calore del sole;
perciò non c'è da stupire se più numerosi ne nacquero allora,
e più grandi, essendo cresciuti quando terra e cielo eran giovani.
Da principio la specie degli alati e i vari uccelli
lasciavano le uova, uscendo dai gusci in primavera,
come ora d'estate le cicale spontaneamente abbandonano
i tondeggianti involucri per cercare il cibo e la vita.
Allora, vedi, la terra cominciò a produrre le stirpi mortali.
Molto calore, infatti, e umidità sovrabbondavano nei campi.
Perciò, ovunque si offriva idonea disposizione di luogo,
crescevano uteri attaccati alla terra con radici;
e quando, maturato il tempo, li aveva aperti l'età
degli infanti, fuggendo l'umidità e cercando l'aria,
lì la natura rivolgeva i canali della terra
e li costringeva a versare dalle vene aperte un succo
simile al latte, come ora ogni femmina,
quando ha partorito, s'empie di dolce latte, perché tutto
alle mammelle converge l'impeto del suo alimento.
La terra offriva ai bimbi il cibo, il calore una veste, l'erba
un giaciglio riboccante di molta e morbida lanugine.
Ma la giovinezza del mondo non produceva rigidi freddi,
né eccessivi calori, né venti di forze possenti.
Tutte le cose infatti di pari passo crescono e prendono vigore.
Perciò, ancora e ancora, la terra a ragione ha ricevuto
e conserva il nome di madre, poiché da sé essa creò
il genere umano e, quasi a un momento stabilito, partorì
ogni animale che sui grandi monti scorrazza selvaggio
e insieme gli uccelli dell'aria nelle varie forme.
Ma, poiché il suo partorire deve avere un termine,
essa cessò, come donna fiaccata da vecchiezza.
Il tempo infatti muta la natura di tutto il mondo,
e in tutte le cose a uno stato deve subentrarne un altro,
né alcunché resta simile a sé stesso: tutte le cose passano,
tutte la natura le trasmuta e le costringe a trasformarsi.
Giacché una imputridisce e fiaccata dal tempo langue,
poi un'altra cresce ed esce ‹dalle› condizioni di disprezzo.
Così dunque il tempo muta la natura di tutto il mondo,
e nella terra a uno stato ne subentra un altro, sicché non può
produrre ciò che poté, ma può ciò che non poté in passato.
E anche molti portenti allora la terra tentò di creare,
nati con facce e membra strane: l'androgino, che sta tra i due
sessi, e non è né l'uno, né l'altro, ma è lontano da ambedue;
alcune creature prive di piedi, altre mancanti, a loro volta,
di mani, o anche mute senza la bocca, o ch'erano cieche
senza gli occhi, o avviluppate in tutto il corpo per l'aderire delle membra,
sì che non potevano fare alcunché, né muoversi verso alcun luogo,
né evitare un danno, né prendere ciò che era necessario.
Ogni altro mostro e portento di questa specie essa creava,
ma invano, perché la natura ne impedì la crescita,
né poterono attingere il bramato fiore dell'età,
né trovare cibo, né congiungersi con gli atti di Venere.
Molte cose vediamo infatti che devono concorrere negli esseri
perché possano generare e propagare le stirpi;
bisogna anzitutto che abbiano di che nutrirsi, poi passaggi per cui
i semi genitali possano scorrere attraverso i corpi ed emanare
dalle membra rilassate; e, affinché la femmina possa congiungersi col maschio,
devono avere ambedue ciò che occorre per scambiarsi vicendevoli piaceri.
E molte stirpi di esseri viventi dovettero allora soccombere
e non poterono generare e propagare la prole.
Giacché tutte quelle che vedi respirare le aure vitali,
o l'astuzia o la forza o almeno la velocità le protesse
dal principio dell'esistenza e ne conservò le generazioni.
E molte ce ne sono che, raccomandate a noi
dalla loro utilità, furono affidate alla nostra tutela.
In primo luogo alla fiera progenie dei leoni e alle stirpi selvagge
fornì difesa la forza, alle volpi l'astuzia e ai cervi la fuga.
Ma i cani dal sonno leggero, che nei petti hanno cuori fedeli,
e ogni progenie nata dal seme delle bestie da soma
e insieme le greggi lanose e le cornute stirpi dei buoi,
tutti furono affidati alla tutela degli uomini, o Memmio.
Ardentemente infatti fuggirono le fiere e cercarono pace
e copiose pasture ottenute senza loro fatica,
cose che noi diamo loro in ricompensa della loro utilità.
Ma quelli cui la natura non diede nulla di ciò,
né di vivere da sé stessi liberamente, né di rendere a noi
qualche servigio per cui consentissimo alla loro progenie
di nutrirsi e di vivere sicura sotto la nostra protezione,
questi certo soggiacevano ad altri come preda e bottino,
inceppati come erano tutti dalle loro catene fatali,
finché la natura ne portò la progenie ad estinzione.
Ma non ci furono Centauri, né in alcun tempo
possono esistere esseri di duplice natura e di corpo doppio,
messi insieme con membra eterogenee, così che le facoltà di creature
nate da questa specie e da quella possano corrispondere abbastanza.
Ciò si può conoscere di qui, anche con mente ottusa.
Anzitutto, nel giro di tre anni il focoso cavallo
è nel suo fiore, ma il bambino per niente; ché spesso ancora
cercherà nel sonno i capezzoli del seno materno colmi di latte.
Poi, quando al cavallo per vecchiaia vengon meno le forze
poderose e languiscono le membra per il fuggire della vita,
solo allora il fanciullo raggiunge il fiore dell'età e comincia
per lui la gioventù, che gli veste di morbida lanugine le guance.
Non ti avvenga, dunque, di credere che dall'uomo e dal seme
di bestie da soma, dei cavalli, possan formarsi Centauri,
ed esistere, o Scille coi corpi semimarini, cinte di rabbiosi cani,
e tutti gli altri esseri di questa fatta,
le cui membra vediamo discordanti fra loro;
che nello stesso tempo né fioriscono, né prendono il vigore
del corpo, né lo perdono a causa della vecchiaia,
né di simile amore ardono, né armonizzano per abitudini
uniformi, né identiche sono le cose che giovano alle loro membra.
Spesso infatti si può vedere che le barbute capre ingrassano
con la cicuta, mentre questa per l'uomo è violento veleno.
Poiché, ‹d'altra parte,› la fiamma suole cuocere e bruciare
i corpi fulvi dei leoni, tanto quanto qualunque altra specie
di carne e sangue che esiste sulla terra,
come sarebbe potuto avvenire che un unico essere con triplice corpo,
nella parte anteriore leone, nella posteriore drago, nella mediana lei,
la Chimera, spirasse per la bocca una fiamma violenta uscita dal corpo?
Così, dunque, chi immagina che tali animali potessero nascere
quando la terra era giovane e il cielo da poco formato,
fondandosi soltanto su questo vano nome di gioventù,
molte cose similmente può dire a vanvera;
può dire che allora fiumi d'oro scorrevano sulla terra ovunque
e che gli alberi comunemente fiorivano di pietre preziose
o che nacque un uomo con membra tanto gigantesche
da poter con un passo poggiare il piede di là da mari profondi
e con le mani rotare intorno a sé tutto il cielo.
Ché, se la terra contenne molti semi di cose
nel tempo in cui il suolo cominciò a produrre gli animali,
questo tuttavia non è segno che si siano potute creare
bestie miste fra loro e membra accozzate di esseri viventi,
poiché le specie delle erbe e le messi e gli alberi rigogliosi,
che tuttora pullulano in abbondanza dalla terra,
non posson tuttavia nascere intrecciati fra loro,
ma ognuna di queste cose procede secondo un proprio modo
e tutte per salda legge di natura conservano le differenze.
Ma la stirpe umana che visse allora nei campi fu molto
più dura, com'era naturale, ché la dura terra l'aveva creata;
e nell'interno del corpo fu piantata su ossa più grandi
e più salde, connessa attraverso le carni da nervi poderosi,
tale che non poteva facilmente esser vinta dal caldo, né dal freddo,
né da cibo inconsueto, né da alcun difetto del corpo.
E, durante il corso di molti lustri del sole per il cielo,
conducevano la vita a guisa di fiere vagabonde.
Non c'era nessuno che robusto reggesse l'aratro ricurvo,
nessuno sapeva lavorare i campi col ferro,
né piantare nella terra i virgulti novelli, né dagli alti
alberi tagliar via coi falcetti i rami vecchi.
Ciò che donavano il sole e le piogge, ciò che produceva
di per sé la terra, era un dono bastevole a placare quei petti.
Tra le querce cariche di ghiande per lo più ristoravano i corpi;
e le corbezzole, che ora nella stagione invernale vedi
farsi mature, di colore purpureo, allora la terra
le produceva in grandissimo numero e anche più grosse.
E la fiorente gioventù del mondo produsse allora
molti altri rudi alimenti, abbondanza per i miseri mortali.
Ma a sedare la sete li chiamavano i fiumi e le fonti,
come ora il torrente, che precipita giù dai grandi monti,
chiama per ampio spazio col chiaro suono sitibonde famiglie di fiere.
Occupavano infine i silvestri recessi delle ninfe, scoperti
nel loro vagare, dai quali sapevano che rivoli d'acqua
fluivano con larga corrente lavando le umide rocce,
le umide rocce, stillanti sopra il verde muschio,
mentre altri scaturivano ed erompevano per la piana campagna.
E non sapevano ancora trattare le cose col fuoco,
né servirsi di pelli e vestire il corpo con spoglie di fiere,
ma abitavano boschi e caverne montane e selve
e nascondevano le scabre membra tra le macchie,
quando eran costretti a evitare sferzate di venti e piogge.
Né erano capaci di mirare al bene comune,
né sapevano valersi di costumi e di leggi nei loro rapporti.
Ciò che a ciascuno la fortuna aveva offerto come preda, ciascuno
se lo prendeva, avvezzo a usare la forza e a vivere da sé, per sé stesso.
E Venere nelle selve congiungeva i corpi degli amanti;
conquistava infatti la donna o un reciproco desiderio
o la violenta forza dell'uomo e la sua brama intensa
o una mercede: ghiande e corbezzole o pere scelte.
E, confidando nella meravigliosa forza delle mani e dei piedi,
davano la caccia alle silvestri stirpi delle fiere
con lancio di sassi e con clave pesanti;
e molte ne vincevano, poche ne evitavano nascondendosi;
e, come setolosi cinghiali, abbandonavano sulla terra
nude le membra silvestri, quando li sorprendeva la notte,
avvolgendosi, tutt'intorno, di foglie e di fronde.
Né con grande lamento cercavano il giorno e il sole
per i campi vagando paurosi tra le ombre della notte,
ma taciti e sepolti nel sonno aspettavano
che con la rosea fiaccola il sole portasse la luce nel cielo.
E infatti, poiché dalla fanciullezza s'erano abituati a vedere
sempre le tenebre e la luce prodursi in tempi alterni,
non poteva avvenire mai che li colpisse meraviglia
o il timore che una notte senza fine occupasse la terra
e il lume del sole fosse stato rapito per sempre.
Ma più angoscioso era questo, che le stirpi ferine
spesso a quei miseri facevano tribolato il riposo.
E, scacciati dalla loro dimora, fuggivano i rocciosi ripari
all'arrivo d'un cinghiale schiumante o d'un possente leone,
e a notte fonda atterriti cedevano
agli ospiti feroci i covili coperti di fronde.
Né allora molto più che ora le stirpi mortali
lasciavano con lamenti la dolce luce della vita.
Certo, allora più spesso qualcuno di loro, sorpreso,
offriva pasto vivente alle fiere, dilaniato dalle zanne,
e riempiva di lamenti boschi e monti e selve,
vedendo le proprie vive carni seppellite in un vivo sepolcro.
E quelli che si erano salvati fuggendo col corpo lacerato,
poi, tenendo le mani tremanti sopra le orribili piaghe,
invocavano con grida spaventose Orco,
finché spasimi crudeli li privavano della vita,
senza aiuto, ignari delle cure che le ferite reclamavano.
Tuttavia molte migliaia di uomini adunate sotto le insegne
non dava a morte un solo giorno, né le procellose acque
del mare gettavano navi e uomini a infrangersi contro gli scogli;
ma alla cieca, a vuoto, invano il mare spesso si sollevava
imperversando, e facilmente deponeva le inutili minacce,
né la lusinga della bonaccia poteva subdola
trarre in inganno qualcuno col sorridere delle onde.
La rovinosa arte del navigare giaceva allora ignorata.
Allora la penuria di cibo dava alla morte le membra
languenti, ora al contrario le sommerge l'abbondanza.
Per ignoranza gli uomini d'allora spesso versavano il veleno
a sé stessi, quelli d'ora più scaltramente lo danno essi ‹agli altri.›
Poi, quando si provvidero di capanne e di pelli e di fuoco,
e la donna congiunta con l'uomo passò ad un solo

*

furono conosciuti, ed essi videro la prole nata da loro,
allora primamente il genere umano cominciò a dirozzarsi.
Il fuoco infatti fece sì che i corpi freddolosi non potessero più
sopportare bene il freddo sotto la volta del cielo,
e Venere diminuì le forze, e i bambini con le carezze
facilmente vinsero l'indole fiera dei genitori.
Allora cominciarono anche a stringere amicizia fra loro
i vicini, desiderando non nuocere e non subire violenza,
e si affidarono l'un l'altro i fanciulli e le donne,
con balbettanti voci e col gesto significando
che era giusto che tutti avessero pietà per i deboli.
Né tuttavia poteva la concordia nascere sempre, ma una buona,
una gran parte degli uomini osservava i patti fedelmente;
altrimenti il genere umano già allora sarebbe perito tutto,
né il suo propagarsi avrebbe potuto far durare fino ad ora le stirpi.
I vari suoni della lingua, poi, fu la natura che costrinse
ad emetterli, e l'utilità foggiò i nomi delle cose,
in modo non molto diverso da quello in cui si vede che la stessa
incapacità della lingua a esprimere parole induce i bimbi a gestire,
quando fa che mostrino a dito le cose che sono presenti.
Difatti ognuno sente per qual uso possa valersi delle proprie facoltà.
Il vitello, prima che le corna gli siano spuntate e sporgano
dalla fronte, con esse irato assale e ostile incalza.
Dal canto loro, i cuccioli delle pantere e i leoncini
si difendono con unghie e zampe e morsi già quando
denti e unghie non sono ancora ben formati.
Vediamo poi ogni specie di uccelli affidarsi alle ali
e chiedere alle penne un aiuto che ancora è tremolante.
Perciò pensare che qualcuno allora abbia assegnato i nomi
alle cose e che da lui gli uomini abbiano imparato i primi vocaboli,
è follia. Infatti, perché colui avrebbe potuto designare con parole
ogni cosa ed emettere i vari suoni della lingua, ma si dovrebbe
credere che nello stesso tempo altri non abbiano potuto farlo?
Inoltre, se delle parole non avevano fatto uso fra loro
anche altri, donde fu impressa in quello la nozione
della loro utilità e donde fu data a lui per primo la facoltà
di sapere e di vedere nella mente che cosa volesse fare?
Parimenti, non poteva uno solo costringer molti e vincerli
e domarli, sì che acconsentissero a imparare i nomi delle cose.
Né in alcun modo è facile insegnare a sordi e persuaderli
di ciò che bisogna fare; difatti non lo sopporterebbero,
né in alcun modo tollererebbero che inauditi suoni di voce
più volte assordassero le loro orecchie invano.
Infine, che c'è di tanto sorprendente in questo,
se il genere umano, che aveva voce e lingua vigorose,
secondo le diverse impressioni designava le cose con suoni diversi?
Quando le greggi prive di parola, quando perfino le stirpi
delle fiere son solite formare voci dissimili e varie,
secondo che sentano timore o dolore o cresca in esse la gioia.
E infatti è possibile conoscer questo in base a fatti palesi.
Quando le larghe morbide labbra dei cani molossi
incominciano a fremere irritate, scoprendo i duri denti,
tirate indietro per la rabbia, minacciano con suono molto diverso
da quando poi latrano ed empiono tutti i luoghi delle loro voci.
Ma, quando prendono a lambire con la lingua carezzevolmente i cuccioli
o li sballottano con le zampe e, minacciando di morderli,
senza stringere i denti fingono di volerli divorare teneramente,
li vezzeggiano col mugolìo in modo molto diverso
da quando lasciati soli in casa abbaiano, o quando
uggiolando scansano col corpo schiacciato a terra le percosse.
E ancora, non si vede che parimenti differisce il nitrito,
quando un polledro nel fiore dell'età infuria fra le cavalle,
colpito dagli sproni di amore alato,
e con le froge dilatate freme movendo all'assalto,
e quando, in altri casi, nitrisce con membra tremanti?
Infine, le specie degli alati e i vari uccelli,
gli sparvieri e le aquile marine e gli smerghi
che cercano il nutrimento e la vita nei salati flutti del mare,
in un tempo diverso gettano gridi di gran lunga diversi
da quando contendono per il cibo e le prede fanno resistenza.
E alcuni mutano col mutare del tempo i rauchi canti,
come le longeve stirpi delle cornacchie e le frotte dei corvi,
di cui si dice che a volte invochino l'acqua e la pioggia,
altre volte chiamino i venti e le brezze.
Dunque, se sensi diversi costringono gli animali,
benché siano privi di parola, a emettere voci diverse,
quanto è più naturale che gli uomini allora abbian potuto
designare cose dissimili con suoni differenti fra loro!
Perché a tale proposito non ti ponga per caso, tacito, questa
domanda, fu il fulmine che portò giù in terra ai mortali il fuoco
dapprincipio; di là si diffonde ogni ardore di fiamme.
Molte cose infatti vediamo accendersi penetrate dai semi delle fiamme
celesti, quando un colpo dal cielo ha dato ad esse il suo calore.
E d'altronde, quando un albero ramoso, battuto dai venti,
vacillando fluttua e si getta sui rami di un altro albero,
si sprigiona il fuoco, cavato fuori dal possente attrito,
prorompe talora il fervido ardore della fiamma,
mentre tra loro i rami e i tronchi si sfregano a vicenda.
E l'una e l'altra di queste cause può aver dato ai mortali il fuoco.
Poi il sole insegnò loro a cuocere il cibo e ad ammollirlo
col calore della fiamma, poiché vedevano molte cose maturare
vinte dalle sferzate dei raggi e dalla calura per i campi.
E di giorno in giorno sempre più a mutare il cibo e la vita
anteriore con nuove scoperte e col fuoco insegnavano loro
quelli che eccellevano per ingegno e vigore d'animo.
I re incominciarono a fondare città e a costruire rocche,
per trovarvi essi stessi difesa e rifugio,
e divisero il bestiame e i campi, e li donarono
secondo la bellezza e la forza e l'ingegno di ciascuno;
perché la bellezza ebbe molto valore e la forza gran pregio.
Più tardi fu scoperta la ricchezza e fu trovato l'oro,
che facilmente tolse onore sia ai belli che ai forti;
al séguito del più ricco difatti gli uomini per lo più s'accodano,
quantunque siano e forti e dotati di bei corpi.
Ma, se si vuol governare la vita secondo la verità,
ricchezza grande è per l'uomo il vivere parcamente
con animo sereno; giacché del poco non c'è mai penuria.
Ma gli uomini vollero essere illustri e potenti,
perché su fondamento stabile perdurasse la loro fortuna
e opulenti potessero condurre una placida vita;
invano, perché, lottando per ascendere al vertice degli onori,
si fecero pieno di insidie il cammino,
e, quand'anche vi giungano, dal vertice l'invidia, come un fulmine,
colpendoli talvolta li precipita con disprezzo nel Tartaro tetro;
perché per l'invidia, come per il fulmine, per lo più ardono
i vertici e tutte le cose che si elevano al disopra di altre;
sì che è molto meglio obbedire quieto
che aspirare al potere supremo e al possesso di regni.
Lascia dunque che invano spossati sudino sangue,
lottando per l'angusto cammino dell'ambizione;
giacché il loro sapere dipende dalla bocca altrui, e mirano alle cose
seguendo ciò che hanno udito dire piuttosto che i propri sensi,
né ciò è ora, né sarà in avvenire più di quanto fu per l'innanzi.
Dunque, uccisi i re, giacevano abbattuti
l'antica maestà dei troni e gli scettri superbi;
e lo splendido ornamento della testa regale, insanguinato,
sotto i piedi del volgo piangeva il grande onore;
con ardore infatti si calpesta ciò che troppo fu prima temuto.
Così le cose eran ridotte a estrema confusione e turbamento,
mentre ognuno cercava per sé il potere e la sovranità.
Poi una parte di essi insegnò a creare magistrati
e fondò il diritto, perché volessero osservare le leggi.
Infatti il genere umano, spossato dal vivere una vita di violenza,
languiva per le inimicizie; perciò tanto più spontaneamente
si sottomise da sé stesso alle leggi e alla stretta giustizia.
Poiché ognuno, difatti, nell'ira s'apprestava a vendetta
più crudele di quella che ora concedono le giuste leggi,
per questo agli uomini venne a tedio il vivere una vita di violenza.
Da allora il timore delle pene guasta i doni della vita.
Giacché violenza e ingiustizia irretiscono ognuno
e per lo più ricadono su colui da cui nacquero,
né trascorrere una vita placida e pacata è facile
per chi vìola coi propri atti i comuni patti di pace.
Infatti, benché sfugga alla stirpe divina e all'umana,
tuttavia non può esser sicuro che il misfatto resterà sempre occulto;
e invero si dice che molti, spesso parlando nel sonno
o delirando per malattia, si tradirono
e manifestarono colpe ‹a lungo› celate.
Ora, quale causa abbia diffuso per le grandi nazioni
la potenza degli dèi e abbia riempito le città di altari
e abbia fatto istituire solenni riti, quei riti
che oggi fioriscono in grandi occasioni e in grandi sedi,
donde ancor oggi è piantato dentro i mortali l'orrore
che innalza nuovi templi di dèi su tutta la terra
e costringe a frequentarli nei giorni festivi,
non è tanto difficile spiegare con parole.
E difatti già allora le stirpi dei mortali vedevano
nelle menti durante la veglia eccellenti immagini di dèi,
e queste in sogno apparivano di ancor più mirabile corporatura.
A queste, dunque, attribuivano il senso perché pareva
che movessero le membra e proferissero parole superbe,
confacenti allo splendido aspetto e alle forze imponenti.
E attribuivano loro vita eterna, perché sempre la loro immagine
si rinnovava e la forma rimaneva inalterata
e, d'altronde, soprattutto perché pensavano che esseri dotati di forze
così grandi non potessero facilmente esser vinti da alcuna forza.
E pensavano che per sorte molto eccellessero,
perché il timore della morte non ne tormentava alcuno,
e insieme perché in sogno li vedevano compiere molte
e mirabili azioni senza risentirne essi stessi alcuna fatica.
Scorgevano inoltre i fenomeni celesti e le varie stagioni
dell'anno rotare secondo un ordine costante,
né potevano conoscere per quali cause questo avvenisse.
Dunque avevano per sé via d'uscita l'assegnare ogni cosa
agli dèi e supporre che al cenno di quelli ogni cosa obbedisse.
E nel cielo collocarono le sedi e le regioni degli dèi,
perché nel cielo si vedono girare la notte e la luna,
la luna, il giorno e la notte, e le severe stelle della notte,
e le faci del cielo che vagano di notte, e le fiamme volanti,
le nubi, il sole, le piogge, la neve, i venti, i fulmini, la grandine,
e i rapidi fremiti e i grandi minacciosi fragori.
O infelice genere umano, quando agli dèi
attribuì tali azioni ed aggiunse ire acerbe!
Che gemiti allora a sé stessi, che piaghe a noi,
che lacrime cagionarono ai nostri discendenti!
Né è punto vera pietà farsi spesso vedere nell'atto di volgersi
velato a un sasso e accostarsi a tutti gli altari,
né gettarsi a terra prosternato e protendere le palme
innanzi ai templi degli dèi, né cospargere gli altari
con molto sangue di quadrupedi, né intrecciar voti a voti,
ma piuttosto il poter contemplare ogni cosa con mente tranquilla.
Difatti, quando leviamo lo sguardo alle celesti plaghe
del vasto mondo, lassù, e all'etere trapunto di stelle fulgenti,
e il pensiero si volge ai corsi del sole e della luna,
allora, contro i petti oppressi da altri mali comincia
a ergere il capo ridesto anche quell'angoscioso pensiero,
che non ci sia per caso su di noi un immenso potere di dèi,
che con vario movimento volga gli astri splendenti.
Ignorando le cause, infatti, la mente è assillata dal dubbio
se mai ci sia stata un'origine primigenia del mondo
e, insieme, se ci sia un termine fino al quale le mura del mondo
possano sopportare questo travaglio di moto affannoso,
oppure, dotate di eterna esistenza dal volere divino,
possano, volando per un tratto ininterrotto di tempo,
disprezzare le possenti forze di un'età immensa.
Oltre a ciò, a chi non si stringe il cuore per timore degli dèi,
a chi non si raggricciano le membra per paura,
quando sotto l'orribile colpo del fulmine la terra arsa
trema tutta e fragori percorrono il vasto cielo?
Non tremano popoli e genti, e i re superbi
non contraggono le membra percossi dal timore degli dèi,
immaginando che per qualche azione turpe o parola superba
sia giunto il penoso tempo di pagare il fio?
E, quando l'enorme forza del vento che imperversa per il mare
spazza via su per l'onde il comandante d'una flotta
insieme con le possenti legioni e gli elefanti,
non cerca egli con voti la pace degli dèi, non invoca pregando
pavido il placarsi dei venti e brezze favorevoli,
ma invano, giacché spesso, afferrato da turbine violento,
vien tuttavia trasportato nelle secche della morte?
A tal punto una forza nascosta schiaccia le cose umane
e sembra calpestare e avere a scherno
gli splendidi fasci e le scuri spietate.
Infine, quando sotto i piedi la terra tutta vacilla
e scosse cadono le città o minacciano di cadere,
che meraviglia se le stirpi mortali disprezzano sé stesse
e ammettono nel mondo vasti poteri e mirabili forze
di dèi che governino tutte le cose?
Quanto al resto, il rame e l'oro e il ferro e, insieme ad essi,
il peso dell'argento e il potere del piombo furono scoperti
quando il fuoco avvampante aveva arso immense selve
su grandi monti, o per un fulmine piombato dal cielo,
o perché gli uomini, guerreggiando tra loro nelle selve,
avevano scagliato il fuoco tra i nemici per atterrirli,
o perché, allettati dalla bontà del terreno, volevano
aprire pingui campi e a pascoli ridurre le campagne,
o far massacro di belve e arricchirsi di preda.
Difatti il cacciare con la fossa e col fuoco sorse prima
che il cingere il bosco con reti e lo scovare la selvaggina coi cani.
Comunque sia, quale che fosse la causa per cui l'ardore
delle fiamme aveva divorato con orrendo fragore le selve
dalle profonde radici e aveva cotto a fondo col fuoco la terra,
colavano dalle vene bollenti confluendo nelle cavità della terra
rivoli d'argento e d'oro e anche di rame e di piombo.
E quando gli uomini li vedevano poi rappresi
risplendere sul suolo di lucido colore,
li raccoglievano, avvinti dalla nitida e levigata bellezza,
e vedevano che erano foggiati in forma simile a quella
che aveva l'impronta dell'incavo di ognuno.
Allora in essi entrava il pensiero che questi, liquefatti al calore,
potessero colando plasmarsi in qualsiasi forma e aspetto di oggetti,
e che martellandoli si potesse forgiarli in punte di pugnali
quanto mai si volesse acute e sottili,
sì da procurarsi armi e poter tagliare selve
ed asciare il legname e piallare e levigare travi
ed anche trapanare e trafiggere e perforare.
E dapprima s'apprestavano a far queste cose con l'argento e l'oro
non meno che con la forza violenta del possente rame,
ma invano, poiché la tempra di quelli vinta cedeva,
né potevano sopportare ugualmente il duro sforzo.
Difatti ‹il rame› era più pregiato e l'oro era trascurato
per l'inutilità, perché si smussava con la punta rintuzzata.
Ora è trascurato il rame, l'oro è asceso al più alto onore.
Così il volgere del tempo tramuta le stagioni delle cose:
ciò che era in pregio, diventa alfine di nessun valore;
quindi subentra un'altra cosa ed esce ‹dal› disprezzo
e sempre più, di giorno in giorno, è desiderata, e una volta scoperta
fiorisce di lodi e gode tra i mortali di mirabile onore.
Ora in qual modo sia stata scoperta la natura del ferro,
ti è facile conoscere da te stesso, o Memmio.
Armi furono in antico le mani, le unghie e i denti
e i sassi, e inoltre i rami spezzati nelle selve,
poi fiamme e fuoco, da quando se n'ebbe la prima conoscenza.
In séguito fu scoperta la forza del ferro e del bronzo.
E l'uso del bronzo fu conosciuto prima di quello del ferro,
in quanto la sua natura è più malleabile e di più esso abbonda.
Col bronzo lavoravano il terreno, e col bronzo agitavano
flutti di guerra e spargevano ferite devastatrici
e depredavano greggi e campi. Infatti tutto quel ch'era nudo
e inerme cedeva facilmente a quelli ch'erano armati.
Poi a poco a poco si fece strada la spada di ferro
e divenne obbrobriosa la foggia della falce di bronzo,
e col ferro incominciarono a solcare il suolo della terra
e furono uguagliati i cimenti della guerra dall'esito incerto.
E montare armato sui fianchi del cavallo e guidarlo
col morso e combattere con la destra, è uso più antico
che tentare i rischi della guerra su un carro a due cavalli.
E due cavalli si usò aggiogare prima che quattro
e prima che salire armati sui carri muniti di falci.
Poi ai bovi lucani dal corpo turrito, spaventosi,
con la proboscide serpentina, i Punici insegnarono a sopportare
in guerra le ferite e a scompigliare le grandi schiere di Marte.
Così la triste discordia produsse, l'una dopo l'altra,
cose fatte per incutere orrore alle genti umane in armi,
e di giorno in giorno fece crescere i terrori della guerra.
Sperimentarono anche tori nelle imprese di guerra
e tentarono d'avventare contro i nemici cinghiali feroci.
E alcuni lanciarono innanzi a sé vigorosi leoni
con domatori armati e spietati maestri,
che potessero guidarli e tenerli in catene,
ma invano, perché, caldi della confusa strage, inferociti,
i leoni scompigliavano le torme senza alcuna distinzione,
squassando dappertutto le criniere terrificanti,
né i cavalieri potevano placare i petti dei cavalli
spauriti al ruggito, né rivolgerli coi freni contro i nemici.
Le leonesse slanciavano d'un balzo, da ogni lato, i corpi concitati,
e s'avventavano ai volti di quelli che andavano incontro ad esse,
e strappavano giù quelli che sorprendevano da tergo
e, avvinghiandosi intorno, li gettavano a terra vinti dalle ferite,
attaccate a loro con i morsi poderosi e gli artigli adunchi.
E i tori sbalzavan via gli uomini della propria schiera e con le zampe
li schiacciavano, e ai cavalli fianchi e ventri trafiggevano di sotto
con le corna, e sconvolgevano il terreno con impeto minaccioso.
E i cinghiali con le zanne poderose massacravano gli alleati,
cospargendo furibondi col proprio sangue i dardi in loro infranti,
[cospargendo col proprio sangue i dardi infranti nei propri corpi]
e atterravano cavalieri e fanti in confusa rovina.
I cavalli infatti cercavano di schivare le feroci zannate gettandosi
di traverso, o impennandosi percotevano l'aria con gli zoccoli,
ma invano, ché si potevano vedere coi garretti troncati
crollare e coprire il terreno con pesante caduta.
Se alcune belve prima gli uomini credevano abbastanza domate
e addomesticate, nel fervere della mischia le vedevano infiammarsi
per le ferite, il clamore, la fuga, il terrore, il tumulto,
né potevano ricondurne indietro alcuna parte;
infatti tutte le varie specie delle fiere fuggivano qua e là;
come ora i bovi lucani, malamente colpiti dal ferro, sovente
fuggono qua e là, dopo aver fatto stragi di amici.
Se avvenne che facessero questo. Ma a stento posso indurmi
a credere che non abbiano potuto presentire e vedere con la mente,
prima che avvenisse, l'atroce male che li avrebbe colpiti tutti;
e meglio potresti asserire che ciò sia avvenuto entro l'universo,
nei vari mondi in varia maniera creati,
anziché su una qualunque determinata ed unica terra.
Ma vollero far questo, non tanto per la speranza di vincere,
quanto per dar motivo di pianto ai nemici, e perire essi stessi,
giacché non confidavano nel numero ed erano privi di armi.
La veste intrecciata precedette l'abito tessuto.
Il tessuto viene dopo il ferro, perché col ferro s'appresta il telaio,
né in altro modo si posson produrre strumenti così levigati,
spole e fusi, navette e rulli sonori.
E a lavorare la lana la natura costrinse gli uomini prima
che la stirpe delle donne (giacché molto eccelle nell'arte
e molto più industriosa è in genere la stirpe virile),
finché i severi contadini fecero di ciò una colpa,
sì che quelli vollero lasciarne la cura a mani femminili
e sopportare essi stessi ugualmente dura fatica
e indurire in duro lavoro le membra e le mani.
Ma esempio per la semina e origine dell'innesto
fu dapprima la stessa natura creatrice delle cose,
perché le bacche e le ghiande cadute dagli alberi facevano
a piè di questi pullulare nella giusta stagione sciami di polloni;
di là venne anche l'idea di inserire germogli nei rami
e di piantare nella terra novelli virgulti per i campi.
Poi tentavano altre e altre colture del caro campicello
e vedevano che i frutti selvatici si ammansivano nel terreno
per effetto di premurosa attenzione e amorevole cura.
E ogni giorno di più costringevano le selve a ritrarsi
in su, sopra i monti, e a far posto in basso alle colture,
per aver prati, stagni, ruscelli, messi e floridi vigneti
sui colli e nelle pianure, e perché la cerula zona
degli ulivi col suo risalto potesse correre in mezzo,
sparsa per poggi e convalli e pianure; come ora vedi
per varia bellezza risaltare tutta la campagna,
che gli uomini ornano piantandovi in mezzo
dolci frutteti e cingono piantando intorno alberi feraci.
Ma l'imitare con la bocca le limpide voci degli uccelli
fu molto prima che gli uomini fossero capaci di praticare
il canto di versi armoniosi e dilettare gli orecchi.
E i sibili dello zefiro per le cavità delle canne dapprima
insegnarono ai campagnoli a soffiare entro cave zampogne.
Poi a poco a poco appresero i dolci lamenti
che effonde il flauto toccato dalle dita dei sonatori,
scoperto fra remoti boschi e selve e pascoli,
nei solinghi luoghi dei pastori e negli ozi divini.
[Così gradatamente il tempo rivela ogni cosa,
e la ragione la innalza alle plaghe della luce.]
Questi suoni carezzavano loro gli animi e davano diletto,
quando erano sazi di cibo; allora infatti tutto è caro al cuore.
Spesso, dunque, familiarmente distesi sull'erba morbida,
presso un ruscello, sotto i rami di un albero alto,
con tenui mezzi davano giocondità ai corpi,
soprattutto quando il tempo arrideva e la stagione
dipingeva di fiori le erbe verdeggianti.
Allora solevano esserci gli scherzi, allora i conversari, allora i dolci
scoppi di gaiezza; allora infatti la musa agreste era in rigoglio;
allora una libera allegria li spingeva a ornare il capo
e le spalle con corone intrecciate di fiori e di foglie,
e ad avanzare in danza senza ritmo, duramente movendo
le membra, e a battere con duro piede la madre terra;
di lì nascevano risa e dolci scoppi di gaiezza, perché allora
tutte queste cose, più nuove e meravigliose, erano pregiate.
E se vegliavano, di qui avevano sollievo per il sonno perduto:
far passare la voce per molti toni e modulare il canto,
e correre col labbro incurvato su per le canne del flauto;
donde venne questa usanza che anche ora conservano le scolte,
e hanno imparato a osservare i tipi dei ritmi, ma intanto
non colgono affatto un frutto di dolcezza maggiore di quello
che coglieva la stirpe silvestre dei figli della terra.
Difatti ciò che è a disposizione, se non abbiamo conosciuto prima
qualche cosa di più dolce, ci piace sopra tutto e sembra prevalere,
ma per lo più una scoperta posteriore lo annienta
e muta il nostro sentire riguardo a ogni cosa passata.
Così nacque l'avversione per le ghiande, così furono abbandonati
quei giacigli cosparsi di erbe e guarniti di fronde.
Cadde anche nel disprezzo la veste di pelle ferina;
che, quando fu scoperta, suscitò, io credo, tale invidia
da cagionare insidie e morte a chi la indossò per primo;
e tuttavia, lacerata da coloro che se la strappavan di mano,
fra molto sangue fu distrutta senza poter giovare.
Allora, dunque, le pelli, ora l'oro e la porpora tormentano
con affannosi desideri la vita degli uomini e l'affaticano in guerra;
e perciò, come credo, la colpa maggiore sta in noi.
Infatti, nudi, senza pelli, i figli della terra erano martoriati
dal freddo; ma a noi non nuoce affatto l'esser privi
d'una veste di porpora e adorna d'oro e di grandi figure,
purché abbiamo una veste plebea che possa proteggerci.
Dunque il genere umano a vuoto e invano si travaglia
sempre e consuma ‹in› affanni inutili la vita,
certo perché non conosce quale sia il limite del possesso
e generalmente fino a qual punto cresca il vero piacere.
E questo a poco a poco ha sospinto la vita in alto mare
e ha suscitato dal profondo grandi tempeste di guerra.
Ma quelle scolte, il sole e la luna, con la loro luce
percorrendo tutt'intorno la grande, rotante volta del cielo,
insegnarono agli uomini che le stagioni ruotano e che la cosa
si svolge secondo un costante piano e un ordine costante.
Già protetti da torri possenti passavano la vita
e divisa e distinta da confini era coltivata la terra,
e inoltre il mare fioriva di navi volanti con le vele,
già per patti fissati avevano ausiliari e alleati, quando i poeti
cominciarono a tramandare coi canti le gesta compiute;
né molto prima furono scoperte le lettere dell'alfabeto.
Perciò la nostra età non può discernere quel che è avvenuto prima,
tranne che il ragionamento in qualche modo non le mostri le tracce.
Navi e colture dei campi, mura, leggi,
armi, vie, vesti ‹e› le altre cose siffatte,
i doni e anche le delizie della vita, tutte quante,
canti, pitture e statue lavorate con arte, levigate, gradatamente
li insegnarono la pratica e, insieme, lo sperimentare
della mente alacre agli uomini avanzanti passo passo.
Così gradatamente il tempo rivela ogni cosa
e la ragione la innalza alle plaghe della luce.
Difatti con la mente vedevano chiarirsi una cosa dall'altra,
finché con le arti giunsero al culmine più alto.
Ora spiegherò quale sia la ragione per cui attraverso le fauci
del monte Etna spirano a volte fuochi con turbine
tanto grande. E infatti, scoppiata con vasta rovina,
la tempesta di fiamme, spadroneggiando per i campi dei Siculi,
attirò su di sé gli sguardi delle genti vicine,
quando queste, al vedere tutte le regioni del cielo fumide
mandare scintille, riempivano i petti di pauroso affanno,
domandandosi quali rivolgimenti macchinasse la natura.
In queste cose è necessario che tu veda largo e a fondo
e che scruti lontano in tutte le direzioni,
perché ti rammenti che la somma delle cose è infinita
e veda come dell'intera somma un solo cielo
sia una piccola parte e risulti una minima frazione,
né sia tanta parte quanta di tutta la terra è un uomo solo.
Se ti poni ciò bene davanti alla mente e chiaramente l'osservi
e lo vedi chiaramente, di molte cose cesserai di meravigliarti.
Forse alcuno di noi, infatti, si meraviglia se qualcuno
ha contratto nelle membra una febbre insorta con calore
ardente o un'altra qualunque dolorosa malattia nel corpo?
Si gonfia infatti d'improvviso un piede, un acuto dolore
sovente assale i denti, attacca persino gli occhi,
il fuoco sacro scoppia e serpeggiando nel corpo brucia
ogni parte che ha assalita, e s'insinua attraverso le membra,
certo perché esistono semi di molte cose,
e questa terra e il cielo producono a sufficienza morbi e mali
perché ne possa crescere la violenza d'una malattia immensa.
Così dunque si deve credere che all'intero cielo e alla terra
dall'infinito sia fornita ogni cosa a sufficienza
perché possa la terra d'un tratto scossa agitarsi
e per il mare e le terre trascorrere un travolgente turbine,
traboccare il fuoco dell'Etna, fiammeggiare il cielo.
Anche ciò infatti avviene, e s'accendono le regioni celesti,
e tempeste di pioggia scoppiano con maggiore violenza,
quando per caso si sono raccolti così i semi delle acque.
"Ma troppo è enorme il tempestoso ardore di questo incendio".
S'intende; e così è anche per il fiume che appare il più grande
a colui che non ne ha visto prima uno più grande; così sembra
enorme un albero o un uomo; e tutte le cose
che in ogni genere ciascuno ha viste più grandi, se le immagina
enormi, mentre tutte, insieme con il cielo e la terra e il mare,
sono nulla rispetto all'intera somma della somma universale.
Ma ora spiegherò in quali modi quella fiamma, suscitata
d'un tratto, divampi fuori dalle vaste fornaci dell'Etna.
In primo luogo, la natura di tutto il monte è cava di sotto,
generalmente sostenuta da caverne di basalto.
In tutte le spelonche, inoltre, ci sono vento ed aria.
Giacché vento diventa l'aria quando è stimolata da agitazione.
Esso, quando si è molto scaldato e calde ha fatte, infuriando,
tutte le rocce intorno, dove tocca, e la terra, e ne ha fatto
prorompere un caldo fuoco con fiamme veloci,
si leva e si lancia così, dritto per le fauci, in alto.
E così sparge la vampa lontano, e lontano dissemina
le faville, ed emette turbini di fumo con densa caligine,
e insieme caccia fuori massi di mirabile peso;
quindi non puoi dubitare che questa sia la burrascosa forza dell'aria.
Inoltre, su gran parte delle radici di quel monte il mare
infrange i flutti e ne riassorbe il ribollìo.
Da questo mare spelonche s'inoltrano sotterra sino alle alte
fauci del monte. Per questa via bisogna ammettere che passi

*

e lo stato delle cose lo costringe a penetrare a fondo dal mare
aperto, e a soffiar fuori e così levare in alto la fiamma
e lanciare massi e sollevare nembi di sabbia.
Sull'estrema cima ci sono infatti crateri, come li chiamano là,
mentre noi li diciamo fauci e bocche.
Ci sono anche alcuni fatti per i quali non basta dire
una sola causa, ma bisogna dirne parecchie, di cui tuttavia
una sola dev'essere la vera. Così, se per tua parte vedi un corpo
esanime d'uomo giacere lontano, conviene che tu dica tutte
le cause di morte perché sia detta quella che sola è per lui vera.
Infatti non potresti provare che sia morto di spada,
né di freddo, né di malattia, né, putacaso, di veleno;
ma sappiamo che è qualcosa di tal genere ciò che gli è capitato.
Similmente siamo in grado di dire questo per molte altre cose.
Con l'avanzare dell'estate cresce, e inonda i campi,
unico sulla terra, il Nilo, fiume di tutto l'Egitto.
Esso suole irrigare l'Egitto nel pieno della calura,
perché d'estate spirano contro le sue bocche gli aquiloni,
che in quella stagione si dice siano venti etesii,
e soffiando contro la corrente la trattengono e, respingendo
le onde in su, colmano il letto e costringono il fiume a fermarsi.
Infatti soffiano senza dubbio in senso opposto al corso del fiume
queste folate, che giungono dalle gelide stelle del polo.
Il fiume invece proviene dalla torrida zona dell'austro,
e ha la sorgente fra nere stirpi d'uomini dal colore bruciato,
nelle profondità della regione del mezzodì.
È anche possibile che un grande cumulo di sabbia s'erga
contro le bocche del fiume opponendosi alle onde,
quando il mare sconvolto dai venti caccia la sabbia verso l'interno;
così avviene che lo sbocco del fiume sia meno libero
e similmente sia meno agevole l'impeto delle onde.
Può essere anche, forse, che in quel tempo le piogge cadano
più abbondanti verso la sua sorgente perché allora gli etesii
soffi degli aquiloni cacciano tutte le nuvole in quei luoghi.
Certo, quando le nuvole, spinte verso la regione del mezzodì,
si sono radunate, là alfine, sbattute insieme contro gli alti monti,
vengono addensate e violentemente premute.
O forse il Nilo cresce dal profondo degli alti monti degli Etiopi,
quando il sole che rischiara tutte le cose costringe
le bianche nevi, coi raggi che le squagliano, a scendere nei piani.
Ora, suvvia, ti spiegherò di quale natura siano dotati
i luoghi e laghi Averni, quanti ve ne sono.
Anzitutto, quanto al fatto che son chiamati Averni, questo nome
fu imposto per l'effetto, perché sono nocivi a tutti gli uccelli:
e infatti questi, quando a volo sono giunti diritti su quei luoghi,
dimentichi del remeggio delle ali abbassano le vele
e cadono a capofitto, lasciandosi andare col collo flaccido
in terra, se per caso è tale la natura dei luoghi,
o in acqua, se per caso disotto si stende un lago d'Averno.
Un luogo siffatto è presso Cuma, ove fumano monti
pieni d'acre zolfo, ricchi di calde sorgenti.
Ce n'è uno anche fra le mura di Atene, proprio in cima
alla rocca, presso il tempio di Pallade Tritonide, datrice di vita,
dove le rauche cornacchie non spingono mai con le ali
i loro corpi, nemmeno quando gli altari fumano di offerte:
tanto tendono a fuggire, non per evitare le ire acerbe di Pallade
provocate dal loro vigilare, come cantarono i poeti dei Greci,
ma perché la natura stessa del luogo produce da sé l'effetto.
Anche in Siria, si dice, similmente si può vedere un luogo,
dove anche i quadrupedi, appena vi mettono piede,
son costretti dalla sua stessa forza a stramazzare pesantemente,
come se d'un tratto fossero sacrificati ai Mani divini.
Ma tutte queste cose si svolgono per legge naturale,
e son chiare le cause da cui traggono origine;
perciò non si deve credere che in quelle regioni possa esistere
la porta di Orco, e non dobbiamo quindi pensare che per caso
di là dietro gli dèi Mani tirino giù le anime alle rive acherontee,
come spesso si suppone che gli alipedi cervi con le nari
tirino fuori dalle tane le selvagge stirpi dei serpenti.
Ma ascolta quanto questo si discosti lontano dalla verità,
giacché ora tento di parlare della cosa in sé stessa.
Anzitutto dico ciò che anche prima ho detto spesso,
che nella terra ci sono elementi di ogni specie di cose;
molti, che servono di cibo, vitali, e molti che possono
provocare malattie e affrettare la morte.
E prima ho mostrato che per esseri viventi diversi
cose diverse sono più adatte ai bisogni della vita,
perché dissimile è la natura e dissimili sono fra loro
gli intrecci e le forme degli elementi.
Molte cose dannose passano attraverso le orecchie,
molte rovinose e scabre a toccarsi s'insinuano per le stesse nari,
né sono poche quelle che devono essere evitate dal tatto
e fuggite dalla vista e che sono sgradevoli al gusto.
Poi, si può vedere quante cose cagionino all'uomo un senso
aspramente increscioso e siano nauseanti e perniciose.
In primo luogo è propria di certi alberi un'ombra
tanto perniciosa che sovente causano dolori al capo,
se qualcuno si è coricato ai loro piedi, disteso nell'erba.
C'è anche, sui grandi monti dell'Elicona, un albero
che col ributtante odore del suo fiore suole uccidere un uomo.
Senza dubbio tutte queste cose sorgono dal suolo
per la ragione che molti semi di molte cose in molti modi
frammisti contiene la terra e separati li distribuisce.
E nottetempo una lampada spenta da poco, quando con l'acre
puzzo offende le nari, in quel punto stesso assopisce
chi per malattia è solito stramazzare ed emettere schiuma.
E per il greve castoreo la donna giace assopita
e dalle mani tenere le sfugge il nitido lavoro,
se ne aspira l'odore nel tempo delle mestruazioni.
E molte altre cose dissolvono alle giunture le membra
illanguidite, e fanno vacillare l'anima nelle sue sedi.
Infine, se a lungo indugi in un bagno caldo
quando sei troppo satollo, quanto facilmente avviene
che in mezzo alla vasca dell'acqua bollente sovente tu crolli!
E i grevi vapori e l'odore dei carboni quanto facilmente s'insinuano
nel cervello, se non li abbiamo prevenuti bevendo prima acqua!
E quando ci ha invasi la febbre ardente che spossa le membra,
allora l'odore del vino fa l'effetto di un colpo mortale.
Non vedi anche dentro la terra stessa formarsi lo zolfo
e rappigliarsi il bitume dall'odore nauseante,
e ancora, dove gli uomini seguono vene d'argento e d'oro,
frugando a fondo col ferro i recessi della terra,
quali odori emani Scaptensula dal sottosuolo?
E quali miasmi talora esalano le miniere d'oro!
Come riducono le facce degli uomini e come i colori!
Non vedi o non senti dire come sogliano morire
in breve tempo e come manchino di forza vitale quelli
che la grande potenza della necessità costringe a tale fatica?
La terra dunque esala tutte queste esalazioni
e le emana fuori all'aperto e nei liberi spazi del cielo.
Così anche i luoghi Averni devono mandar su un vapore
mortale per gli uccelli, che dalla terra si leva nell'aria,
sì che per un certo tratto avvelena la distesa del cielo;
e appena l'uccello vi è giunto portato dalle ali,
viene impedito in quel punto, ghermito dall'occulto veleno,
sì che cade a piombo sul luogo per cui spira l'esalazione.
Quando vi è precipitato, lì la stessa forza di quell'esalazione
rapisce da tutte le membra gli ultimi resti di vita.
Infatti, dapprima provoca quasi una specie di vertigine;
poi avviene che, quando ormai gli uccelli son caduti
nelle fonti stesse del veleno, lì debbano anche vomitare la vita,
perché grande abbondanza di elementi malefici li attornia.
Avviene anche talora che questa forza e le esalazioni d'Averno
scaccino l'aria, quanta se ne trova fra gli uccelli e il suolo,
sì che in quel tratto resta un luogo quasi vuoto.
E, quando gli uccelli volando sono giunti dritti su quel luogo,
sùbito barcolla il sostegno delle penne reso vano
e tutto lo sforzo delle ali dall'un lato e dall'altro è frustrato.
A quel punto, quando non possono poggiare e reggersi sulle ali,
si capisce che la natura li costringa a cadere in terra per il peso
e che essi, abbattendosi per lo spazio ormai quasi vuoto,
esalino le loro anime per tutti i meati del corpo.
Più fredda, inoltre, diventa l'acqua nei pozzi d'estate,
perché la terra si fa porosa per il calore e, se per caso
racchiude semi di caldo suoi propri, li sprigiona nell'aria.
Quanto più, dunque, la terra è esausta per il calore,
tanto più fredda diventa l'acqua che è nascosta nella terra.
Quando dal freddo poi tutta la terra è premuta, e si contrae
e si rappiglia, naturalmente avviene che nel contrarsi
sprema nei pozzi ogni calore che ha in sé stessa.
Presso il tempio di Ammone, così dicono, si trova una fonte
che è fredda nella luce del giorno e calda durante la notte.
Di questa fonte gli uomini troppo si stupiscono, e alcuni credono
che bolla per l'ardere violento del sole al disotto della terra,
quando la notte ha ricoperto la terra di oscurità spaventosa.
Ma questo è troppo remoto dalla verità.
E difatti, se il sole, tastando il nudo corpo dell'acqua,
non ha potuto renderlo caldo dalla parte di sopra,
sebbene in cielo la sua luce goda di tanto ardore,
come potrebbe esso da sotto la terra, che ha corpo tanto fitto,
riscaldare l'acqua e di ardente calore farla satura?
E questo quando a mala pena esso può per i muri delle case
insinuare coi raggi ardenti le sue vampe.
Qual è dunque la spiegazione? Senza dubbio è questa: la terra
che sta intorno alla fonte si stende più rada che il restante suolo,
e ci son molti semi di fuoco vicino al corpo dell'acqua.
Perciò, quando la notte ha coperto la terra d'onde stillanti rugiada,
sùbito nelle sue profondità si raffredda la terra e si contrae.
Così avviene che essa, come se fosse compressa da una mano,
sprema nella fonte tutti i semi di fuoco che racchiude,
e questi fanno caldo il contatto dell'acqua e il suo vapore.
Poi, quando il sole sorgendo ha disserrato coi raggi la terra
e l'ha diradata mescendovi ardente calore,
di nuovo ritornano nelle antiche sedi gli elementi del fuoco,
e tutto il calore dell'acqua si ritrae nella terra.
Per questo la fonte diventa fredda nella luce del giorno.
Inoltre, l'acqua della fonte è battuta dai raggi del sole
e, avanzando la luce, si fa rada per effetto della tremula vampa;
per questo avviene che lasci andare tutti i semi di fuoco
che racchiude; come spesso emette il gelo che contiene in sé,
e scioglie il ghiaccio e ne allenta i nodi.
C'è anche una fonte fredda, su cui spesso la stoppa
tenuta sospesa prende fuoco d'un tratto e fiammeggia,
e una fiaccola similmente s'accende sopra le onde
e risplende, dovunque, mentre nuota, è sospinta dai venti.
Indubbiamente perché ci sono nell'acqua moltissimi semi
di fuoco, e dalle profondità della terra stessa corpi
di fuoco devono sorgere attraversando tutta la fonte
e insieme spirar fuori ed uscire all'aperto,
tuttavia non così numerosi che la fonte si possa scaldare.
Inoltre, una forza li costringe a erompere fuori d'un tratto
sparsi qua e là per l'acqua e ad aggregarsi in alto.
Similmente, in mezzo al mare, presso Arado, c'è una fonte
che scaturisce con acqua dolce e intorno a sé scosta le onde salate;
e in molti altri luoghi il mare offre
un ausilio opportuno ai naviganti assetati,
perché fra le onde salate fa sgorgare acque dolci.
Così, dunque, per quella fonte possono erompere
e scaturire fuori i semi di fuoco; e quando vengono a unirsi
nella stoppa o aderiscono al corpo della fiaccola,
facilmente ardono sùbito, perché la stoppa e le fiaccole
anch'esse hanno in sé e contengono molti semi di fuoco.
Non vedi anche, quando avvicini a notturne lampade
un lucignolo allora allora spento, come s'accenda prima
di toccare la fiamma, e come con una fiaccola accada lo stesso?
E molte cose inoltre, toccate dal solo calore, divampano
a distanza, prima che il fuoco da presso le pervada.
Questo, dunque, si deve pensare accada anche in quella fonte.
Proseguendo, prenderò a dire per quale legge di natura
accada che il ferro possa essere attirato da quella pietra
che i Greci chiamano magnete dal nome della patria,
perché ha origine nel patrio territorio dei Magneti.
Questa pietra è per gli uomini oggetto di meraviglia,
perché spesso forma una catena di anellini che pendon da essa.
Cinque infatti, e più, è possibile talora vedere
in fila discendente oscillare ai lievi soffi dell'aria,
dove ognuno pende da un altro aderendo di sotto,
e l'uno conosce dall'altro il potere avvincente della pietra:
in modo tanto penetrante il suo potere si propaga.
In cose di questo genere molti punti devono essere accertati
prima che tu possa spiegare la cosa stessa,
e con lunghissimi giri ci si deve appressare;
perciò più attente le orecchie e la mente richiedo.
Anzitutto da tutte le cose, quante ne vediamo,
continuamente devono fluire ed essere emessi e diffusi
corpi che feriscano gli occhi e provochino il vedere.
E continuamente fluiscono da certe cose gli odori;
come il fresco ‹dai› fiumi, il calore dal sole, dalle onde
del mare l'esalazione che corrode i muri presso le spiagge.
Né cessano vari suoni di trasvolare per l'aria.
Ancora, spesso entra in bocca umidità di sapore salmastro,
quando camminiamo lungo il mare; e, d'altra parte,
quando guardiamo mescere infusi d'assenzio, ci punge l'amaro.
Tanto è vero che da tutte le cose emanazioni d'ogni specie
fluendo si distaccano e da ogni parte si diffondono in tutte
le direzioni, né sosta, né requie è mai dato frapporre al fluire,
poiché di continuo i nostri sensi ne sono impressionati, e sempre
possiamo vedere ogni cosa, percepirne l'odore e sentirne il suono.
Ora tornerò a ricordare come tutte le cose abbiano corpo
poroso; ciò che anche al principio del mio canto appare chiaro.
E in verità, benché il conoscere questo sia importante
per molte cose, in primo luogo per questa cosa stessa,
di cui m'appresto a discorrere, è necessario senz'altro accertare
che nulla è percepibile che non sia materia mista col vuoto.
Anzitutto, avviene che nelle spelonche le rocce di sopra
trasudino umidità e stillino gocce trapelanti.
Similmente da tutto il nostro corpo traspira il sudore,
crescono la barba e i peli per tutte le membra, per gli arti.
Il cibo si spande in tutte le vene, accresce e alimenta
anche le estreme parti del corpo e le unghie.
Così sentiamo il freddo e l'ardente calore passare
attraverso il bronzo, così li sentiamo passare attraverso l'oro
e attraverso l'argento, quando teniamo nelle mani coppe piene.
Ancora, le voci attraversano a volo le pareti di pietra
delle case, passano per esse l'odore e il freddo e il calore
del fuoco, che suole penetrare anche il robusto ferro.
Ancora, dove la corazza del cielo cinge dintorno

*

e insieme la forza della malattia, quando s'insinua dall'esterno;
e le tempeste sorte dalla terra e dal cielo, naturalmente,
quando si sono allontanate, si ritirano nel cielo e nella terra;
giacché non c'è composto che non abbia poroso il corpo.
A ciò s'aggiunge che i corpi che sono comunque emessi
dalle cose, non hanno tutti il medesimo effetto,
né nel medesimo modo sono adatti a tutte le cose.
Anzitutto, il sole brucia e dissecca la terra,
ma scioglie il ghiaccio e sopra gli alti monti coi raggi
fa che si squaglino le nevi accumulate in alti mucchi.
Ancora, la cera si liquefà, se viene esposta al suo calore.
Similmente il fuoco rende liquido il bronzo e fonde l'oro,
ma contrae e restringe il cuoio e la carne.
Inoltre, l'acqua indurisce il ferro uscito dal fuoco,
ma ammorbidisce il cuoio e la carne induriti dal calore.
Alle barbute caprette piace tanto l'oleastro, come se proprio
spirasse ambrosia e fosse impregnato di nettare; mentre
per l'uomo non c'è nulla che sia più amaro di questa fronda.
Ancora, il maiale fugge la maggiorana e teme ogni
unguento: difatti per i setolosi maiali sono violenti veleni,
mentre pare che a noi talora quasi rinnovino la vita.
Ma all'opposto, mentre per noi il fango è ripugnantissimo
lordume, questo stesso sembra gradevole ai maiali,
sì che insaziabilmente da capo a piedi si voltolano lì dentro.
Un'altra cosa ancora rimane, che pare da dirsi
prima che io prenda a dire del fatto in questione.
Poiché le varie cose sono dotate di molti pori,
questi devono possedere nature dissimili fra loro
ed avere ciascuno una propria forma e propri condotti.
Difatti negli esseri viventi ci sono vari sensi, ognuno dei quali
accoglie in sé il proprio oggetto in un modo suo proprio.
Invero vediamo che in una parte penetrano i suoni e in un'altra
il sapore dei succhi, in un'altra gli odori esalanti dai cibi cucinati.
Inoltre si vede che una cosa attraversa le pietre
e un'altra il legno, un'altra passa per l'oro
e un'altra esce per i meati dell'argento e del vetro.
Si vede infatti fluire di qua l'immagine, di là passare il calore,
e una cosa più celermente delle altre traversare lo stesso luogo.
È chiaro che ciò avviene per effetto della natura dei condotti,
che, come ho mostrato poc'anzi, varia in molti modi,
a causa della dissimile natura e struttura delle cose.
Dunque, quando questi principi, ben confermati e stabiliti,
ci staranno tutti davanti alla mente, pronti,
per il resto facilmente da essi sarà tratta la spiegazione
e così sarà palesata intera la causa che attira la forza del ferro.
Anzitutto, da questa pietra devono fluire moltissimi semi
o una corrente, che con gli urti disperde
tutta l'aria che è posta fra la pietra e il ferro.
Quando questo spazio si svuota ed in mezzo si sgombra
un'ampia zona, sùbito gli atomi del ferro
corrono in avanti e cadono nel vuoto, congiunti, e avviene
che l'anello stesso li segua ed avanzi così con tutto il corpo.
Né c'è alcuna cosa che sia più intrecciata
nei suoi primi elementi e per stretta coesione più compatta
che la natura del robusto ferro e la sua fredda ruvidezza.
Perciò non fa meraviglia
se i corpi, che in gran numero sono insieme usciti dal ferro,
non possono correre nel vuoto senza che l'anello stesso li segua;
e questo esso fa, e li segue, finché raggiunge alfine
la pietra stessa e aderisce ad essa con legami invisibili.
La stessa cosa avviene in tutte le direzioni: da qualunque lato
lo spazio si vuoti, sia di traverso sia di sopra,
sùbito i corpi vicini si precipitano nel vuoto;
giacché li muovono gli urti dal lato opposto, né essi
possono da sé, spontaneamente, levarsi in alto, nell'aria.
Inoltre vi s'aggiunge, perché ciò possa meglio avvenire,
anche un'altra cosa, che aiuta, e il moto ne è avvantaggiato:
appena di fronte all'anello l'aria è diventata più rada
e il luogo è più libero e vuoto,
sùbito avviene che tutta l'aria che è posta dietro l'anello
quasi lo cacci da tergo e lo spinga innanzi.
Sempre infatti l'aria sferza le cose che circonda;
ma in tale circostanza avviene che spinga il ferro innanzi,
perché da un solo lato lo spazio è vuoto e lo accoglie in sé.
Quest'aria di cui parlo, per i fitti pori del ferro
sottilmente insinuandosi fino alle parti minute,
lo batte e lo spinge, come vento che spinga nave e vele.
Infine, tutte le cose devono nel corpo racchiudere
aria, perché sono di corpo poroso, e l'aria
a tutte le cose sta intorno ed accosto.
Quest'aria, dunque, che addentro sta nascosta nel ferro,
sempre è agitata da moto senza tregua, e così
sferza, senza dubbio, l'anellino e lo spinge dall'interno;
e questo certo va nella stessa direzione in cui già una volta
s'è precipitato e nella zona vuota verso cui ha preso lo slancio.
Avviene pure che da questa pietra talvolta la natura del ferro
si discosti, usando fuggirla e seguirla a vicenda.
Ho visto inoltre saltar su ferrei anelli di Samotracia
ed insieme infuriare limatura di ferro dentro bacini
di bronzo, sotto cui era stata messa questa pietra di Magnesia:
tanto il ferro appare smanioso di fuggir via dalla pietra.
Se il bronzo è interposto, si crea una discordia tanto grande
perché, evidentemente, quando l'emanazione del bronzo
ha prima raggiunto e occupato gli aperti condotti del ferro,
l'emanazione della pietra arriva seconda, e tutto trova pieno
nel ferro, e non ha luogo per cui possa passare come prima;
è quindi costretta a urtare e battere con la sua onda
gl'intrecci del ferro; così respinge da sé e agita
attraverso il bronzo quel che, senza questo, di solito attira.
A questo proposito, cessa di stupirti di ciò: che la corrente
di questa pietra non ha la forza di muover parimenti altre cose.
Giacché alcune stan ferme in virtù del proprio peso: tale è l'oro;
altre invece, poiché hanno corpo poroso, sì che la corrente
vi passa a volo intatta, non possono esser spinte in alcun luogo:
di questa specie è evidentemente la materia del legno.
La natura del ferro, dunque, è intermedia e, quando
ha accolto in sé certi corpuscoli di bronzo, allora avviene
che le pietre di Magnesia la muovano con la loro corrente.
Né tuttavia questi fenomeni son tanto estranei ad altre cose
che solo ben poche cose di questa specie io trovi tali
da poterle menzionare come connesse esclusivamente fra loro.
In primo luogo, vedi che le pietre si legano soltanto con la calce.
Dalla colla di toro il legname è congiunto insieme in tal modo
che spesso le venature delle tavole si schiantano per un difetto
prima che i legami della colla taurina possano allentare la stretta.
Il succo nato dalla vite è pronto a mischiarsi con fonti d'acqua,
mentre non possono far questo la greve pece e l'olio lieve.
E il purpureo colore della conchiglia si congiunge insieme
col corpo della lana, sì che non può esser diviso in alcun modo,
neppure se col flutto di Nettuno t'adopri a ripristinarla,
neppure se l'intero mare voglia detergerla con tutte le onde.
Infine, non è una sola la cosa che unisce l'oro all'oro,
e non è vero che al bronzo ‹il bronzo› è unito solo dallo stagno?
Quanti altri casi ancora potremmo trovare! Ma a che pro?
Né tu hai alcun bisogno di tanto lunghe ambagi,
né a me conviene spendere qui tanta fatica, ma è meglio
brevemente abbracciare molte cose con poche parole:
quei corpi i cui intrecci son capitati in reciproco riscontro,
sì che i vuoti di questo corrispondono ai pieni di quello,
e i vuoti di quello ai pieni di questo, fanno l'unione migliore.
Accade pure che certi corpi possano tenersi congiunti fra loro
come se fossero intrecciati per mezzo di anellini e di uncini:
tale appare piuttosto il caso di questa pietra e del ferro.
Ora spiegherò quale sia la causa delle malattie e donde
la forza maligna possa sorgere d'un tratto e arrecare esiziale
strage alla stirpe degli uomini e alle torme degli animali.
Anzitutto, sopra ho insegnato che esistono semi
di molte cose che per noi sono vitali,
e per contro è necessario che ne volino molti altri che causano
malattia e morte. Quand'essi per casuale incontro
si son raccolti e han perturbato il cielo, l'aria si fa malsana.
E tutta quella forza di malattie e la pestilenza,
o vengono dall'esterno, attraversando nell'alto il cielo
come le nuvole e le nebbie, o spesso si raccolgono e sorgono
dalla terra stessa, quando essa, pregna di umidità,
è diventata putrida sotto i colpi di piogge e di soli eccessivi.
Non vedi pure che dalla novità del cielo e delle acque
sono provati quanti giungono in un luogo lontano dalla patria
e dalla casa, perché grande è la discrepanza delle cose?
Infatti, che differenza pensiamo ci sia fra il clima dei Britanni
e quello che c'è in Egitto, dove l'asse del mondo s'abbassa?
O che differenza fra il clima che c'è nel Ponto e quello
che va da Cadice fino alle nere stirpi d'uomini dal colore bruciato?
E come vediamo che questi quattro climi dalle parti
dei quattro venti e delle regioni del cielo son diversi fra loro,
così si vede che il colore e la faccia degli uomini differiscono
largamente e le malattie s'attaccano ai viventi secondo le razze.
C'è l'elefantiasi, che nasce presso il corso del Nilo,
nel cuore dell'Egitto, e in nessun altro luogo.
Nell'Attica sono colpiti i piedi, e nel territorio acheo
gli occhi. Altri luoghi poi sono nemici ad altre
parti e membra: di ciò è causa il variare dell'aria.
Perciò quando una zona di cielo, che per caso ci sia avversa,
si mette in agitazione e un'aria malefica comincia a spargersi,
come una nebbia e una nuvola a poco a poco s'insinua
e, dovunque s'avanzi, tutto perturba e forza a trasformarsi;
avviene pure che, quando arriva alfine al nostro cielo,
lo corrompa e lo renda a sé simile e a noi avverso.
E così, sùbito questa nuova specie di rovina e di pestilenza
o si abbatte sulle acque o penetra persino nelle messi
o in altri cibi degli uomini e nelle pasture del bestiame,
o anche rimane sospesa nell'aria stessa la sua forza,
e, quando respirando ne immettiamo in noi gli aliti contaminati,
dobbiamo insieme assorbire nel corpo quegli elementi maligni.
In simile modo la pestilenza raggiunge spesso anche i buoi,
e la malattia si estende ai tardi greggi belanti.
Né importa se noi stessi andiamo in luoghi a noi avversi
e passiamo sotto il mantello di un altro cielo,
o la natura spontaneamente porta a noi un cielo corrotto
o qualcosa con cui non siamo avvezzi ad aver contatto,
che può colpirci con l'arrivare improvviso.
Tale causa di malattie e mortifera emanazione, un tempo,
nel paese di Cecrope, rese funerei i campi
e spopolò le strade, svuotò di cittadini la città.
Venendo infatti dal fondo della terra d'Egitto, ove era nato,
dopo aver percorso molta aria e distese fluttuanti,
piombò alfine su tutto il popolo di Pandione.
Allora, a torme eran preda della malattia e della morte.
Dapprima avevano il capo in fiamme per il calore
e soffusi di un luccichìo rossastro ambedue gli occhi.
La gola, inoltre, nell'interno nera, sudava sangue,
e occluso dalle ulcere il passaggio della voce si serrava,
e l'interprete dell'animo, la lingua, stillava gocce di sangue,
infiacchita dal male, pesante al movimento, scabra al tatto.
Poi, quando attraverso la gola la forza della malattia
aveva invaso il petto ed era affluita fin dentro il cuore afflitto
dei malati, allora davvero vacillavano tutte le barriere della vita.
Il fiato che usciva dalla bocca spargeva un puzzo ributtante,
simile al fetore che mandano i putridi cadaveri abbandonati.
Poi le forze dell'animo intero ‹e› tutto il corpo
languivano, già sul limitare stesso della morte.
E agli intollerabili mali erano assidui compagni
un'ansiosa angoscia e un lamentarsi commisto con sospiri.
E un singhiozzo frequente, che spesso li costringeva notte e giorno
a contrarre assiduamente i nervi e le membra, li struggeva
aggiungendo travaglio a quello che già prima li aveva spossati.
Né avresti notato che per troppo ardore in alcuno
bruciasse alla superficie del corpo la parte più esterna,
ma questa piuttosto offriva alle mani un tiepido contatto,
e insieme tutto il corpo era rosso d'ulcere quasi impresse a fuoco,
come accade quando per le membra si diffonde il fuoco sacro.
Ma la parte più interna in quegli uomini ardeva fino alle ossa,
nello stomaco ardeva una fiamma, come dentro fornaci.
Sicché non c'era cosa, benché lieve e tenue, con cui potessi giovare
alle membra di alcuno, ma vento e frescura cercavano sempre.
Alcuni immergevano nei gelidi fiumi le membra ardenti
per la malattia, gettando dentro le onde il corpo nudo.
Molti caddero a capofitto nelle acque di pozzi profondi,
mentre accorrevano protendendo la bocca spalancata.
La sete che li riardeva inestinguibilmente e faceva immergere
i corpi, rendeva pari a poche gocce molta acqua.
E il male non dava requie: i corpi giacevano
stremati. La medicina balbettava in un muto sgomento,
mentre quelli tante volte rotavano gli occhi spalancati,
ardenti per la malattia, privi di sonno.
E molti altri segni di morte si manifestavano allora:
la mente sconvolta, immersa nella tristezza e nel timore,
le ciglia aggrondate, il viso stravolto e truce,
le orecchie, inoltre, tormentate e piene di ronzii,
il respiro frequente o grosso e tratto a lunghi intervalli,
e stille di sudore lustre lungo il madido collo,
sottili sputi minuti, cosparsi di color di croco
e salsi, a stento cavati attraverso le fauci da una rauca tosse.
Non cessavano, poi, di contrarsi i nervi nelle mani e di tremare
gli arti, e di montare su dai piedi a poco a poco il freddo.
Così, quando alfine si appressava il momento supremo,
erano affilate le narici, assottigliata e acuta la punta
del naso, incavati gli occhi, cave le tempie, gelida e dura
la pelle nel volto, cascante la bocca aperta; la fronte rimaneva tesa.
E non molto dopo le membra giacevano irrigidite dalla morte.
E generalmente quando raggiava il sole dell'ottavo giorno,
o anche sotto la luce del nono, esalavano la vita.
E se taluno d'essi, come accade, era sfuggito a morte e funerali,
per ulcere orrende e nero flusso di ventre
più tardi tuttavia lo attendevano consunzione e morte;
o anche molto sangue corrotto, spesso con dolore di testa,
gli colava dalle narici intasate: qui affluivano
tutte le forze dell'uomo e la sostanza del suo corpo.
Se poi qualcuno era scampato al terribile profluvio di sangue
ributtante, ciò nonostante la malattia gli penetrava nei nervi
e negli arti e fin dentro gli organi genitali.
E alcuni, gravemente temendo il limitare della morte,
vivevano dopo essersi mutilati del membro virile col ferro;
e taluni, pur senza mani e senza piedi, rimanevano
tuttavia in vita, come altri perdevano gli occhi:
tanto si era impadronito di loro un acuto timore della morte.
E inoltre un oblio di tutte le cose invase certuni,
sicché non potevano riconoscere neppure sé stessi.
E benché sulla terra giacessero insepolti mucchi di corpi
su corpi, tuttavia gli uccelli e le fiere o fuggivano
balzando lontano, per evitare l'acre puzzo,
oppure, se li assaggiavano, languivano per morte imminente.
E d'altronde in quei giorni non era affatto facile che qualche
uccello comparisse, e le stirpi delle fiere, abbattute,
non uscivano dalle selve. La maggior parte languiva
per la malattia e moriva. Soprattutto la fedele forza dei cani,
stesa per tutte le strade, spirava penosamente;
ché la forza della malattia strappava la vita dalle membra.
Funerali senza corteo, desolati, gareggiavano nell'esser affrettati.
Né c'era specie di rimedio che valesse sicuramente per tutti;
infatti ciò che ad uno aveva dato la possibilità di continuare
a respirare i vitali aliti dell'aria e a contemplare gli spazi
del cielo, ad altri era esiziale e cagionava la morte.
Una cosa, in tali frangenti, era miseranda, e molto,
sopra ogni altra, penosa: ognuno, quando si vedeva
assalito dalla malattia, come se fosse condannato a morte,
perdendosi d'animo giaceva col cuore addolorato
e, rivolto a visioni funeree, esalava l'anima in quel punto stesso.
E infatti il contagio dell'avida malattia non cessava
in alcun momento d'attaccarsi dagli uni agli altri,
come se fossero lanute pecore e torme di cornuti bovi.
E questo soprattutto accumulava morti su morti.
Giacché tutti quelli che evitavano di visitare i congiunti malati,
mentre troppo bramavano la vita e temevano la morte,
li puniva poco dopo con morte turpe e trista,
derelitti, privi di soccorso, la micidiale mancanza di cure.
Ma quelli che davano aiuto, se ne andavano per il contagio e la fatica,
cui allora li costringevano a sobbarcarsi il senso dell'onore
e la carezzevole voce dei languenti con mista una voce di pianto.
Questo genere di morte affrontavano, dunque, tutti i migliori

*

e l'uno sugli altri, gareggiando nel seppellire la folla
dei congiunti; tornavano spossati dal pianto e dal cordoglio;
poi, in gran parte s'abbandonavano sui letti per l'angoscia.
Né si poteva trovare alcuno che la malattia
o la morte o il lutto non colpissero in tale frangente.
Inoltre languiva ormai ogni pastore e custode di armenti
e insieme il robusto guidatore dell'aratro ricurvo;
e ammucchiati in fondo ai tuguri giacevano i corpi
che povertà e malattia avevano dati in balìa della morte.
Su esanimi fanciulli corpi inanimati di genitori
avresti potuto talora vedere, e viceversa figli
esalare la vita su madri e padri.
E in non minima parte dai campi quell'afflizione confluì
nella città: la portò la languente folla dei campagnoli,
che colpita dalla malattia conveniva da ogni parte.
Riempivano tutti i luoghi e le case: tanto più, quindi,
nell'arsura così ammassati la morte a caterve li accatastava.
Molti corpi prostrati dalla sete per via e stramazzati
presso le fontane giacevano distesi,
col respiro strozzato dal troppo deliziarsi d'acqua;
e in gran numero avresti potuto vedere, per i luoghi aperti
al popolo, qua e là, e per le vie, membra languide nel corpo
mezzo morto, orride per lo squallore e coperte di stracci,
perire nella sozzura del corpo, con sulle ossa la sola pelle,
ormai quasi sepolta sotto ulcere spaventose e lordura.
Tutti i santuari degli dèi la morte aveva infine riempiti
di corpi esanimi; e tutti i templi dei celesti
rimanevano ingombri di cadaveri dovunque,
perché i custodi avevano gremito di ospiti quei luoghi.
E infatti ormai né la religione, né la maestà degli dèi
contavano molto: il dolore presente aveva il sopravvento.
Né si serbava nella città quel rito di sepoltura
con cui prima quel popolo sempre aveva usato farsi inumare;
infatti, sconvolto, era tutto preso dal panico; e ognuno, mesto,
inumava il proprio morto ‹composto› secondo la circostanza.
E a molti orrori li indussero ‹gli eventi› repentini e la povertà.
Così con grande clamore ponevano i propri consanguinei
sopra roghi eretti per altri, e di sotto accostavano
le fiaccole, spesso rissando con molto sangue
piuttosto che lasciare i corpi in abbandono.

 

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